Io lo so che ciascuno di voi ha una qualità un po’ particolare e apparentemente secondaria che tiene nascosta rispetto alla sua professione o attività o hobby o passione principale che è invece quella che sbandierate con foto e condivisioni e considerazioni su Facebook. Lo so perché a voi va tutto sempre bene, funziona tutto a meraviglia, succedono le cose più incredibili della storia dell’umanità, avete botte di culo da competizione e salite due a due i gradini della scalinata della vita verso i piani più alti della carriera lavorativa e, più in generale, della soddisfazione esistenziale. Ma poi ogni tanto succede che qualcosina va storto e nella vostra vita da manuale vi si apre una falla, un buco nella recinzione della vostra quotidianità ed e così che quando tutti sono pronti a spiare la vostra vera essenza ecco che quella qualità che tenete latente e sopita ma non per questo poco allenata, questa sorta di rifugio antiatomico o piano b di sopravvivenza estrema, questa cosa che non si sa bene né come né quando siete riusciti a coltivare con una resa che ha dell’incredibile e senza che nessuno fuori se ne accorgesse si impadronisce di voi – voi la impadronivate già da prima ma, appunto, come batteria di riserva – e vi fa fare bella figura, vi salva la vita, vi consente di sbarcare il lunario, vi rende umani e sensibili agli occhi di chi vi riteneva solo macchine da profitto o carriera o anche sesso o persino potere, mette a repentaglio i vostri nemici e spiazza i vostri detrattori, vi consente di ricominciare o anche solo di riprendere fiato, vi guarisce e vi mette al riparo, vi accompagna lungo una riabilitazione, vi fa mettere in aspettativa con tutto quello che avete fatto prima. Il bancario che è anche apicoltore, il direttore delle poste che è anche psicologo, il taxista che fa l’osteopata, la guardia giurata che è un bravissimo acrobata. L’avvocato coiffeur e il commercialista cuoco, l’imprenditrice surfista e il giornalista maratoneta, la farmacista talmente esperta di Dante che potrebbe sbancare un programma come Rischiatutto e la madre di disabile che dipinge come non avete mai visto. L’ingegnere che suona la chitarra in una band heavy metal e il vigile urbano che allena le ragazzine di una squadra di volley. Ecco, ora continuate l’elenco con le vostre e poi parliamo un po’ di me.
personalità
e tu sei compositore o arrangiatore?
StandardI talent show dedicati alla musica che ci fanno vedere qualche dietro le quinte dell’industria discografica o almeno ciò che ne resta, hanno però il merito di dare ai non addetti ai lavori qualche spunto sulle professioni e i ruoli che, ai tempi dello show business, facevano girare milioni di miliardi intorno alle star del pop. Ma alla fine, al netto di tutti quelli che ci lucrano sopra e che vivono a scrocco degli artisti, il sistema si basa su due figure chiave che sono, come si capisce dal titolo, il compositore e l’arrangiatore. Saprete, immagino, di cosa si tratta. Il compositore è la persona che inventa la musica, l’arrangiatore è quello che la confeziona secondo certi requisiti che vanno dal farne una hit al renderla il più al passo coi tempi possibile e così via. Ma quella del compositore è dell’arrangiatore è una efficace metafora della vita grazie alla quale possiamo dividere la maggior parte delle persone in due principali categorie. Quelli che hanno l’idea fine a se stessa e quelli che fanno da intermediari tra l’idea e il pubblico rendendo l’idea monetizzabile o degna di essere proposta sul mercato o comunque con un potenziale tale da renderla oggetto di commercializzazione, in qualche modo. Già il modo di descriverli vi fa capire a chi spetta una maggiore o minore complessità. Chi fa l’arte e chi si sporca le mani. Chi può permettersi di produrre secondo i suoi tempi e chi invece ha scadenze da rispettare e si smazza la fatica sul serio. Ma tornando nel senso proprio della dicotomia tra le due figure della musica, io vi dico che l’unione fa la forza, ovviamente, e come hanno dimostrato i più recenti spettacoli canori di successo, a mettere insieme un compositore e un arrangiatore bravi si fanno faville perché si tratta di due discipline complementari. Chi fa i pezzi e li personalizza, è difficile decidere quando entrambi sono di valore chi ha la maggiore responsabilità. Dalla mia modesta esperienza di musicista posso dirvi che fare l’arrangiatore è molto più divertente e ci si espone anche con moderazione, alla fine se una cosa non funziona non è certo colpa di te che hai messo una batteria e due archi per far filare il pezzo se la canzone non ha vinto il Festivalbar. Tu il tuo lavoro di arrangiamento l’hai fatto, se manca la sostanza mica è colpa tua. Allo stesso modo, parlando di compositori e arrangiatori in senso lato, sono quasi certo che nelle dinamiche interpersonali le cose girano così. Io sono sempre stato un arrangiatore e non ho nessun rimpianto. Datemi in pasto una composizione – ma anche i vostri pensieri o una storia che fila, mi basta quella – e vedrete quello che vi tiro fuori. E che mi dite di voi?
cronache dell’ultima settimana
StandardIn senso lato possiamo ritenerci di passaggio ovunque, c’è chi anche ha intitolato il suo scrittoio virtuale così. Si tratta di una provvisorietà metaforica, come a dire stai qui tutto il tempo che ti serve, che vuoi, che ti è concesso, che c’è scritto sul contratto che hai firmato, e poi lascia tutto come l’hai trovato. Scrolla le briciole dalla tovaglietta, rimetti la sedia sotto il tavolo, se hai consumato qualche provvista lascia comunque qualcosa di utile a chi ti succederà. Allora uno pensa che sia meno traumatizzante il cercare di affezionarsi il meno possibile alle cose, ai luoghi, alle persone. Se ti abitui a non aver bisogno di nulla poi sarà più semplice rinunciarvi. Mi immagino una stanza d’albergo, gli ospiti che consegnano la carta di ingresso al termine della permanenza, gli inservienti che notano se la mattina prima di uscire ti sei preoccupato di rifare il letto perché le lenzuola all’aria danno comunque il senso di sciatteria. Intanto il loro lavoro è quello di cambiarle comunque, poi non credo tengano un registro delle persone più collaborative e meno disordinate da consegnare al direttore della struttura ricettiva, che poi cosa se ne farebbe di un elenco di pignolerie inutili. Senza contare che raramente si è habitué dello stesso posto, ah chi si rivede caro dott. Plus1gmt, lei sì che è un cliente modello che lascia sempre la stanza come l’ha trovata.
E poi non è detto di trovare lo stesso personale alla reception e ai servizi ai piani la volta successiva, sapete come vanno le cose. Anche sul lavoro è bene ritenersi di passaggio, visti i tempi. Ed è per questo che ammiro le persone che lasciano traccia anche per una breve permanenza, per rendere l’ambiente il più confortevole alle loro esigenze. Questo in senso reale e metaforico, s’intende. Quelli che tingono le pareti dell’appartamento in affitto anche se ci staranno solo qualche mese. Spostano mobili e rimuovono quadri orrendi nella casa di campagna in cui soggiorneranno una stagione a malapena. Si impegnano a discutere con la gente conosciuta per caso, pur sapendo che non la rivedranno più. Tutti questi, io un po’ li invidio perché hanno una personalità decisa, vogliono vivere secondo standard ben definiti sotto i quali mai scendere, sono ben ancorati al presente e non perdono tempo ad aspettare sempre il dopo.
Rivisitare ciò che si ha intorno secondo la propria indole è una bella terapia di autostima. Io, per esempio, non ho mai personalizzato il posto in cui lavoro. Il mio ufficio, la mia scrivania, il desktop del mio computer, il salvaschermo. Magari mi viene in mente di farlo. Mettere un portaritratti con la mia famiglia in bella vista. Portare una pianta da curare ogni dì. Ho amici che hanno colleghi che addirittura usano le sciarpe della squadra del cuore come addobbo per il proprio monitor. Mi hanno fatto notare però che spesso la customizzazione dell’ambiente lavorativo (e dell’ambiente in genere) è una caratteristica tipicamente femminile, e in effetti ricordo che gli unici uffici privi di quadri alle pareti in cui ho lavorato erano quelli ad alta densità di ingegneri. Questo significa che se sono così poco attento ai dettagli è perché sono un uomo.
Oltre a questo sul lavoro ci sente sempre meno indispensabili, con la crisi che c’è, quindi forse lì più di altrove è saggio limitare il proprio impatto. Pensate che adesso si sono inventati persino i desktop virtuali e le postazioni libere, negli uffici. Ovvero arrivi, ti siedi nella prima scrivania libera che trovi, accendi il thin client (si chiamano così) che hai a disposizione, inserisci nome utente e password e quello ti ricrea il tuo computer indipendentemente da dove sei e da quale pc stai utilizzando. Un sistema che sarà anche più facile da gestire per le aziende che quello tradizionale, ma che mai come ora ti fa sentire una nullità. Così, di questi tempi, tra quello che si legge sulla disoccupazione e quello che si sente dire sui pronostici della fine del mondo imminente, ho pensato al mio buon proposito per l’anno a venire. Ho deciso che l’anno prossimo, sulla parete a fianco della mia scrivania in agenzia, mi porterò da casa un poster da appendere. Forse sarà David Bowie, forse una stampa di un dipinto di Boccioni, o una foto di Sandro Pertini, o Jean Seberg coi capelli corti in “À bout de souffle”, non lo so ancora. Ma ho pensato di concedermi un prolungamento di quello che faccio e di quello che sono. Se non altro per ricordarlo a me stesso, nelle più barbose operazioni seriali. Certo di non disturbare nessuno.
effetto trilly campanellino
StandardQuello delle scie di personalità, a differenza delle scie chimiche, non è il frutto di un complotto masso-demo-pluto-giudaico delle multinazionali, ma si tratta altresì di un fenomeno facilmente comprovabile a patto di essere disposti ad ammettere l’esistenza e la rilevanza sociale di comportamenti talvolta lontani dal proprio modo di sentire. Attenzione però a non confondere le scie di personalità con il succo concentrato della stessa, ovvero quella fastidiosa funzione di secrezione del sé con cui molti marcano il territorio con l’intento di avvertire a sproposito della loro presenza, e sono pronti a spurgare i loro liquidi con l’intento di scoraggiare i potenziali usurpatori del primato immeritato di accentratori di attenzione altrui.
Perché ci si accorge delle scie di personalità come quando si lascia rapire da qualcosa di impalpabile quando una persona ci passa vicino e percepiamo quell’odore che, sezionato dal nostro impianto olfattivo, ci riporta a essenze che magari è anni che non sentivamo più ma che sono vivide nei nostri ricordi. La marca del profumo che ci ha inebriato al cinema e in un istante eravamo innamorati, il pane rustico cotto nella stufa che riusciva a svegliarci la mattina dal nostro sonno di bambini, la plastica delle copertine per i quaderni appena acquistate in autunno dal cartolaio. Tutto questo è molto proustiano.
Voglio dire, vediamo una persona e senza che dica nulla riusciamo a vedere tutto il suo mondo intorno perché l’aura che la segue lascia molto di sé ovunque. Spesso involontariamente, altrove con l’intento di adattare l’ambiente alla propria permanenza, il che riesce loro per natura e senza nemmeno uno sforzo eccessivo. Io ammiro questi portatori sani di essenza di sé soprattutto perché essi sono in grado di trasformare i propri spazi abitativi definitivi e temporanei apportando customizzazioni ai luoghi in cui esercitano la loro permanenza con minime emanazioni della loro personalità, che gli altri come me che purtroppo non beneficiano di questo superpotere guardano con inutile quanto incostruttiva invidia.
D’altronde, le scie di personalità non sono per tutti. Stiamo parlando di un dono la cui auto-attribuzione è impossibile, ed è facile smentire i fake. E che si tratti anche solo di un appartamento preso in affitto per un mese, uno spazio piccolo come l’abitacolo di una city car, una postazione minima di lavoro in ufficio ricavata da un modulo singolo in un open space sezionato in decine di loculi per impiegati, è semplice scovare le tracce del passaggio di chi beneficia di ciò anche a sua insaputa. Foto appese, il modo di ordinare le proprie cose, un quadro portato da casa, spostare una sedia e un tavolo dalla loro posizione originaria in un appartamento ammobiliato, tingere del colore preferito una rientranza in un muro e farla diventare una nicchia anche se lì ci si stanzierà pochissimo tempo, lo sfondo del desktop del pc aziendale. Il tutto in barba a chi pensa che l’aleatorietà delle permanenze nei luoghi non faccia valere la pena del lascito di un’impronta che prima o poi sarà da cancellare a chi verrà dopo di noi, o, peggio, chi pensa che cambiare ciò che si ha intorno a propria somiglianza poi ci faccia affezionare ai luoghi e, in caso di cambiamenti, ci ferisca inutilmente.