[attenzione spoiler] alla fine il cantante muore

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C’è quella scena in cui Jim Morrison, interpretato da Val Kilmer, attraversa un muro di fans che gli lanciano tutte le droghe possibili e lui se le cala o le accende tutte, innaffiando quella merenda itinerante con bourbon o superalcolico equipollente, e sì che era giovane e forte ma riesce male immaginare un essere umano così alterato in grado di sopravvivere il mattino dopo. Ma forse è lì che Oliver Stone ha cercato di condensare la vera essenza di una rockstar entrata nel mito, uno che apre tutte le porte della percezione contemporaneamente senza preoccuparsi della corrente e degli acciacchi che ne possono derivare.

E c’è anche quella scena che racconta il processo creativo del loro successo con la esse maiuscola, come on baby light my fire. Ci sono i Doors al completo in sala prove che provano il pezzo, poi Ray dietro le tastiere sembra un po’ perplesso e fa uscire tutti. Ragazzi andate fuori a impasticcarvi per bene, lasciatemi solo che devo trovare una introduzione di Hammond all’altezza. Due scale, due accordi e miracolosamente il riff è pronto. Okay ragazzi, tornate pure dentro, one two three four e qualche metro di pellicola dopo il pezzo è quello che conosciamo noi. Allora ditelo subito che è lo spettatore che dev’essere più aperto e pronto a recitare egli stesso una finzione, quella di colmare con la propria fantasia tutte le ingenuità narrative, scorporare l’opera a cui sta assistendo da tutti gli accessori interpretativi lasciati lì come trappole nella sceneggiatura, oppure se sei davvero un fan dei Doors ti fai una canna prima e ti vedi il film e a quel punto allora vale tutto, si giunge al nocciolo della biografia che consiste in una vicenda che si sa già come va a finire e alla celebrazione di chi ha fatto la (tua) storia. Forse allora non ha nemmeno senso farci un film sopra, se non per ascoltare un po’ di buona musica sempre che i Doors ti piacciano, o come me li trovi gradevoli ma piuttosto sopravvalutati e offuscati dalla celebrità del loro front man.

Ecco, se c’è un genere di film a cui sono allergico è il biografico di gruppi musicali. Ed è naturale che i soggetti selezionati per la trasposizione sono quelli di maggiore valore artistico, possibilmente maledetti e che hanno fatto una fine più o meno tragica entrando nel mito. E per dimostrarvi che non faccio figli e figliastri, posso dire la stessa cosa di Control, il film sui Joy Division e sulla controversa personalità di Ian Curtis. Finale analogamente tragico al compimento di una trama ricca di cliché su chi sceglie di calcare il palcoscenico e farne il proprio lavoro. Qui le droghe sono più difficili da racimolare, nessuno te le tira addosso o sul palco ma occorre andare a trovare le vecchine con qualche scusa e frugare tra i loro medicinali. D’altronde se vuoi caratterizzare un isterico inventato, faccio un esempio, ci sono ennemila modi per guidare la recitazione dell’attore che hai scelto. Il cantante depresso e fattone invece è così è basta, devi rimanere fedele alla realtà perché hai gli occhi della stampa specializzata puntati contro. Pure il tema della groupie che se lo vuole fare è analogo, come la nascita stessa della hit: artista in posa da riflessione con bloc notes e lapis in mano, ed è un attimo ad essere già in studio di registrazione a sperimentare lo spray per il charleston di “She’s lost control”. Per finire con i titoli di coda con la canzone che ti aspetti essere utilizzata per i titoli di coda, che nel caso di Control è “Atmosphere”. Ecco, io avrei scelto “The eternal”, non lo trovate più adatto?