Con lei ho sempre parlato chiaro: va bene qualsiasi cosa basta che non mi diventi metallara o grillista. Così ho scelto il male minore e l’ho accompagnata a sentire gli One Direction ma da fuori, davanti all’ingresso di San Siro. I biglietti da settordicimillanta euro per fortuna sono andati esauriti nel giro di pochi minuti il primo giorno in cui sono stati resi disponibili grazie ad altrettanti zelanti genitori di ragazzine di terza media fresche di esame a godersi il premio del meritato diploma. Ci troviamo così tra centinaia di poveracci come noi rimasti fuori. Gente che non avrebbe comunque avuto i soldi per un investimento pop di quel calibro in mezzo a altre centinaia di “dad directions” e “mum directions” in attesa delle figlie entrate per la prima volta da sole in quel tempio della pubertà agli sgoccioli e con svariati gruppetti di “fan directions” escluse non si sa come, a fare la spola tra un varco e quello dopo nella speranza di trovare qualche addetto alla sicurezza caritatevole e propenso a regalare un sogno a qualcuno più meritevole di tutti gli altri. Che ingenuità.
Come da copione molte ragazze scoppiano in lacrime ad ogni inizio di canzone, d’altronde ogni canzone degli 1D è giustamente una hit che ha anche simili poteri. Scene che con tutte le loro sfumature generazionali si sono già viste nella storia con Elvis, poi con i Beatles, poi mi vengono in mente i Duran Duran e qualche altra boy band più recente. E anche la frustrazione di essere privato di un evento di quel tipo, una celebrazione di massa del tuo oggetto di culto, possiamo dire che non ha età, non conosce mode né generazioni. E infatti quando mi rendo conto dell’errore che ho commesso penso di auto-esonerarmi dal ruolo di padre. A me non sarebbe mai venuto in mente di andare a un concerto di Bowie fuori da uno stadio solo per sentire male i pezzi, coperti da decine di migliaia di omologhe dei directioner urlanti. Non mi sarebbe mai balenato nell’anticamera del cervello e so che avrei dovuto fare lo sforzo di dissuadere mia figlia da un’idea così malsana e frustrante come mi è già capitato migliaia di volte di fare per le Barbie nelle versione extra lusso con il cavallo, per il noleggio del pedalò sui canali di Amsterdam con temperature prossime allo zero, per rimandare l’acquisto dello smartphone, per non regalare a una sconosciuta la bambola di pezza dell’equo e solidale a cui sono – io, non mia figlia – così legato.
Ma i ragazzini non si fanno tutte queste sovrastrutture mentali, a loro è sufficiente l’eccezionalità della cosa in sé: essere ai piedi di una costruzione gigantesca come uno stadio di calcio dentro al quale si sta esibendo il loro gruppo pop del momento e di cui percepiscono una riproduzione piuttosto fedele a quella che sono abituati a veder passare su MTV. Il resto sono solo nostre proiezioni. Di lì a poco passa un padre visibilmente nel panico, schiaccia ripetutamente un pallone da calcio mentre chiama a voce alta il nome del figlio, deve averlo perso tra la folla di persone che, mentre la fine del concerto si avvicina, comincia ad accalcarsi nei pressi dello stadio. Un addetto alla sicurezza gli corre incontro e lo avvisa che il bambino è al sicuro nelle mani della polizia. Padre e figlio si ricongiungono con un abbraccio proprio mentre quattro ragazze conciate da supereroe, come citazione di non so quale video, spostano l’attenzione mia e degli altri.
Quindi si consuma il vero dramma: noto un sacco di spettatrici che escono prima che l’ultimo pezzo sia terminato, che per me costituisce un affronto inconcepibile. Come è possibile allontanarsi prima del termine, quando il gruppo suona ancora, senza contare che l’ultimo pezzo, anche se il gruppo si chiama One Direction, è quasi sempre il clou del live, l’acme della serata, la sublimazione, l’atto che consegna quell’esperienza nell’iperuranio dei ricordi di tutta una vita? Che delusione. Che razza di gente è questa che se ne va prima della fine? Che cosa hanno capito della musica e dello spirito di un concerto dal vivo?