Ci sono certe partite o gare di sport giovanili in cui basta gridare un “brava Giulia” che dai la carica ad almeno cinque o sei ragazze contemporaneamente in campo, di una squadra e dell’altra. Meglio così che i nomi esotici, come quelle sorelle che erano al nido con mia figlia, per le quali i genitori avevano riservato nomi da assistente di Babbo Natale come Lami e Maia. Ve lo immaginate incitare una ragazzina che si chiama così? LA-MI LA-MI LA-MI nemmeno fosse un esercizio di solfeggio del primo volume del Pozzoli (questa la capisce solo chi ha studiato musica). Per carità. Sarebbe però interessante allestire una sorta di “borsa dei nomi” perché anch’essi, come la larghezza del fondo dei pantaloni, subiscono i corsi e ricorsi del tempo nei gusti diffusi della gente, salgono e scendono di quotazione a seconda del momento storico e del contesto geografico, vanno e vengono di moda nemmeno fossero gadget. O forse si: sono solo degli attributi con l’iniziale maiuscola ai quali noi, che li indossiamo per tutta la vita fino a diventare un’unica entità, diamo eccessiva importanza quando magari su qualche altro pianeta ci sono culture dove la sequenza alfanumerica designata per ogni individuo si personalizza a piacimento allo stesso modo in cui – se usate Windows – si schiaccia F2 e si rinomina un file. Poi è chiaro che è fondamentale ricordarsi il nuovo nome, altrimenti quando fate la ricerca con Cortana (e fra parentesi ma che razza di nomi sono Cortana e Siri) siete al punto di partenza e il vostro documento sul quale avete lavorato giorni ma a cui per fare i bastian contrari avete attribuito una stringa di testo a caso finisce nell’oblio dell’esplora risorse. Ma qui da noi non funziona così, i nomi hanno un’importanza persino giuridica e quindi al momento di registrare un nuovo essere umano venuto al mondo è più che naturale comportarsi secondo i valori estetici del momento. Giulia, Martina e Alice, e sono i primi tre che mi vengono in mente, andavano di brutto nell’annata di mia figlia e nell’area in cui viviamo. E credetemi, il mio non è affatto un giudizio morale. Chiamarsi tutti allo stesso modo equivale alla tuta blu della grande rivoluzione culturale maoista, in un livellamento estremo delle particolarità individuali contribuisce ad appianare le differenze e a creare una massa omogenea e uniforme. D’altronde diciamocelo: ma siamo così brillanti e degni di emergere da poterci permettere un nome esclusivo? E poi volete mettere la praticità? Per i genitori è più facile tenere a mente gli amici dei propri figli. Per gli insegnanti non ne parliamo: in classe basta richiamare Luca o Matteo o Tommaso (è sufficiente aver ben chiaro quali sono i cicli: nell’esempio che ho appena fatto, all’incirca dodici anni fa, eravamo in pieno rigurgito apostolico) che almeno un terzo della classe di sente in dovere di smettere di fare caciara.
nomi
scoop
StandardComunque io mi chiamo Roberto, molto piacere. Mi chiamo Roberto come il novanta per cento del genere umano di nazionalità italiana di sesso maschile della mia generazione. Intorno alla metà degli anni 60 Roberto doveva essere uno dei quei nomi di moda o magari c’era qualche personaggio in vista che si chiamava così e tutti i genitori pensavano che dargli lo stesso nome potesse essere di buon auspicio. Vi risulta? C’è qualche studio nell’Internet sulla antroponomastica di massa? Sta di fatto che dalle mie parti c’è stato un periodo quando ero ragazzo e frequentavo i miei coetanei in cui chiamavi Roby e si giravano in venti in un colpo solo. Un amico mio omonimo e il sottoscritto c’eravamo addirittura inventati un programma radiofonico in cui tutti si chiamavano Roberto. I due presentatori, lui e io, gli inviati a raccogliere finti servizi sul territorio, ancora io e lui. Ci sembrava una buona idea da proporre come format a qualche emittente locale. Ci siamo persino incontrati una volta per mettere a punto la puntata pilota con tanto di mixer e registratore. Ma lui aveva un po’ di erba e alla fine abbiamo desistito perché non la smettevamo più di ridere e ci toccava rifare sempre tutto da capo. Fino ad ammettere che l’idea non era granché, meglio archiviarla tra gli ennemila progetti lasciati a metà, anzi meno della metà.
Poi per fortuna la moda di chiamare Roberto è passata, chissà quanti altri trend di questo tipo sono nati, hanno raggiunto il top e quindi tramontati nella severa quanto giusta indifferenza generale. Ma, come tanti altri, vedete che anche i miei genitori si sono fatti omologare dal mainstream e dal momento che cercavano un nome che iniziasse per erre e che completasse la trilogia con le mie sorelle maggiori battezzate con la stessa iniziale hanno pensato a Roberto. Non immaginate quante volte mi sono reputato salvo per miracolo, pensate se avessero scelto Romualdo o Rodomonte o Rastrello. Scherzo eh, che visto come tira il momento vedo già frotte di commentatori che si chiamano così offesi solo perché il loro nome non rientra nei miei gusti. Sì, lo so che rastrello non è un nome proprio ma mi faceva ridere.
Ecco, il nome che è una cosa che volente o nolente ti porti dietro tutta la vita e oltre, perché come se non bastasse arriva il momento in cui te lo scrivono a indicare che in quell’urna è stato raccolto quel poco che è rimasto di te. Ma il vostro nome, se ci fate caso, alla fine quando lo usate? Ok, nei documenti ufficiali, a volte ma non sempre per compilare i form, nella firma, per farvi riconoscere quando occorre. Per il resto ci firmiamo con l’iniziale puntata, come R., oppure con un diminutivo. Io ho scelto Rob, lo uso in calce alle email e non chiedetemi il motivo che non so spiegarlo. Sul lavoro nessuno mi chiama Roberto perché è un nome lungo, credo, o forse perché non mi somiglia e così tutti usano Bob, o Bobby, o addirittura Zio Bob che non so come sia venuto fuori. A scuola sempre per cognome che però non vi dico, mica voglio mettere a rischio la mia privacy on line che già ho rivelato il mio vero nome. Ma perché ci si chiude dietro a nick, poi. Perché si sceglie l’anonimato? Chi crediamo di incuriosire con il mistero di una sequenza alfanumerica come la mia, o con nomignoli evocativi per farci sentire nelle discendenze di qualcos’altro?
In casa mi chiamano papà, papo, per non parlare di tutti i teneri modi di rivolgersi tra partner che ci si potrebbe scrivere un dizionario. Anzi, quando mia moglie pronuncia per intero il mio nome mi suona strano ma non è come nei film che bisogna stare all’erta perché si è agitata per qualcosa. No, lo fa per gioco, per sentire come suona il mio nome con tutte quelle erre, un nome di sicura provenienza germanica. In quel caso mi sento un estraneo, non so se capita anche a voi se avete nomi formati da più sillabe. Devo fermarmi a pensare se davvero si sta rivolgendo a me, a furia di sigle e nick forse è un nome che non mi appartiene più. O forse è solo che nell’era degli indirizzi IP il nome è superato. Comunque io mi chiamo Roberto, molto piacere.
di nome e di fatto
StandardAvevo una prof al liceo che aveva un cognome allarmante, di quelli che se l’avessi io me ne vergognerei e, per citare De Gregori, mi verrebbe voglia di cambiarlo in qualche modo. Anzi farei di tutto, ma dubito che sia possibile. E non si tratta di uno di quei cognomi sui quali tutti fanno della facile ironia perché magari poi sono abbinati a un nome e l’effetto è di quelli esplosivi tanto che ti chiedi ma cosa gli è girato ai genitori di generare un ossimoro o un vero e proprio disastro da registrare all’anagrafe a discapito della loro prole. Un risultato che poi è inevitabile che ai primi esperimenti di vita sociale con esseri umani dotati di pensiero e memoria ci scappa la risatina, questo devo segnarmelo, aspetta che vado a raccontarlo a mia moglie e così via. Addirittura ho un caro amico che se li segna tutti e, su prenotazione, ti mostra questo trattato di idiozia umana mista alla presunzione di poter disporre a proprio piacimento della serenità mentale e della vita stessa dei propri figli. E mi riferisco ai classici casi da barzelletta tipo Remo La Barca e Guido La Moto fino a paradossi veri e propri come Pasqualina Torta, Ercole Sega o cose di gran lunga peggiori che è meglio non riportare che poi Google non perdona e non voglio essere tacciato di grettezza e umorismo da bianco macchiato al bar della bocciofila.
Comunque questa prof si chiamava come la carica con cui Benito Mussolini veniva acclamato dalle folle, ma nel suo caso i suoi genitori le avevano abbinato un nome di battesimo il cui significato in greco è “tempo di pace”, e lei raccontava spesso di questo bipolarismo di cui era stata gravata a sua insaputa peraltro in tempi sospetti, considerando il suo anno di nascita. Ma, detto tra noi, della pace proprio non aveva nulla. Sapeva invece benissimo come farsi malvolere.
Ora, non è questo lo spazio più indicato per i ricordi di scuola, non è un blog per ex liceali. Solo che stamane, appena sveglio, stavo pensando al giorno in cui ho acquistato due dei dischi più belli della mia collezione di vinile. Soprattutto uno. E dico più belli nel senso che sono tra quelli che preferisco e che, malgrado si tratti di roba che ha quasi quarant’anni, sono sopravvissuti nelle mie preferenze ondivaghe e a tutte le mode del momento e a tutti i media con cui ho soddisfatto la mia sete di ascolti da allora. E l’ellepi in questione mi è venuto in mente perché l’ho collegato a un altro episodio.
Avevo ricevuto in ritardo un regalo di Natale da una zia che abitava lontano e che vedevo molto di rado. Si trattava di un regalo in busta, che è il modo fine per dire soldi, contanti, money, dollaroni e tutto quello che può fare la felicità di un ragazzino a cui non manca nulla se non un’esagerazione di dischi che vorrebbe acquistare ma per i quali non ha sufficienti risorse. Quindi, quale miglior modo per investire quelle trentamila lire arrivate a fine febbraio se non in un paio di trentatrè giri? Stiamo parlando dell’82 o giù di lì, se non ricordo male i dischi costavano meno di quindicimila lire e c’erano poi tutte le edizioni special prize o best buy con cui si risparmiava qualcosina anche se era un peccato aver la copertina deturpata da quel marchio che ai puristi suonava come un’onta.
Ma, per farla breve, mentre rientravo a casa con quella busta in nylon sottobraccio fiero di ciò che finalmente ero riuscito ad accaparrarmi, non avevo notato di essere notato, spiato, se non addirittura seguito. Probabilmente la prof dal peggior cognome che si possa desiderare mi aveva visto uscire dal negozio di dischi, o mi aveva osservato correre verso casa con il sacchetto recante la pubblicità di una etichetta discografica che non lasciava dubbi sul suo contenuto. Tant’è che qualche giorno dopo, forse a seguito di una prestazione scolastica non esaltante, mi rimproverò sul pessimo uso che secondo lei stavo facendo del mio denaro. Dovresti comprarti dei libri e non dei dischi, queste probabilmente furono le sue parole o comunque il senso era quello. La letteratura è importante almeno quanto la musica, nelle arti. Come darle torto, del resto. Ma, e lo sapete meglio di me, se i modelli sono da una parte “I promessi sposi” e dall’altra i “The Sound”, a un ragazzetto di quattordici anni non è che lo puoi biasimare più di tanto.
La storia finisce bene, perché più tardi ho iniziato ad apprezzare la letteratura tanto quanto la musica se non di più, i libri continuo a non comprarli ma solo perché ho la fortuna di avere a disposizione un consorzio di biblioteche che funziona che è una meraviglia, i dischi invece sì ma solo quando vengono stampati su vinile, e quel trentatrè giri è in perfetta forma, tanto che l’ho addirittura scelto come avatar per la mia seconda, anzi, terza vita qui sopra. La prof probabilmente è morta da un pezzo, almeno credo, e chissà che almeno una volta in pensione non abbia imparato a presentarsi agli altri solo con il nome e a trovare quella pace dentro che la carta d’identità beffarda, per tutta la vita, le aveva reso ostile.
dillo con una canzone
StandardMi si lasci spendere qualche parola di conforto per le persone i cui nomi sono celebrati da canzoni di successo e subiscono come costante della loro vita gli accostamenti ai personaggi a cui la canzone stessa è stata dedicata dall’autore o, peggio, i più discutibili adattamenti. Sappiamo infatti che le parodie delle liriche pop sono uno dei peggiori esempi di umorismo fatto in casa, diffidate da chi vuol farvi ridere con questo tipo di personalizzazioni a meno che i vostri conoscenti non frequentino la scuola media inferiore. Massima solidarietà invece a chi ogni volta in cui viene presentato a qualcun altro è esposto per l’ennesima volta al celebre ritornello di questo o quell’altro cantante, nei casi estremi con l’intento galante di fare colpo, credendo che il destinatario di tale citazione ne sia grato quando invece, nel migliore dei casi, ne ha i coglioni pieni. Quindi mi riferisco, partendo dalla mia generazione, a tutti i Paoli maledetti che non l’hanno detto mai e ai Vincenzi che, troppo stupidi per vivere, correvano addirittura il rischio di morte, entrambi tra i cavalli di battaglia dei caratteri più esilaranti. Ci sono stati poi i Luca inquilini del piano superiore e, più di recente, gli stessi che erano gay. Poi le Francesche che non erano loro perché ci si sbaglia sempre quando si vedono. Gli accorati inni evergreen a Giulia, che in diverse epoche è stata prima cara e unica, poi brava e infine immensamente sé stessa, che è un po’ l’apoteosi. Le Sare che cadono in letargo per poi svegliarsi a primavera. Le Caterine che, alate, arrivano al mattino e le Valentine che – solo loro – possono appurare se qualcuno si dilunga troppo sullo stesso argomento. Quindi, cara Valentina, chiudo qui aggiungendo solo che mi è venuto in mente tutto questo perché ho conosciuto una Albachiara, che vi assicuro non si sentiva nemmeno respirare, probabilmente non voleva essere rumorosa e, visto il nome, farsi notare il meno possibile.
a scatola chiusa
StandardSono certo che la decisione bilaterale di mettere al mondo una creatura valga la pena anche solo per decidere insieme come si chiamerà. E non credo che si tratti di una deformazione professionale dovuta alla mia ossessione per titolare e nominare ogni cosa con una parola che sia di sintesi o, per ironia, ne descriva il contrario. Fare le liste e trovare il nome che più potrebbe somigliare a qualcuno che deve ancora nascere non è banale, oltre che essere una decisione complessa.
E te ne accorgi mentre ascolti le discussioni altrui, perché non appena si comunica la bella notizia a terzi, la prima curiosità che ci viene domandata è proprio come si è deciso di registrare il nascituro all’anagrafe e così si motiva la decisione presa in modi che a volte fanno tenerezza come se ci si volesse giustificare con il mondo perché, si sa, la percezione della bellezza di un nome è assai soggettivo. Volevamo che si chiamasse come il nonno, ci piacciono i nomi esotici, abbiamo sorteggiato da una rosa di possibilità o, è il nostro caso, volevamo un nome che scampasse al destino dell’abbreviazione.
Non a caso ci si guarda bene dal commentare le argomentazioni a supporto di questo o quella opzione per non urtare l’altrui sensibilità. Anche se di fronte a certe sperimentazioni nelle quali è impossibile non criticare mentalmente l’accostamento decisivo tra un nome lappone e un cognome tipico calabrese, o l’ormai diffusa abitudine di scegliere nomi stranieri – non ultimo Beyoncé che fa sembrare un Kevin o un Maicol o una Jennifer quei soprannomi di campagna di una volta – sarebbe opportuno tentare di arginare il fenomeno con attività di persuasione più o meno occulta sul prossimo. Certo, ci stiamo finalmente evolvendo verso una società multietnica, ma di norma sono i nuovi cittadini o gli aspiranti tali che spingono affinché i loro figli siano il più possibile integrati nella società che li sta accogliendo.
Ci sono infine quelli che scelgono i nomi più comuni possibili (condivido in pieno) per evitare che il figlio o la figlia siano messi alla berlina a partire dall’appello scolastico, chi segue le mode ed è per questo che crescono intere generazioni di Martina o di Tommaso, c’è ancora chi limita la rosa tra i nomi degli apostoli e degli arcangeli. E poi ci sono quelli che hanno letto un libro in cui una staffetta partigiana aveva un nome avvincente, efficace ed originale ma solo perché d’altri tempi, e decidono che quello è perfetto. A noi è successo proprio così. E qui al paese in cui viviamo era un nome che non avevo mai sentito. Poi ricordo di averne parlato con un’amica in treno, mancavano ancora diversi mesi al parto, e, chissà perché, ho avuto l’impressione che qualcuno seguisse con interesse la discussione. Fatto sta che, spingendo al parco il passeggino qualche mese dopo, rimasi sorpreso assistendo a una madre che si rivolgeva alla figlia di pochi mesi più grande della mia, chiamandola allo stesso modo. Dio, che smacco. Peraltro notai che, a differenza di mia figlia, quel nome non le si addiceva per nulla. Tsk. E avrei potuto anche passare per uno che copia perché quella bambina era più grande. Ma poi ho pensato che certo, il padre avrà senz’altro assistito alla conversazione sul treno andando in ufficio e avrà messo al corrente la moglie. Cara, ho sentito uno in treno che ha scelto questo nome, che ne dici? Di sicuro è andata così. Ecco perché non bisogna mai svelare i segreti industriali.
un velato accento
StandardMi ha scritto una amica insegnante di Matematica, una vecchia conoscente che ha voluto mettermi al corrente di una situazione esilarante. Dal 2006, se non erro, è di ruolo in un liceo scientifico e, quest’anno, ha avuto un incarico presso una prima. L’impatto, però, non è stato dei più incoraggianti, non tanto per il materiale umano che le è stato affidato da iniziare alla scuola superiore, quanto da un aspetto marginale, diciamo di folklore, che lei definisce un “segno dei tempi”.
È la prima ora di Matematica del primo giorno di scuola di una prima, il battesimo dei ragazzi nella nuova tappa del loro percorso scolastico, forse la più difficile considerando la maturità emotiva e l’entità del lavoro che i ragazzini si approcciano a svolgere. La prof, che chiamerò Paola, si siede alla cattedra, si presenta, quindi con l’intento di rompere il ghiaccio legge l’elenco dei suoi alunni, fa l’appello, per così dire, tante individualità una via l’altra, scritte in ordine alfabetico sul registro. Un nome, una faccia da memorizzare, una coordinata per localizzarla tra i banchi. Paola mi confessa che ogni volta riuscire a ricordarsi di tutti è un calvario, ques’anno poi la classe in questione raggiunge le trenta unità, la sfida sarà ancora più complessa. La lista scorre fino Colombo (cognome fittizio) Elena (nome vero), che dalla seconda fila alza la mano, sussurra un “presente!” e mentre Paola le sorride, la ragazza molto educatamente le fa notare che “non so come sia scritto sul registro, ma il mio nome in realtà si pronuncia Elèna, e non Èlena“. “Ah Elèna“, risponde sorpresa Paola “che vezzo di originalità”, anche se so che avrà dovuto trattenere un ghigno ironico. Di certo Elèna le è rimasto impresso, non se la dimenticherà facilmente.
L’appello prosegue senza pause sino a Rossi (cognome fittizio) Maria (nome vero), una stanga in ultimo banco, probabilmente una pallavolista, una sportivona, che con una voce decisa interrompe la prof avvisando che “le sembrerà uno scherzo, ma anche il mio nome si pronuncia diversamente, e cioè Mària e non Marìa“. A quel punto la scolaresca scoppia in una risata, Elèna e Mària nella stessa aula sembra davvero una burla di chi ha curato la composizione le classi. “Ammetto di essere arrossita“, scrive Paola, “perché in un certo senso quella risata era rivolta a me, all’istituzione che rappresento, ai processi automatizzati che non tengono conto dell’eccezione umana, quella che fa coesistere nello stesso insieme le uniche due stringhe di testo con l’accento diverso rispetto all’uso comune“. Uso comune, penso io, chi può dirlo: si fa presto ad aggirare la convenzione. Sta di fatto che a questo punto Paola dice di essere terrorizzata da nuove possibili gaffe, continua l’elenco con molta cautela, anche se più di due anomalie sui nomi di trenta alunni sono già tante, troppe. La statistica, lei stessa la insegna, non è così aleatoria.
Invece no, ecco l’ultimo livello, quello che può essere fatale. Paola sa già che il cognome che sta per leggere scatenerà l’esplosione dell’uditorio, ma è consapevole del fatto che non può sottrarvisi. Chissà, quello che le è capitato oggi pregiudicherà tutto l’anno scolastico? “È meglio mettere in pre-allarme i miei colleghi in modo da risparmiare loro la brutta figura, o esporli in eguale modo al ludibrio scolastico, in modo da non diventare lo zimbello del corpo docente”? Ci sono pochi secondi, una pausa prolungata può far diventare quello che sta per succedere ancora più deflagrante, meglio accelerare per sdrammatizzare ciò che i suoi nuovi alunni stanno già subdolando. E l’interessata, in primissima fila nel banco lì davanti, si gode già il suo momento di rivalsa per la prima volta, visto che il suo cognome è stato sempre oggetto di beffe anche pesanti da parte di amici ed ex compagni di classe. “Troia Francesca, ma suppongo si dica Troìa, giusto?“.