Aprire una busta o un pacco e trovare dentro un brandello umano è stato uno dei miei peggiori incubi durante l’infanzia. Chi è cresciuto negli anni settanta non ha avuto certo di che annoiarsi in quanto a paure suscitate dai fatti di attualità, e l’idea di quella macabra corrispondenza in transito sopra le nostre teste o mescolata alle comuni cartoline delle vacanze nei vagoni postali mi faceva rabbrividire. C’era anche il terrore che qualcuno mettesse una bomba nel portone, o di trovarsi coinvolti in una rapina a mano armata. Tutto merito del telegiornale all’ora di cena che è stato per almeno quindici anni un bollettino di guerra e che ci faceva vedere facce poco rassicuranti di ricercati, terroristi e delinquenti comuni che rilasciavano dichiarazioni ai giornalisti o dalle sbarre delle gabbie durante i processi, il che dava l’impressione che comunque la cosa non finiva lì. Poi gli animi più sensibili si portavano quelli come ultimi ricordi prima di addormentarsi, quindi potete immaginare che cosa il subconscio infantile era in grado di sceneggiare una volta spenta la luce.
Ma quella dei pezzi tagliati ai rapiti per dimostrare la veridicità del gesto mi aveva impressionato quasi più dello sguardo cinico di gente del calibro di Mario Tuti o Guido Giannettini. Il sequestro di persona è stata un’attività criminale che ha avuto una diffusione molto ampia in quel periodo, ora non ho dati alla mano ma per quello che mi ricordo tra il banditismo, i gruppi terroristici e la delinquenza organizzata era un continuo rapire persone a scopo di estorsione. Oltre a De Andrè, uno degli episodi più noti è stato quello di Paul Getty, o meglio John Paul Getty III, il nipote dell’omonimo petroliere americano rapito dalla ‘ndrangheta nel 1973. Come ricorderete, per spingere la famiglia a pagare l’oneroso riscatto, i sequestratori mozzarono un orecchio all’ostaggio e lo fecero pervenire alla famiglia, una pratica oltremodo barbara che, alla luce poi di molti altri cruenti episodi accaduti, non fu nemmeno una delle cose più crudeli perpetrate all’opinione pubblica, oltreché alle persone coinvolte.
Ma quello che mi sconvolse di più fu la foto di Paul Getty dopo la liberazione, mostrata con indifferenza alle otto di sera a grandi e piccini. Il profilo menomato dell’uomo trasferiva tutto il senso della libertà individuale interrotta con la violenza e la costrizione, il che potrebbe suonare strano tra notizie assai più forti come la guerra in Vietnam, le stragi, i conflitti tra stato e gruppi armati. Ma i bambini più semplici, come potevo essere io, non hanno quella sensibilità globale di pensare così in grande. Il perimetro domestico è lo spazio da difendere, l’internazionalismo e la solidarietà collettiva sono concetti troppo evoluti per una coscienza immatura. Confessai questa fobia a mia mamma, le dissi anche che avevo una giustificata convinzione di poter temere il mio rapimento. Lei mi rassicurò sul fatto che le persone poco abbienti come noi non avevano nulla da temere. Nessuno rapisce qualcuno se non c’è la possibilità di ottenere miliardi, mi disse, noi siamo fuori pericolo, non ti devi preoccupare. Che fortuna essere poveri, pensai. Ed ecco, vorrei sbagliarmi, ma quella è stata, credo, l’unica volta.