se sono buone, non lo so

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Non dovete credere che a scatenare la cosiddetta dicembritudine siano i bioritmi o la nostra sensibilità che segue, in un eccesso di armonia, la curva sinusoidale del ciclo delle stagioni, con quegli alti e bassi che quando aumenta la frequenza come minimo vomiti. Alla base di uno dei più intensi e parossistici (quasi sempre in negativo) trimestri che si alternano qui dentro di noi c’è un evento, un interruttore on-off, un richiamo che ti mette davanti al dato di fatto che ci siamo, un’altra volta. Ok ragazzo, mancano una manciata di giorni a Natale e alle feste e soprattutto a quel maledetto venticinque/dodici pomeriggio che da bambino scambiavi per un giro su squallide attrezzature rotanti o lungo tunnel che non facevano spaventare nemmeno i neonati tanto erano palesemente farlocchi, presso luna park di provincia tra militari a cui era stata negata la licenza in cerca di tredicenni ansiose di anticipare la propria maturità e famiglie povere quanto la tua. Quel maledetto pomeriggio che poi si rabbuiava così presto e si tornava ai tortellini in brodo con i convenuti ultraottuagenari e poi il risveglio al mattino dopo, che era tutto finito e ci voleva tutto un altro anno. Vedete, il genere umano non è fatto per questo tipo di compromessi della qualità, dovremmo sempre avere il massimo, avere un maestro di sci a Cortina o prendere il sole d’inverno in qualche località esotica, ma gli stipendi non lo permettono e figuriamoci allora, noi che non eravamo certo gente da rate e finanziamenti che negli anni settanta, peraltro, non credo fossero nemmeno state inventate.

Ecco, quel fattore X che nolente ti immette in questo contenitore di ansie che, quando sei fortunato, può assomigliare a una di quelle palle di vetro che le scuoti e scende la neve, non è sempre lo stesso. Può essere un sms che ricevi, ora sapete come la penso sulla facilità con cui strumenti creativi come Power Point, le macchine fotografiche digitali o gli strumenti di videoscrittura possano essere di dominio pubblico tanto che chiunque oggi si sente in dovere di comporre album ricordo, preparare presentazioni o comunicare con terzi in questa maniera mediata dalla composizione testuale – che sia mail, sms o chat – tanto che poi lo sapete come funziona, che una parola detta che è più leggera di una piuma diventa un macigno scritto ed epigrafato che rimane lì per sempre tanto da darci la possibilità di leggerlo a ripetizione fino alla fine dei nostri giorni, se non erro c’è anche un motto di saggezza popolare latina a supporto di questa teoria. Così un messaggio d’amore sempre a disposizione diventa una comunicazione del più o del meno, una minaccia si trasforma in una ferita rimarginabile solo tramite sutura e così via. Ben altra cosa, converrete con me, rispetto alle lettere cartacee che dovevi ponderare, coltivare, poi pensare e buttare giù o di getto o prima in brutta e poi in bella copia. Un modo di intendere la realtà tutto sommato disdicevole che ha istituzionalizzato la scarsa dimestichezza con la grammatica italiana e che fa sembrare tutto uguale, tutto a cento e rotti caratteri, ogni sentimento categorizzato in un database da marketing digitale.

Può essere l’averci dormito sopra, perché la sera fa affiorare le paure e la mattina invece ti trasforma in un esemplare post-calvinista, in un mondo freddo in cui non ci sono vie di mezzo tra la vita e la morte. O può essere la rilettura di una considerazione che hai scritto giusto un anno prima, come questa, quando ti chiedi la volta precedente che cosa avevi fatto per superare questa amarezza che chiude l’anno e che c’è da sempre, proprio come il panettone e l’albero e il presepe e i botti.

se l’è portate via

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Le festività natalizie si fa presto a farle e disfarle, finiscono senza che uno abbia tempo di posizionare i Re Magi davanti al bambinello in maniera credibile, figuriamoci se le tre autorità straniere riescono a consegnare i loro presenti e a godersi un po’ di ospitalità nella capanna. In quattro e quattr’otto spariscono fasciati nelle pagine di un quotidiano, chiusi nella scatola da dove vengono estratti ogni anno insieme ai protagonisti e alle comparse di questa sceneggiatura che si ripete uguale e si mette in scena solo perché c’è una bambina che si diverte a organizzare il gioco delle parti, allo stesso modo con cui si inventa momenti di vita quotidiana con quel simulacro di umanità che sono i Playmobil e tutti i loro accessori da tedeschi. Per non parlare dell’albero sintetico e relativi addobbi. Il kit per la tradizione casalinga, finché resistono il fascino e la magia dei corrieri soprannaturali e delle consegne puntuali senza tracking online, torna giù in cantina, tanto è questione di una cinquantina di settimane che è già il tempo di riallestire il tutto. E al momento di archiviare il Natale ho sempre paura che mia figlia possa rattristarsi, il ritorno alla vita normale fatta di scuola e sport e compiti può costituire uno shock. Ma si tratta di un timore infondato. Lei non ha fatto una piega. Io invece mi guardo intorno e noto quegli spazi vuoti, il piano della libreria usato come location del flash mob sulla natività ospita di nuovo libri e la gallina salvadanaio, al posto dell’abete in plastica c’è la mia poltroncina anni 50. Ed è facile scoprire l’identità dell’unico sensibilone che, ai titoli di coda, si lascia cogliere dalla malinconia.

non so se augurarmelo

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Li vedo ed è proprio come pensavo: mamma che piange per la commozione, papà che la segue un passo indietro con quella sua espressione che fa quando si sente un po’ fuori luogo, ma forse è solo provato da tutte quelle ore di volo che sicuramente avrà passato da sveglio a cercare di tenere a bada la tensione, leggendo o ascoltando musica. Ci abbracciamo comunque tutti e tre e siamo felici di poterci toccare di nuovo, poi gli faccio strada verso la fermata della linea che ci porterà a casa mia anche se non riusciamo a camminare stando affiancati, la calca è quella del Natale delle grandi città americane e noi siamo in tre con un grande e rumorosa valigia a rotelle da trainare e tante cose da dirci. E così seduti sulla metropolitana leggera, loro di fronte me, possiamo raccontarci tutto, quello che abbiamo fatto in tutti questi mesi. E vedo che mio padre si guarda intorno, a lui piace osservare le cose più comuni, le pubblicità nei display, i cappelli delle persone, i colori dei sedili, e paragonarli con tutti quelli che ha visto nei posti che conosce per dimostrare a se stesso le differenze. Allora gli chiedo come se lo immaginava, questo momento.

E mi racconta di un Natale di tanti anni prima, io ne avevo sette o otto, e avevamo trascorso la vigilia tutto il giorno in casa a giocare insieme con quei passatempi inventati, tipo cercare di colpire le palline da ping pong, colorate come palloni degli altri sport, stando sdraiati per terra a lanciarcele a vicenda, o le storie di Barbie e Ken che lui voleva sempre portarla alla mostra, e tutto si svolgeva nella città che avevamo immaginato nei vari ripiani a cubo dell’Expedit di camera mia, ognuno era un ambiente.

A cena ci aveva raggiunto Laura e tutti insieme avevamo guardato, io per la prima volta, The Blues Brothers, un film che era in programmazione anche alla tv ma che papà aveva preferito scaricare per poterlo seguire senza interruzioni pubblicitarie. E anche se non l’avevo mai visto, io ne avevo sentito già parlare, questo lo ricordo, perché c’era quella scena di Aretha Franklin che canta e balla con le pantofole rosa che avevo impersonato nello spettacolo dei bambini al campeggio l’estate precedente, cantando Freedom e ballando alzando le braccia sopra la testa come negli anni 60. E infine tutti a letto, io che non vedevo l’ora di addormentarmi per lasciare il posto a Babbo Natale che mi avrebbe portato i doni che avevo specificato nella letterina.

Così lui e la mamma si sono poi alzati quando ho preso sonno – avevo chiesto di poter dormire nel lettone con loro – e hanno allestito la sorpresa. I pacchi sotto l’albero e addirittura papà che ha svuotato il succo di frutta in cartone che avevamo lasciato come ristoro per Babbo Natale al posto del latte, i gatti non ne avrebbero risparmiato nemmeno una goccia. Papà aveva simulato il cartoncino vuoto strizzato con la cannuccia infilata ed era tornato a letto, ma mi confessa che non era riuscito più a riprendere sonno. Aveva iniziato a rimuginare a una situazione proprio tipo questa, io che vivevo con una borsa di studio negli USA e loro che mi venivano a trovare per Natale. Poi, mi dice, gli era sembrata straziante la distanza in confronto alla vicinanza di noi tre in quel momento, stretti nel letto. E aveva provato a fare mentalmente dei fotomontaggi come se avesse Photoshop aperto, sovrapponendo il mio volto all’interfaccia di Skype, ai tempi si usava ancora quello per video-comunicare tramite Internet, ma non ci riusciva perché il programma andava in crash con un’operazione irreale come usare il viso di me bambina, e gli era impossibile figurarsi i lineamenti che avrei avuto da grande. E a furia di pensare a quella storia aveva pure perso il sonno, e si era addirittura alzato per scriverla.

il conto, alla rovescia

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In realtà il calendario dell’avvento è la rappresentazione grafica di una sequenza di giornate lavorative in costante aumento di complessità e stress, un’escalation di attività urgenti miste a imprevisti inevitabili che si sussuegono come nauseabondi blocchi al sapore di rosolio obbligatori da ingurgitare per tradizione e i cui avanzi vanno ad accumularsi giorno per giorno nelle tasche delle micro-economie aziendali e che traboccano fino all’ultimo tra conti da chiudere, budget da confermare o esaurire, progetti da ultimare come se non ci fosse un domani e il primo giorno dopo le feste fosse un’incognita, un aprire la porta degli uffici il due gennaio magari anche in piena emicrania da sbronza e giuro che non farò mai più, disattivare l’allarme e trovare il nulla post-atomico e dover ricostruire il mercato da zero. Fidatevi di me e di tutti gli altri sopravvissuti alle tempeste di fine d’anno passate e alle deflagrazioni da tutto subito prima delle vacanze. Sappiamo che non è così. Il primo giorno lavorativo dell’anno prossimo ci ritroveremo tutti allo stesso posto, non temete, ci telefoneremo come al solito e ci chiederemo da dove ripartire, e vedrete che sarà tutto come prima che iniziasse questa discesa che ci avete costretto a correre, a piedi e con le mani piene di borse piene di regali per voi, che nel migliore dei casi ci precedete in automobile e ci ringraziate con un biglietto, e nemmeno personalizzato.

red christmas

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Il Natale al supermercato Carrefour qui sotto, quello dove vado a comprare giorno per giorno qualcosa da mettere sotto i denti in pausa pranzo per evitare i panini a sei euro dei bar del centro di Milano, è da qualche tempo in piena atmosfera natalizia, come tutto e tutti del resto. Le cassiere hanno in testa finte corna da renna o si aggirano spingendo i muletti con le scorte agghindate da Babbo Natale. Nello scaffale dove finiscono i prodotti in scadenza venduti a metà prezzo, che è il primo che vado a visitare ogni volta, trovano posto costose confezioni regalo con panettoni, bottiglie di vino e dolciumi di ogni sorta. Alla radio interna le solite canzoni pop si alternano ai classici della musica natalizia, quelli triti e ritriti che si ripropongono ogni anno. Non c’è nessun altro giorno dell’anno come il Natale che abbia ispirato la cultura popolare, anzi a dir la verità ci sarebbe anche il 25 aprile, ma non è che in prossimità della festa della liberazione nei supermercati senti Bella Ciao e gli operatori indossano fazzoletti rossi al collo e il berretto militare con la stella e alla cassa ti salutano con il pugno alzato, purtroppo non funziona così. Nemmeno alla Coop.

di essere qui in questo momento

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L. ha riesumato, nella casa dei suoi genitori – che è la casa in cui è nato ed è vissuto fino a 25 anni – un voluminoso e pasciuto canzoniere rilegato a spirale, con almeno 500 testi di brani chiosati con le sigle degli accordi. I pezzi più celebri dei cantautori italiani fino ai primi anni ’90, roba piuttosto demodè. Un retaggio sopravvissuto alla damnatio memoriae di un passato da pianista di pianobar. Ma in previsione di una cena con amici over 40, per dividere gli avanzi dei banchetti di Natale tracimati dalle opulenti tavole di ciascuno, una cena a cui seguirà un improbabile karaoke per inaugurare il pianoforte digitale nuovo che C. e V. hanno regalato alla figlia, ci sta.

L. è la testimonianza più attendibile, tra le persone che conosco, degli incontri ravvicinati con lo Spirito dei Natali Imperfetti. Lo Spirito dei Natali Imperfetti è una trasparente e minacciosa declinazione meno celebre ma altrettanto molesta (chissà se a fin di bene) dei più blasonati Natali Passati, Presenti e Futuri che funestano gli incubi di Ebenezer Scrooge.  Una esperienza che, per L.,  si reitera da qualche anno, e che ogni volta è sempre meno edificante. Ma vediamo da vicino il perché.

Innanzitutto, occorre partire dalla classificazione stessa delle festività, in cui Dickens risulta lacunoso“, sostiene L. Esistono infatti alcune varianti delle coniugazioni del Natale, che vanno aggiunte alle tre già definite dal creatore di Scrooge. Lo dice il nome stesso: il Natale Piùccheperfetto è quello che si trascorre fino agli 11 anni circa. È il Natale degli alieni che portano i regali, barbuti piloti di slitte trainate da renna e destinatari di milioni di lettere e desideri, con una capacità di saper soddisfare ogni più piccolo sogno al di là dell’immaginabile. La variante cattolica attribuisce tale adempimento a un neonato VIP, senza renne ma con bue e asinello. La scena domestica comprende genitori ancora piuttosto giovani e premurosi, impeccabili registi della gioia puerile che lavorano all’Evento per tutto il mese precedente. E, se mi è permesso scegliere la cornice perfetta, inscrivo il tutto nell”Italia – e la società che la abita- degli anni ’70, il consumismo ancora moderato e responsabile che si chiama risparmio, i primi spot visti a colori in TV e l’immaginario iconografico commerciale alimentato dalle pagine pubblicitarie di Topolino. Il pranzo, l’acme dell’Evento, vede la partecipazione dei soli membri famigliari stretti, perché il focus, nel Natale Piùccheperfetto, è il bambino e la festa è l’epifania del suo mondo. Giusto, anche l’Epifania, quella dei Magi con le calze piene di dolci.

Passano gli anni, e con pubertà, adolescenza e primi tumulti ormonali si passa al Natale Perfetto. È caratterizzato dalla doppia intensità, l’essere ancora al centro dell’Evento a cui si aggiunge l’avere già un oggetto esterno su cui proiettare l’essenza della festa, il tutto ricoperto da un sottile strato di distacco dal mondo tipicamente infantile. I genitori hanno ormai raggiunto la mezza età e amano accompagnarsi al pranzo con una famiglia allargata a supplire l’assenza dei nonni, purtroppo trapassati, fratelli e sorelle (zii per Il Figlio/a) con prole e orpelli vari. È l’era degli inevitabili confronti tra le carriere scolastiche, i successi sportivi, i passatempi redditizi dei rampolli, ma anche dei bilanci dei nuclei famigliari partecipanti, in uno scenario in cui adulti e aspiranti tali bevono alcolici in analoga quantità. L’ebbrezza post-conviviale è un’arma a doppio taglio, lo spettro dei cui effetti va dall’armonia totale, con punte nel caso di apologie di eroi o santi trasversali qualora emerga l’empatia politica o religiosa, a drammi interni, con imbarazzi connessi, il tutto con varia intensità.

Ed ecco che la seconda generazione si rende indipendente, il figlio diventa Il Genitore, a sua volta, di Un Figlio per il quale sarà l’artefice del Natale Piùcheperfetto. Ma, in questo stadio, il rischio è quello di essere protagonista, proprio malgrado, di un Natale Imperfetto. Di cosa si tratta? “Il Natale Imperfetto si trascorre a casa dei genitori-nonni ottantenni, un ambiente in cui elementi tipici della vecchiaia convivono con gli altari, mai smantellati, della propria adolescenza“, così lo sintetizza L. L’equivoco, che nel caso di L. è la causa di una forte depressione post-festività, consiste nel lasciarsi convincere di essere ancora il centro dell’Evento, il Bambinello neonato. Ma il tempo ha ormai travolto inesorabile gli eventi, portandosi via le zie più anziane, qualche parente più giovane anzitempo, ha punito più del dovuto errori di gioventù di alcuni. Talvolta, con la scusa di una flessione del mercato, ha lasciato sul lastrico altri. I nodi sono venuti al pettine, gli acciacchi si sono palesati in malattie, le perdite si sono trasformate in esondazioni, la mancanza di lungimiranza ha fatto accostare su un binario morto ogni progetto a interesse anticipato. Così si riesumano album fotografici, si drogano di cartoni animati i figli, si cerca di dormire per accorciare il tempo, si tengono d’occhi le decine di orologi – alcuni funzionanti e altri no, un mix di arte povera e sottocosto cinese – mentre fuori un altro fantasma, quello dello squallore dell’incuria urbana fiaccata dalla morsa del vento che abbatte ulteriormente la temperatura percepita – ce l’immaginiamo vestito di nero con una falce in spalla – attende il malcapitato alla resa dei conti. Anche dopo 15 anni che non si abita più lì. “Le facce sono le stesse, i muri scrostati, i cassonetti che vomitano incarti e fiocchi e sacchi di avanzi, gli anziani in giaccone di poliestere a passeggio sui marciapiedi e il loro forzato contrasto con addobbi e luminarie inaspettatamente rigogliosi“.

Per fortuna, arriva, ogni anno, il 27 dicembre. L. si sveglia nel suo letto, nella sua nuova città, addirittura fuori c’è il sole. Il bordone di tangenziale in sottofondo lo riporta alla realtà. E se si è addormentato pensando alla morte dei suoi genitori e altre amene esacerbazioni del pensiero positivo, ora è nuovamente adulto, padre di famiglia, ex-giovane, ex-musicista, ex-studente, ex giocatore di Subbuteo, ex fidanzatino della ex di quando aveva 16 anni eccetera eccetera. Ha sognato di annaspare in soffocamento nelle mucose durante la sua nascita. Poi la figlia lo ha chiamato, dormiva con lui e sua moglie nel lettone, e ha salutato lo Spirito dei Giorni Feriali Futuri.

a tutte le donne di buona volontà

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il Natale secondo yamamay

overbooking

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illuminismo

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