Risponderei alle numerose riforme e cambiamenti di cui la scuola italiana è stata – giustamente – oggetto negli ultimi anni con una gif animata di una ragazzina di terza media che vomita in un catino qualche ora prima di sostenere l’orale del suo esame di fine ciclo. L’ansia deriva principalmente dal fatto che in questa parte del percorso formativo dei nostri ragazzi si tende sempre più a farli parlare sempre meno e a riempirli di test a risposta multipla, prove Invalsi e verifiche scritte, questo naturalmente in rapporti diversi a seconda dei singoli piani dell’offerta formativa, sensibilità dei docenti, indicazioni della direzione didattica e molto altro.
Il paradosso è che i nostri ragazzi leggono di meno, anzi quasi zero, o meglio leggono diversamente da come lo intendiamo noi. Scrivono di merda per le abitudini che acquisiscono sui loro social media, in classe devono barrare quadratini in corrispondenza della risposta che ritengono più attinente e poi, arrivati alla fine della secondaria di primo grado, si trovano a dover esporre pubblicamente addirittura una tesina. La tesina comprende in sé complicazioni aggiuntive, oltre all’imparare a macchinetta un discorso da esporre divorati dal terrore di fronte ai propri prof. Intanto la dimestichezza con l’uso di uno strumento per presentazioni, PowerPoint in primis, e qui fanno la differenza i genitori come il sottoscritto che se la cavano egregiamente anche come grafici. Quindi la ricerca dei contenuti su Internet, saper discernere le fonti autorevoli dai blog dei grillisti, individuare le immagini corrette verificandone la reale attinenza all’argomento. Ma, a priori, c’è il demone dei collegamenti tra le materie, un fattore per il quale sono gli insegnanti i primi a dare di matto dedicandogli un entusiasmo del tutto sovradimensionato suscitato dall’insana convinzione per cui mettere in relazione cose è sinonimo di acutezza. È così, infatti, ma non bisogna farsi venire la scimmia. Leggete, a questo proposito, questo vecchio articolo di Christian Raimo sull’analoga prova da preparare per l’esame di maturità.
C’è poi un fattore che è quello che meglio trasmette la confusione che regna nel sistema della scuola italiana, un framework che non si merita un giudizio negativo perché, intendiamoci, gestire, programmare e organizzare una cosa dai numeri così immensi non dev’essere un gioco da ragazzi e quindi il fatto che ogni anno, o ogni legislatura, qualcuno se ne inventa una nuova è sicuramente segno di fermento e di progettualità, ma non dobbiamo stupirci se il caos di cui sopra difficilmente ne trae giovamento. Il fattore a cui mi riferivo prima è che il percorso precedente all’esame di terza media, ormai svuotato di ogni tipo di assessment intermedio, sforna generazioni di aspiranti liceali estremamente vulnerabili alle prove necessarie a formulare un loro giudizio oggettivo, che sia in voti o in locuzioni o in lettere, con studenti e studentesse che vomitano a poche ore dall’orale per la paura del tipo di prova che si trovano a sostenere. Questo non significa che giudicare anni di lavoro in venti minuti di conversazione sia una soluzione efficace per valutare competenze, abilità e conoscenze acquisite dei ragazzi. Però allora occorre stabilire convenzioni diverse per accertare il superamento dei passaggi nel resto delle fasi della nostra vita, quelle che ancora si decidono da un’impressione, da un incontro, da un colloquio, da un sì o da un no.