quando lo sciopero non causa disagi è perché i disagi c'erano già prima

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Bianca e Nicola, dal loro bilocale di periferia, annunciano entusiasti di aver superato con successo la prima fase della loro sfida. Bianca e Nicola sono infatti al quindicesimo giorno di sciopero della qualità della vita, dove è sottinteso l’aggettivo buona perché è l’uomo che morde il cane che fa notizia, il sovvertimento dell’ordine naturale delle cose e non certo la banalità dell’osservanza degli standard comportamentali.

Bianca e Nicola si apprestano ad affrontare la terza settimana da trascorrere nella sciatteria e nell’incuria ma, ci tengono a precisare, la loro presa di posizione non costituisce nulla di rivoluzionario e non va a intaccare l’amor proprio che è tipico degli esseri umani. “Ci piace rinunciare alle piccole cose che fanno stare meglio e, facendo così, cerchiamo di erodere la nostra serenità poco alla volta”, precisa Bianca. Mentre mi parla vedo solo la porzione del suo corpo superiore ripresa dalla webcam, ma Bianca non esita a confessarmi di indossare i pantaloni del pigiama, dalla vita in giù “tanto non si vedono”.

Nicola racconta invece qualcuno dei loro esperimenti peggiorativi andati a buon fine. “Ci piace mangiare cibi industriali direttamente dalla loro confezione senza nemmeno metterli nel piatto e senza nemmeno scaldarli quando il cibo lo richiede, il tutto durante pasti consumati senza tovaglia e spesso in mutande”. Bianca e Nicola si sono dotati perfino di crocs contraffatte, acquistate per pochi Euro in quel negozio nascosto dal centro commerciale che fa prezzi stracciati e frequentato dall’underground umano più povero del circondario. “Il cavo dell’antenna TV funziona male ma cerchiamo di resistere senza ripararlo, così i programmi si vedono a singhiozzo ma oggi siamo in grado di resistere al fastidio che questo comporta anche per ore”, aggiunge Nicola, che si è inoltre imposto di non sistemare il rubinetto del bagno che, a causa del calcare, spruzza acqua ovunque e uno dei PC di casa che, dopo l’aggiornamento a Windows 10 da Vista, è soggetto ai comuni crash dovuti al malfunzionamento del driver della scheda grafica.

Nei fine settimana Bianca e Nicola cercano inoltre di farsi soverchiare dalla pigrizia e mandare a monte tutti i programmi fatti nei giorni precedenti. “Ci svegliamo presto ma poi ci mettiamo su Internet o ci dilunghiamo a far colazione (anche se cerchiamo di dimenticarci di prendere il latte), così arriva l’ora di pranzo e la giornata la si può considerare sprecata”. Anche lo smartphone di Bianca funziona male, si surriscalda e dopo pochi minuti di conversazione la linea cade. “Mi guardo bene dal non cambiarlo e, anzi, spero che la connettività dati rallenti ancora di più in modo da renderne inutile l’uso”.

Bianca e Nicola non esitano però a indossare scarpe scomode e a prendere l’ombrello rotto se piove per fare quattro passi nei quartieri periferici più deprimenti di Milano nei giorni festivi, quando in giro non si vede un’anima viva. “Se ci viene sete o fame cerchiamo con cura un bar a gestione cinese con il maxischermo sintonizzato su una rete Mediaset che trasmette un incontro di calcio di serie B a tutto volume, chiediamo una bibita gelata o un caffè di quelli con il retrogusto acido, ci sediamo ai tavolini in mezzo alla gente vestita male e ci leggiamo a vicenda le notizie di cronaca nera sui quotidiani filo-leghisti locali”, aggiunge Nicola.

Poi in fretta tornano a casa, aprono a fatica la porta girando la chiave nella serratura che prima o poi si bloccherà, e riprendono la parte più bella del loro sciopero della qualità della vita, quella domestica, dove non ci si deve nemmeno impegnare troppo per essere rassegnati al punto giusto.

a parlare sono capaci tutti

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L’idea di mescolare tv e radio insieme che hanno avuto alcune emittenti approdate sul digitale terrestre confonde un po’ le cose, impone a chi ci lavora di osservare un dress code più studiato considerando che ti vedono in tutto il mondo ma, ed è qui che la trovata fa la differenza, ti fa capire che gli speaker esistono realmente e fanno il loro show in diretta. E, soprattutto, si vede come lo fanno. Indipendentemente dal fatto che troviate interessanti o meno le cose che dicono, io sono del partito degli “o meno”, ho scoperto che gli speaker radiofonici stanno in piedi e si muovono come i presentatori in tv. La differenza è che non guardano le telecamere ma tengono gli occhi su un monitor o su degli appunti che hanno davanti. D’altronde pensateci un attimo: quando ascoltiamo la musica su che cosa si soffermano i nostri occhi? Io non osservo nulla, è come quando sei a pranzo da solo o quando rifletti su qualcosa e lo sguardo ti si perde nel vuoto tanto che, a chi ti sta vicino, gli viene da agitarti il palmo delle mani davanti per vedere se ci sei ancora o sei altrove.

Certo, rimane il dubbio se prima dell’avvento di questo format multi-canale gli speaker radiofonici stessero stravaccati su un divanetto e la produzione gli ha imposto di mettersi in piedi per non dare l’idea al pubblico e agli sponsor pubblicitari che il lavoro che svolgono è uno di quelli che quando lo dici in giro la gente ti chiede “ok, ma che lavoro fai veramente?”. Un po’ come l’idea che gli anchorman dei telegiornali stiano seduti alla loro postazione in giacca e cravatta ma sotto sono in mutande o, per fare un esempio più vicino a noi comuni mortali, quando fate una video-conferenza da casa e la webcam è puntata sull’unica parete presentabile del vostro studio mentre tutto quello che non si vede è sommerso da cumuli di roba da stirare e pile di stoviglie sporche, e voi avete l’unica camicia pulita ma dalla vita in giù indossate ancora il pigiama e le ciabatte.

A me la cosa che colpisce di più però è come parlano bene, che non si mangiano le parole come me e come la totalità delle persone che conosco, e che però, lasciando perdere i contenuti che è fuffa allo stato puro, hanno una lingua che se ce l’avessi io qui in ufficio colleghi e clienti mi rispetterebbero molto di più. Sarà una questione di esercizio? Io passo il tempo a scrivere stando zitto, non mi esercito e quando sono tenuto a spiegare qualcosa ho sempre tutto in testa ma non riesco a dirlo. Poi la domenica amo fare cose come girellare in bici nella periferia a scovare spunti sufficientemente deprimenti per scrivere post e fare foto ma non mi piace raccontarlo a nessuno. Vedo materassi abbandonati all’ingresso dei cancelli di fabbriche che hanno chiuso da anni, stranieri sgomenti che l’occidente sia davvero così mentre aspettano il tram sotto pensiline arrugginite e tutte pasticciate, tralicci dell’energia elettrica alti come grattacieli che campeggiano su campi incolti a ridosso di quartieri in costruzione e con insegne di discount sullo sfondo al tramonto, avventori di bar a gestione cinese così anziani che quando chiedono notizie sui loro amici che vivono in fondo alla strada e che non si vedono più da mesi sono pronti a qualunque tipo di aggiornamento, anche quello che può chiudere ogni conversazione definitivamente.

la suburbia ha dell’incredibile e nel fine settimana dà il meglio di sé

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La suburbia ha dell’incredibile e nel fine settimana dà il meglio di sé. A me capita di soffermarmi ad ascoltare gli abitanti di queste aree decentrate quando si riversano, nel tempo libero, nei luoghi più frequentati, perché a volte parlano dialetti meridionali così chiusi che non è immediato capire se sono italiani o no. Non solo adulti e anziani, ma anche ragazzi, ventenni e trentenni. Provo a indovinare da quale paese del nordafrica o da quale ex repubblica sovietica provengano, fino a quando un ascolto più attento – ai limiti dello stalking – me ne rivela l’origine. Che poi per me è un generico sud, non sono così colto da distinguere Campania, Calabria, Puglia o Sicilia.

Ma la sorpresa è indifferente alla parlata, nel senso che mi meraviglio di questo culto del dialetto anche tra persone che magari hanno anche un’istruzione di base e che magari vivono nei pressi di Milano da qualche anno, dove frequenteranno scuole o lavoreranno con colleghi nati qui, e mi chiedo come faranno a capirsi. Quelli che mi hanno indotto a questa riflessione stanno sostando insieme a me di fronte a una vetrina di una bigiotteria di un centro commerciale. Ho appuntamento con mia moglie, così ho il tempo di decriptare la loro crittografia orale e venire a capo di quel codice linguistico apparentemente primitivo. Cerco quindi di seguire i loro commenti circa una serie di articoli in vendita proprio nel negozio di fronte al quale ci troviamo sui quali non avevo mai fatto caso prima, a prova del fatto che certe cose si notano solo il sabato pomeriggio.

A catturare il plauso di quella coppia di giovani dall’idioma incomprensibile, un uomo e una donna sui venticinque, è una specie di kit da tamarro dei nostri tempi. Un collier con la scritta love come ciondolo, una coppia di orecchini con un vistoso pitone dorato, anelli con l’effigie del dollaro che imbarazzerebbero persino uno come Flavor Flav. E in effetti sembrerebbero tutti monili da rapper old school di serie B se non fossimo in Italia. Ma poi osservando meglio il pattern grafico sui leggings di lei a forma di teschio capisco di trovarmi proprio qui, nella culla dell’orrore estetico.

Provo anche a paragonare tutto ciò con il senso dell’orrido che vigeva ai miei tempi. C’era un negozietto al mio paesello che si chiamava “La pulce nell’orecchio” e che era una sorta di “Inferno e suicidio” dei poveracci della provincia, ma che tutto sommato aveva una sua dignità e pur vendendo cose piuttosto kitsch non raggiungeva lontanamente le vette agghiaccianti di ora. Ma il peggio deve ancora venire. Dentro vedo un ragazzone supermuscoloso con una canottiera di una squadra di boxe – non so se reale o immaginaria – insieme a una bellezza da Maria De Filippi con pantaloni così aderenti che spiegano la presenza di quell’energumeno a suo fianco. Più ostentano l’inclinazione all’accoppiamento e più necessitano di qualcuno sufficientemente prestante da allontanare gli attacchi degli esemplari in calore. In natura funziona così. In cambio della protezione c’è più possibilità di usufruire dell’esclusiva dell’offrirsi.

Per fortuna la coppia che è lì fuori con me si ricongiunge finalmente con la famigliola di cui era in attesa, qualche parente immigrato con cui hanno pensato di stemperare il ricongiungimento in quel tempio della sintesi socio-culturale. Ma non posso non provare tenerezza per la figlia, già con evidenti problemi di alimentazione in eccesso così piccola, avrà dieci anni come la mia. Magari i genitori cercano di stare attenti ma, dovendo trascorrere tutto il giorno al lavoro e lontano da lei, non possono tenere sotto controllo i nonni che non si fanno tanti problemi nel chiudere un occhio su un boccone in più. Mi immagino il nonno che di nascosto divide il lardo in mezzo al panino con la nipotina, ma solo per una reminiscenza personale.

La suburbia milanese ha un altro primato: è l’unica zona in Italia con un microclima tale per cui a marzo gli adolescenti maschi indossano già le bermuda. Mi viene in mente l’episodio dello stolido che ha contestato il sindaco Pisapia qualche giorno fa che si è presentato in pantaloncini corti di fronte a un’autorità. Ma in quel caso, oltre al qualunquismo del suo intervento, era già abbastanza sconvolgente il rivolgersi a un adulto dandogli del tu. Mi sono immaginato così i genitori di quel Salvini o Di Battista in miniatura, quelli che quando il figlio va male a scuola se la prendono con gli insegnanti con il loro italiano stentato da visioni televisive di massa.

Finalmente arriva mia moglie e, prima di allontanarmi, vedo l’insegna di un protagonista dei non luoghi commerciali della periferia che è uno dei tanti franchising di “Piazza Italia”, più volte alla ribalta per campagne pubblicitarie basate su alcuni aspetti dello squallore della nostra miseria culturale. Mi chiedo, e lo chiedo a voi, se non avrebbe avuto più successo chiamandosi direttamente “Pazza Italia”, quasi quasi provo a proporglielo.

che cosa c’è ancora dietro via olgettina?

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Il modo più immediato e veritiero per vedere sotto una diversa ottica il paese dell’hinterland milanese in cui vivete è recarvi con una qualsiasi scusa in un altro paese dell’hinterland milanese che non è il vostro, di domenica o in un qualsiasi giorno da santificare – come l’Epifania – e giungerete alla conclusione che il paese dell’hinterland milanese in cui vivete tutto sommato non è meno peggio di molti altri. Chi vive nella periferia nord-ovest industrializzata troverà invivibile il mix tra ruralità agricola e quartiere dormitorio in molti casi a cura di qualche controllata Fininvest del sud-est, chi vive nel nord-est pre-Brianza dai sobborghi popolari della prima ora troverà i sobborghi della seconda ora post-Giambellino a sud-ovest altrettanto modesti e così via.

Io che vivo in una comunità che a meno di un chilometro da Milano fa di tutto per ritagliarsi una sua indipendenza sociale e culturale dalla metropoli pur beneficiando della forza centrifuga della stessa, uno di quei posti dove il dì di festa mantiene inalterata la sua dimensione di ricongiungimenti familiari con tanto di bignè, ne rivaluto prontamente la morfologia urbanistica, i piani di gestione territoriali dell’ultimo mezzo secolo, la stessa geografia umana e persino il bar tabacchi con i videopoker quando capito in un posto come Segrate quando è festa. Se siete residenti a Segrate non me ne vogliate, non è una questione personale, come dicevo su se venite dalle mie parti probabilmente provereste le stesse emozioni, è solo una questione di identificazione con la periferia di appartenenza.

Il motivo è che in un qualsiasi non-giorno come il sei di gennaio Segrate – ma ripeto è uno come tanti di quegli altri paesi che sembrano imperativi lombardi, il mio per esempio può essere inteso come un invito a innovare – magari con la complicità di una spolverata di nebbia, vi farà venire in mente quanto siete fortunati quando scendete a grattare via il ghiaccio dal parabrezza nel paese dell’hinterland milanese in cui vivete e qualche straccio di marito depresso in tuta con sigaretta e cane di grossa taglia al seguito o qualche podista single vestito di tutto punto con abbigliamento tecnico entry-level del Decathlon e app per il computo della velocità media attiva su smartphone di accompagnamento vi danno la certezza che il mondo non è affatto finito, ma si sta consumando l’ennesima sbiadita parentesi tra un giorno produttivo e quello dopo.

Vi viene invece da pensare a chi abita a Segrate in un qualsiasi non-giorno come il sei di gennaio, passando di lì in uno scenario fatto di condomini e insediamenti residenziali in serie, e poi magari il giorno dopo è costretto a recarsi al lavoro in un ufficio di quelli dove c’è competizione alle stelle ed è un attimo a perdere il posto e a trovarsi solo con un curriculum davanti e un accesso Linkedin di dietro. Immaginate una tragedia del terziario avanzato di un manager di qualcosa che è stato messo fuori in quattro e quattr’otto tra il sollievo dei colleghi che vedono così ampliarsi il proprio portafoglio clienti dopo aver cannibalizzato quello del tutt’altro che compianto ex manager che si consuma nella solitudine di un bi-locale arredato Ikea in uno di quei palazzi lì, in un qualsiasi non-giorno come il sei di gennaio a Segrate. Proprio mentre nella via sotto sto passando io, rimbalzando tra una cassanese e una rivoltana, mentre mi ricordo che lì vicino c’è uno dei miei, di clienti, che tutte le volte che ci devo andare mi sale l’ansia dal giorno prima e arriva al top già quando esco dalla tangenziale che è ancora buio e leggo i nomi dei bar e delle tavole calde a gestione cinese lungo i controviali che chissà come si imboccano.

Ecco, poi vengo via da Segrate che per fortuna è ancora l’Epifania e mi pregusto il ritorno nel mio paese dell’hinterland milanese che davvero in confronto, pur nella sua insulsaggine, è Colle Val d’Elsa. Il mio appartamento con le inferriate a prova di intrusione rumena con vista su distributore Total, il mio quartiere color mattone esselunga, le diffuse architetture neo-liberty-eclettico dovute al monopolio edile di un’impresa di costruzioni a completa gestione albanese, il vicino di sopra che ha messo luci colorate in salotto che in confronto una palla da discoteca è un tubo al neon di un ufficio postale anni 70.  Come dice il poeta Lorenzo Jovanotti, parole che uno come Renzi potrebbe twittarmi in un giorno come questo per farmi coraggio con qualche emoticon di consolazione, casa è dove posso stare in pace. Ah, e dietro via Olgettina, che è Milano Due, c’è proprio Segrate.

natura morta con sindacati

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Le cornacchie che gracchiano volando in tondo a bassa quota come avvoltoi sui campi color grigioverde ghiacciato sono un quadretto tipico di metà febbraio, specie se osservato attraverso i fumi euro4 di una berlina grigio multinazionale da cinquantamila euro almeno guidata da un anziano e in coda come tutti quegli altri che la mattina presto si recano al lavoro, mentre loro chissà dove a godersi la pensione durante l’ora di punta dell’operosità moderna. Che bello. E che fortuna questo affollamento allegorico nemmeno fossimo in Versilia con le stelle filanti e i coriandoli anziché in questo interregno di pre-quaresima o giù di lì. La stagione fredda e la stagione economica, il nonno al caldo con il turbo e il cambio automatico e il giovane impiegato che, nel parcheggio oramai preso d’assalto dai camper in letargo in questa ipocrita forma di rimessaggio che sta omologando tutto il territorio verso un infinito Viale Triboniano, raschia via le tracce della temperatura sotto zero. Il lascito della notte da poco terminata che ricopre l’utilitaria in plastica rinforzata dono di mamma e papà per il nuovo corso della sua vita, coinciso con un posto da tirocinante in uno studio di avvocati a botte di tre-quattrocento euro al mese. Con l’aggravante del ritardo che un mediocre sistema di scongelamento del parabrezza impone di questi tempi e l’inconfondibile linea di basso della colonna sonora di Ghostbusters che si percepisce da un furgone zeppo di carpentieri rumeni probabilmente reclutati a giornata e in nero.

Ma, tutt’intorno, noi donne e uomini in età produttiva ci apprestiamo a lasciare incustodita la nostra roba nelle nostre case, in un mondo abitato da consulenti che, fieri della loro più avanzata tappa evolutiva, vivono usi invece a portarsi dietro tutto. Ed è per questo che la tecnologia miniaturizzatrice, sulla quale siamo certi la ricerca e lo sviluppo continueranno a puntare nei prossimi decenni, su di loro sortisce effetti senza precedenti. Poi la Micra color glicine ridotta a un esperimento di de-costruzione meccanica a seguito di un tamponamento alla rotonda su cui svetta il messaggio sardonico di uno sponsor che mette la natura al centro getta lo scompiglio – probabilmente è la macchia di colore – in quello scenario a cui nessuno fa più caso. I lampeggianti e gli agenti della polizia locale ormai privi di quella gestualità espressiva che un tempo attirava la stima di infanti smaniosi di indossare una divisa e dirigere il traffico con eleganza e guanti bianchi. Allora meglio da grandi diventare macchinisti ferrovieri e godersi lo sciopero, che tanto oramai nessuno sa che farsene del proprio tempo passato in attesa del prossimo convoglio ragionando su tutte le combinazioni di trasporto alternative per sopravvivere, almeno fino al rientro a casa.

amara terra mia

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L’attaccamento dell’uomo alla natura e secoli di storia contadina si riversano nel presente ma, come potete immaginare, non trovano molto spazio soprattutto in questa imponente area metropolitana che fa da trait d’union tra Milano e tutte le altre città della Lombardia. Così, di questa linfa, si impregnano solo le piccole zolle che stanno ai margini delle strade, sotto gli svincoli della tangenziale, nel giardino delle villette a schiera o nei rimasugli di terreno a ridosso dei parchi pubblici che le amministrazioni comunali hanno dimenticato, troppo piccoli per essere edificati. Così, forte di un’indole coltivatrice, l’abitante dei sobborghi nel tempo ha imparato a farle proprie, terra di nessuno vuol dire terra di tutti, quindi anche mia, no? Così una baracca in lamiera un giorno, un recinto il giorno dopo, un cancelletto di fortuna con lucchetto e l’orticello abusivo da hinterland è servito. Stagione dopo stagione lo si nota sempre più rigoglioso e non si capisce il perché e il percome, il clima è quello che è e poi non si riesce a immaginare la qualità di un pomodoro nato e cresciuto tra il traffico dell’ora di punta, le piogge acide e il suolo infiltrato da chissà quali deflussi industriali. Cogli l’ortaggio di stagione, lo lavi e lo metti in tavola, fiero dell’aver strappato a una landa impossibile il frutto del legame con i tuoi avi, anzi degli avi che qui c’erano prima che tu arrivassi da chissà dove. Poi, per sfruttare al massimo il tuo fazzoletto di terra e ottimizzare la produzione, tenti anche la rotazione delle colture e trovi stratagemmi come appendere compact disc agli alberelli probabilmente a scopo di spaventapasseri, ed è facile immaginare il risultato visto da fuori. Unito alla sedia sfondata recuperata nella spazzatura e alla rete da materasso utilizzata come porta (ma questo è più una caratteristica degli orti della campagna ligure) restituisce un quadro ancor più desolante della cornice. Ma un piatto di insalata autoprodotta val bene l’occupazione di suolo pubblico, per non parlare del tempo che ci si può dedicare a respirare aria buona, in aperta periferia.

scherzetto

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Passo a fianco di un crocchio di giovani ragazzine cinesi tutte in ghingheri, oggi è giorno di festa e si divertono come noi. Una di loro parla al cellulare con un tono altissimo e le altre indicano particolari di quella strada a semicerchio puntando le braccia e il dito della mano come un fucile, mentre quella che conversa al telefono segue divertita il gioco delle direzioni fino a quando si ferma con il naso diretto sulla bancarella abusiva di ombrelli e altri oggetti dal ciclo di vita brevissimo, ecco perché non avrebbe senso pagarli più del prezzo che è indicato in due lingue sul cartellino. La famiglia mediorientale che si sfama della vendita di cianfrusaglie in quell’angolo di periferia segue distrattamente il gioco delle incomprensibili teenager dagli occhi a mandorla. La mamma, sullo sgabello e avvolta in teli scuri, appoggia la schiena al furgone, il marito mette un po’ d’ordine tra la mercanzia e i figli accendono e spengono una minitorcia in dotazione a un portachiavi.

Il portone della festa è poco più avanti, provo a citofonare ma non risponde nessuno, non si sente nemmeno nessun segnale acustico. Ne deduco che sia rotto, non oso fare la prova con altri interni del palazzo, leggo cognomi di altre nazionalità e ho paura di non riuscire a spiegare perché ho bisogno di entrare lì. Poi scende un tizio in tuta da domenica, la tipica marca a tre righe più una, la sigaretta accesa e il sacchetto dell’immondizia e riesco a passare il primo livello. Il secondo è un ulteriore portone interno, anche lì il citofono è rotto, ma ancora una volta vengo salvato da una famigliola che esce a fare quattro passi con i figli. Mi chiedo dove passino il tempo libero, quali parchi ci siano in quella zona, se si accontentano delle aiuole come quel gruppo di indiani che ho notato qualche isolato prima mentre cercavo parcheggio, due famiglie che hanno improvvisato un picnic con tanto di plaid in pochi metri quadri di verde urbano, tra il marciapiede e la strada, la classica scena che mi fa venire in mente Marcovaldo e i funghi in città.

L’appartamento della festicciola ha l’ingresso proprio a fianco di quel portone interno, si tratta di un ex casa dei portinai, poi ridestinata a uso residenziale a tutti gli effetti. Suono e mi apre il padre della compagna di classe che ha invitato mia figlia, che dal momento in cui ho parcheggiato fino lì mi ha tenuto stretta la mano guardandosi intorno, fiera nel suo cappello da strega e nel suo mantello nero. Dentro casa gli ambienti sono in miniatura, c’è qualche amico di famiglia che ha accompagnato i bambini alla festa e si è fermato con i genitori per un caffé, nel tinello adiacente al cucinotto ci si sta a malapena in tre o quattro, le sedie sono già tutte occupate e così decido che è meglio andare via subito. Scambio qualche battuta con la mamma, è al secondo ciclo di chemioterapia e indossa la parrucca castano chiaro, non ricordo i suoi capelli originali ma forse sono biondi. Il marito mi toglie dall’imbarazzo per mostrarmi la cameretta dove i bambini sono già nel pieno della festa, lo seguo in un saliscendi di ambienti mossi e stretti, passo in una sala in cui noto appesi alle pareti puzzle di paesaggi completati e incorniciati a fianco di una stampa con un tramonto sul mare, sopra all’immancabile LCD ad alta definizione a non so quanti pollici.

Mi viene incontro una ragazzina mai vista con evidenti problemi di sovrappeso che tiene per mano la sorellina vestita con un costume da principessa, subito non colgo il link con il tema della festa poi però lo colgo ed è un tema che si potrebbe definire povertà, ma non voglio farlo perché c’è una dignità in tutto questo, e non è giusto che la povertà sia stata invitata oggi qui, a dissetarsi di bibite del Billa e pane confezionato spalmato di Nutella. Posso offrirti una tazza di caffé? No guarda mi spiace ma ho lasciato l’auto con le quattro frecce davanti la fermata del bus, ora non credo che oggi passino gli ausiliari a fare le multe ma meglio non sfidare la sorte. Chiaro che è una bugia. E sulla parola sorte mi sorprende un secondo link con un’altra cosa a cui non ho voglia di pensare, ci sono i bambini mascherati, tra cui mia figlia. Esco fuori, le ragazzine cinesi non ci sono più, la famiglia di venditori abusivi ride con una coppia di anziani. Penso che anche se sono le tre e mezza tra poco sarà buio, perché è cambiata l’ora. Ho voglia di una sigaretta ma non fumo da non ricordo quanto.

sembra ieri

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Ti ho visto, era mattina. Sei uscito all’alba sul balcone in pantofole, canottiera e Levis, la cintura slacciata, hai dato un’occhiata al consueto non-colore del cielo che tradizionalmente fa da controsoffitto sopra a Milano e aree adiacenti, mentre i rintocchi di campane ti hanno annunciato che un altro giorno di festa comandata era appena cominciato. E più tardi, quando tutti erano già svegli, hai deciso di fare un giro in bici da solo, visto che tua figlia non ne vuole sapere di uscire di casa e rimirare le brutture suburbane che ti circondano. Ha solo sette anni, ma già ha sviluppato il suo senso estetico. Come biasimarla. Tua moglie non è da meno.

A te invece piace pedalare lungo la zona grigia, quella sorta di terra di nessuno a cavallo tra la prima cintura metropolitana e la periferia della metropoli stessa. Una linea di confine in perenne crisi di identità: siamo già in città o siamo ancora nei sobborghi? Solo tu trovi affascinante osservare da vicino luoghi e cose che di norma ci si lascia sfuggire dal finestrino dell’auto. Uno scenario costruito unicamente a misura di mezzi di trasporto, che a occhio nudo e statico svela mostruosamente la sua oscenità. I piloni dello svincolo autostradale e il percolato che perpetuo ne fuoriesce, infiltrandosi sotto manifesti di Pittarello e biancheria intima Yamamay, accentuandone lo squallore pornografico. I lati semi-erbosi delle strade, in attesa di essere invasi dell’ambrosia, fanno da letto a vuoti di sottomarche di alcolici da discount.

C’è un sentiero che scorre lungo i binari della tramvia, considerato dai pedoni un marciapiede, dai ciclisti una pista ciclabile. Superi un paio di cinesi che si recano al lavoro, o rientrano camminando dal turno di notte svolto chissà dove, si scostano al campanello, di certo non rivendicano l’esclusiva. Poi il parchetto di quartiere, chi non può fare altro fa festa con i bambini lì, nel frattempo si fa vedere anche il sole.

Poche centinaia di metri su strada, invece, e rischi la distrazione degli automobilisti ben due volte. Non sarebbe giusta la tragedia proprio oggi. Ti viene subito in mente quel motivetto anni ottanta, quello della morte che è dappertutto, ci sono mosche sul parabrezza. Così pensi sia il caso di rientrare; nel rettilineo un ragazzo cammina di fretta, un’auto lo segue da vicino. C’è il padre alla guida, che gli intima di risalire nell’abitacolo. Il figlio non lo guarda nemmeno, gli chiede senza mezzi termini di non rompergli i coglioni e di andare affanculo. L’insulto si perde con un curioso effetto Doppler tra una famiglia cingalese che aspetta il tram alla fermata poco più avanti, intenta ad osservare i manifesti elettorali, i posti di lavoro creati dalla Moratti grazie all’expo e l’espressione corroborante di Pisapia. Dall’altro lato della provinciale, nel parcheggio esterno di uno stabilimento, un tizio malvestito si specchia nel vetro anteriore di una utilitaria, si accende una sigaretta e si guarda intorno sospetto, nella tipica espressione di chi sta per delinquere.

Lo sprint finale, passi sotto il cartello che sancisce l’inizio della competenza territoriale del tuo paese di residenza. Anche lì ci sono case, in un giardino che dà sulla strada un tizio che conosci, è il papà di una compagna di classe di tua figlia, sta accendendo il fuoco di un barbecue. L’odore di grigliata mista, beati loro, ti ricorda allora che c’è vita che ti aspetta. Non sarà giornata di resurrezione a sproposito.