Probabilmente i vostri genitori, come i miei, hanno trascorso trenta o quarant’anni nello stesso posto di lavoro, magari iniziando con altri colleghi stanziali quanto loro, in forza alla stessa organizzazione o azienda da chissà quanto e magari in quelle dinamiche di una volta in cui entravi fattorino e, a furia di studio e impegno, andavi in pensione direttore di qualcosa. E forse i vostri genitori, come i miei, hanno assistito ai primi segnali di cedimento della baracca, nel senso del sistema Paese e del lavoro su cui per costituzione era stato fondato, la modernità fatta di quel carrierismo misto a inappetenza professionale e a trasformazione sociale ed economica con una spruzzata di informatizzazione, per cui la gente dopo qualche tempo si spostava, cambiava reparto, se ne andava e chi si è visto si è visto.
E non ditelo a me, che in quasi vent’anni ho cambiato sei posti di lavoro. So bene cosa vuol dire imballare le proprie scartoffie, il portapenne e i gadget che nell’ufficio successivo saranno soppiantati da complementi d’arredo obbligatori e che quindi destinati a finire in cantina. Portare la focaccia e i pasticcini in onore di tutto il tempo trascorso insieme, le battaglie, le sconfitte, i caffè alla macchinetta, i dialoghi superficiali nei tempi morti, le pause pranzo surreali quanto qualunque altra attività naturale come masticare del cibo con commensali con cui non ci si trova così a proprio agio. Per fortuna, o per disdetta, si tratta di situazioni sempre più rare, vi sfido a trovare qualcuno che sua sponte cambia lavoro di questi tempi in cui butta davvero male.
Restano però le esperienze professionali chiuse per motivi anagrafici, come quella che chiamiamo pensione e alla quale non sappiamo più se avremo diritto o meno. Cerco di immaginare così come possa essere l’ultimo giorno di lavoro per professioni particolari, o almeno molto diverse da un banale impiegato quale sono io. Il bagnino che provvede a chiudere ombrelloni e sdraio l’ultima sera e poi si avvia a una cena a base di pesce presso lo stabilimento balneare in cui lavora. La guida che racconta il dipinto nella sala che conclude il percorso del museo in cui svolge la sua attività e magari, proprio in quella descrizione finale, riesce a cogliere un particolare che, nella riproduzione mnemonica dei suoi studi di storia dell’arte, non aveva mai notato in tutta la sua carriera. L’arbitro che fischia la fine dei tempi supplementari di una finale e si avvia definitivamente tra gli insulti del pubblico vero gli spogliatoi, una metafora mica male per una vita professionale.
Ma leggevo poco fa di un tizio della NASA che, a ottant’anni e in pensione da un pezzo, amava tanto il suo lavoro da continuare a voler trascorrere le sue giornate portando i turisti a spasso per Cape Canaveral e di come ha condotto l’ultimo giro per i suoi visitatori prima di doversi ritirare per sempre. Ho pensato che uno così potrebbe essersi procurato, come me, il documentario che tenta di spiegare che il primo allunaggio in realtà è stata tutta una messa in scena, una specie di complotto cinematografico ordito contro gli avversari della guerra fredda per il quale è stato scomodato come regista addirittura Stanley Kubrick. Ecco, magari l’ex impiegato della NASA ha pensato di celebrare il primo giorno di lontananza dall’ambiente astronautico con un programma televisivo che avrebbe potuto aprirgli un nuovo punto di vista su quello che è stato il lavoro di una vita e dare una inedita chiave di lettura dei valori che ha cercato di trasmettere da sempre a migliaia di americani. Per poi scoprire che in quel documentario non c’è niente che possa essere considerato veritiero, come è successo a me, e cambiare canale dopo un po’, fino a spegnere la tv e a cercare un altro modo per passare il tempo.