due o tre cose che so sul Natale

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Dicembre, si sa, è un mese intriso di contraddizioni e non me ne vogliano gli amici sagittari e capricorni che invece magari si atteggiano pure a persone equilibrate. Il numero dodici del nostro calendario intanto è un gigantesco e unico ponte tra un anno e l’altro, soprattutto per noi milanesi, poi quest’anno ci si è messo di traverso pure il referendum ed ecco che il mese in corso si è quasi completamente prosciugato di giorni feriali il che è una disdetta, perché, per esempio nel mio settore, a dicembre c’è veramente un botto di lavoro da fare. Immaginatevi quindi la produzione di quattro settimane concentrata in una e il gioco è fatto. Anzi, provate a spalmare questa condizione di ozio istituzionalizzato su scala globale e vi sfido a non ammettere che la cosa può generare problemi per l’economia del mondo mondiale. Ma, detto tra noi, se non si preoccupano i vertici dell’agenzia in cui lavoro, non si preoccupano nemmeno i ministri, non vedo perché debba farlo io.

La seconda e annosa contraddizione deriva dal contrasto tra disperazione e opulenza festiva, un imbarazzo diffuso probabilmente sin dai tempi dell’oro e dei Re Magi. La questione è perfettamente rappresentata dal celebre inno natalizio “Happy Xmas (War Is Over)” di John Lennon e Yoko Ono, quello che lo senti e pensi a quanto sei ingrato verso il resto dell’umanità che soffre, un sentimento che ha avuto il suo apice nella celebre interpretazione di Alba Parietti di non ricordo quale programma TV degli anni 90, peccato non vi sia traccia in rete ma fidatevi.

A Natale, poi, ci si bacia tutti facendosi gli auguri, un’usanza che mi ha fatto riflettere sulla differenza tra il numero di volte in cui si porge la guancia. Voi siete per due o per tre? E non rispondetemi che date un unico bacio perché non vi credo. Io sono un tradizionalista e ne do solo due, e sono così abituato a questa procedura che quando la persona si avvicina per darmi il terzo mi chiedo se voglia limonare e, ogni volta, un pensierino ce lo faccio.

Mi permetto infine di segnalare un’occasione sprecata dalla Microsoft. Possibile che in occasione delle feste natalizie nessuno di quei geniacci ingegneroni della Silicon Valley non abbia pensato a una versione a tema delle celebri palle che girano mentre l’utente di Windows 10 aspetta l’ennesimo aggiornamento pregando che ancora una volta vada tutto bene? A me piacerebbe uno sfondo rosso fiammante, con un po’ di agrifoglio sul davanzale del logo a finestra, e le palline natalizie che ruotano intorno all’albero della speranza del ripristino in corso. Secondo me può funzionare.

si torna tutti bambini

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Finita la sbornia emotiva del natale dei bambini gli adulti rientrano nella comfort zone della leggera ebbrezza da feste comandate, quel mix di ferie, pasti in eccesso, soldi buttati via e Carlo Conti su Raiuno a mezzanotte che è un po’ il comune denominatore degli adulti con i figli già troppo grandi per credere a Babbo Natale o Gesù Bambino o chi per esso, per cui risulta superfluo organizzare tutta la messinscena della visita notturna con i doni sotto l’albero e il latte con i biscotti nel punto di ristoro. Che non è affatto meglio, sia ben chiaro. Il momento in cui i bambini crescono è la fine di tutto questo, almeno fino a quando i genitori passano al livello superiore di nonni con nipoti in cui si ha l’ultima occasione di commuoversi con questo genere di cose. Anche i più cinici si lasciano infatti coinvolgere nel vortice del sentimentalismo, io ne so qualcosa: dopo decenni di nichilismo celebrativo, dalla mia adolescenza fino alla vigilia della genitorialità, improvvisamente per i figli si vestono i panni (rossi e con barba posticcia) del più mainstream dei tradizionalismi imposti dal mercato, ma di fronte alla gioia e alla soddisfazione dei bambini qualunque radicalismo passa in secondo piano. E infatti scaduta l’ultima occasione in cui si mette in atto il teatrino della visita notturna con elargizione di beni, tutto rientra nel materialismo adolescenziale dei propri figli che anzi, proprio in voluto contrasto con il passato recente, è ancora più marcato e distruttivo e quindi più insopportabile per gli animi più sensibili. Perché nel frattempo i genitori sono passati dall’altra parte della barricata, tutto sommato l’albero fatto con un certo criterio e la letterina e tutte quelle cose lì non erano niente male e hanno risvegliato un qualcosa di latente in una sorta di rebirthing emotivo, il che significa che quando poi i bimbi crescono e si spezza l’incantesimo dell’infanzia sono i genitori quelli più a rischio di ferite nei sentimenti. Almeno io ci sono rimasto malissimo, è successo l’anno scorso e anche in previsione delle feste che stanno per iniziare mi sento come derubato di qualcosa di bello, avete capito cosa intendo. Festeggiare certe cose tra adulti non dà la stessa soddisfazione, quindi se avete figli sotto i dieci anni, oltre a invidiarvi, vi dico di godervela e di dare il massimo per rendere il tutto più speciale che si può, per loro. Ma so che già lo fate, che siete messi peggio di come ero messo io, e anzi, chi è senza peccato scagli la prima statuina del presepe.

tecniche per incartare un regalo con la carta riciclata dal Natale precedente

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Ritrovo alla fermata della metro molti di quelli che poco fa erano a spasso in corso Buenos Aires e che, io dico sotto Natale ma temo sia un fattore piuttosto frequente, hanno dell’incredibile. Sono le sei e trenta della sera è c’è un via vai di gente in cerca di successo, gente che si guarda intorno sperando di riconoscere qualcuno, gente che si guarda intorno sperando di essere riconosciuta. Gente che finge di consultare con attenzione un contenuto importante sul proprio device portatile per far finta di essere disinteressata al resto della gente, gente in gruppo che smarrisce l’orientamento ubriaca di shopping perché viene da fuori e deve guardare da un verso o dall’altro cercando la porta di Porta Venezia o le insegne di Piazzale Loreto per capire da quale parte attraversare per trovare il negozio risultante come quello giusto in cui procedere con gli acquisti, a seguito di un’attenta valutazione comparata. Gente povera che ingombra il marciapiede con i suoi pacchi e si vede da come li portano in giro che li hanno comprati consapevoli del fatto che non si possono sbagliare. Ma anche gente ricca che ostenta il proprio idioma cirillico fiera di essere trattata con rispetto in quanto ufficialmente eletta a big spender del momento.

Io nel mio piccolo ho appena acquistato un paio di biglietti per il teatro all’Elfo Puccini sfruttando dei coupon che trovi insieme ai buoni pasto, uno spettacolo per ragazzi e genitori, e da quando proprio in Buenos Aires ho beccato due ragazzini dietro di me già con le mani nella mia borsa controllo in continuazione che ci sia tutto. Anche se non è un regalo comunque ci tengo a portarli a casa e ad appiccicarli al frigo con la calamita. Mentre ero in coda alla biglietteria c’era una donna davanti a me che raccontava alla sua amica che pensava di regalare ai figli il Kindle perché sono ragazzi a cui non piace leggere e così, magari attirati dal dispositivo elettronico, poteva essere una buona idea per far loro cambiare abitudini. Ci è mancato poco che intervenissi nella discussione con il presentimento che, scommettiamo quanto volete, sono certo che si avvererà. Volevo dirle che vedo il Kindle scarico o rotto nella camera di quei ragazzi, magari vittima di esperimenti di montaggio e smontaggio o, peggio, tentativi di hackeraggio software. Vedo la superficie del Kindle macchiata di cerchi di bicchieri che traboccano di bibite gassate altamente zuccherose, vedo lunette sul display come segni indelebili che, se anche il Kindle non fosse rotto, renderebbero impossibile la lettura. Vedo un e-book iniziato il giorno di Natale e il segnalibro ancora a pagina tre la primavera prossima. Ovvio che me ne sono stato zitto, se penso che è anni che do consigli da questo blog ma vedo intorno a me ancora milioni di persone che perseverano nei loro errori. Per fortuna mi ferma la consapevolezza che pensare di salvare il prossimo è davvero tempo perso.

due mesi a Natale oggi: ecco cosa cambia nell’edizione 2014

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Oggi che mancano precisamente due mesi a Natale posso anticiparvi che per il primo anno non ci sarà nessuna messinscena dell’arrivo di Babbo Natale. Mia figlia, pur con un anno di anticipo, è in prima media e qualcuno dal dicembre scorso deve essersela cantata. C’era già stata qualche avvisaglia perché nei giorni precedenti l’ultima edizione – lo scorso anno – mia figlia aveva interrotto le domande con le quali già da qualche settimana chiedeva spiegazioni su quell’evento incredibile, anche se credo più per colpa di qualche compagno di classe nostalgico delle beate ingenuità dell’infanzia piuttosto che per mettere in riga alcune incongruenze scientifiche, fisiche e macro-economiche. Come fa un solo uomo a raggiungere tutti i bambini del mondo in una notte? Come fa un mezzo di trasporto tipicamente terrestre a volare? Dove li prende i soldi per tutti quei giochi? E forse proprio nel timore della conferma di una teoria amara in fase di maturazione, la cosa era caduta. Quindi… sopresa! Anche quest’anno ci sono i doni sotto l’albero!

Qualche giorno fa invece ne abbiamo parlato con molta serenità, mi detto di sapere ormai da un po’ che facevamo tutto noi, e la mia paura era che potesse rimproverarci di averle fatto credere a storie che non stanno né in cielo né in terra e di averle fatto provare vergogna con coetanei già smaliziati per aver tirato per le lunghe quella tradizione così infantile. Tutt’altro. Intanto ha apprezzato lo sforzo di aver inseguito ogni anno la sua soddisfazione, andando incontro il più possibile ai suoi desideri, aspetto che inoltre ha influito sul ridimensionamento delle richieste per le feste imminenti. Poi ha riconosciuto la magia di quelle attese e la gioia del risveglio con i pacchi colorati sotto l’albero. Devo ammettere che un tale compiacimento – che davvero non mi aspettavo – ha reso meno doloroso il distacco da quello che ormai era un piacere più per i genitori che per lei. Tenere duro fino a notte fonda, posizionare i regali in un allestimento scenografico, far sparire il bicchiere di latte e i biscotti simulandone l’avvenuto consumo, liberare finalmente i gatti rinchiusi appositamente per evitare il loro contatto con l’offerta votiva alimentare, tornare a letto e lì ripetere ancora una volta una conversazione su quante occasioni ci sarebbero state concesse ancora per assaporare quella gioia senza eguali. Ma è sempre così, lo sapete. Anche se si può prevedere, è difficile sapere quando una volta è proprio l’ultima, senza occasione di ritorno.

canale natale

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Davvero, non sappiamo più cosa utilizzare come mezzo per fare gli auguri. E già trovavo imbarazzante i saluti dei colleghi che scrivevano due o tre aggettivi in un sms e li mandavano con un paio di ditate a tutta la rubrica, tanto che ancora adesso mi arrivano messaggi pieni di banalità da numeri di due o tre rubriche fa, io le persone che non frequento più le cancello dal telefono ma c’è gente per cui gli altri sono talmente irrilevanti che tenerli i mezzo a mille nomi non fa differenza, è solo una manciata di bit in più che tanto hanno la microSD da 32 giga. Ora possiamo mettere la foto tutta sberluccicante di una palla instagrammata su Facebook con scritto il testo di una preghiera e ci va ancora meglio, perché non paghiamo nemmeno il costo dell’invio. Ma il contenuto che inoltriamo è talmente neutro che può raggiungere i nostri genitori quanto il giornalista dell’Espresso che abbiamo aggiunto in una versione agli albori del social network, quando c’era ancora il limite dei cinquemila friends. Possiamo persino lanciare nel vuoto il desiderio di condividere la speranza di buone feste con What’s up tanto quanto Twitter e più siamo beneamati tanti più individui beneficeranno della nostra emanazione. Che culo. Che non è un problema di canali, non stiamo certo a giudicare su come e cosa e quando e dove e perché. Forse è il chi allora che manca. Ho abbracciato il numero giusto di persone, quest’anno, stretto – come quantità e come intensità – ma giusto. Agli altri non è che voglio il male, ci mancherebbe, fosse per me ci sarebbe la serenità su tutto il pianeta. Anzi, pure su Marte e fino all’infinito e oltre. Ma non li conosco, ci sono altri che pensano a loro. E se qualcuno non ha nemmeno un cane con cui condividere uno straccio di fetta di panettone allora il discorso è diverso. Sono qui, a disposizione.

il regalo più prezioso è proprio questo

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Quelli che come me si vantano di essere in grado di considerarli giorni come tutti gli altri mentono sapendo di mentire. E così, come una pietanza particolarmente più gustosa nel normale, ci si ritrova ad osservare il piatto con qualche rimasuglio del condimento con quella nostalgia che ha eguali solo quando una canzone preferita finisce e di improvviso il finto silenzio ci impone di rintracciare le briciole di piacere acustico nelle ultime vibrazioni dei corpi attraversati dalle onde del suono. La metafora del cibo calza a pennello con le sensazioni postume, quel senso anomalo di gonfiore nelle membra e sulle dita compresse – almeno una – dalla fede nuziale, o sotto l’ombelico dove una cintura stringe un po’ di più. La metafora della canzone pure, sono feste piene di ritornelli di gioia che sono quelli che conosciamo di più e che ogni anno canticchiamo come se fosse la prima volta, cercando di non far accorgere nessuno che siamo felici, sempre che lo si possa dire. Fino a quando qualcuno molto più giovane di noi ma molto legato a noi, un figlio o un nipote a seconda di quanti anni abbiamo per esempio, fino a quando qualcuno di una generazione in meno ci pone la domanda che temiamo di più, alla quale non c’è una risposta standard. Che cosa gli possiamo dire? Tutto finisce perché tutto ha un inizio, tutto si consuma perché si esaurisce, non se ne esce e non conosciamo nessuna realtà delle cose diversa da questa.

ricorda di santificare le feste

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Ho passato l’intera vigilia a montare un armadio a tre ante Ikea. Il tempo in eccesso non è certo dovuto alla complessità del lavoro, gli omini delle istruzioni degni della linea di Cavandoli ne sanno una più del diavolo per farti arrivare sano e salvo all’ultima pagina del manuale operatore, e con il nuovo pezzo di arredo pronto all’uso. Ci ho messo tanto perché non me la cavo molto bene, ho attrezzi di qualità scadente, e preferirei fare qualunque altra cosa. Anche santificare una festa, per esempio. Comunque l’armadio a tre ante che ho montato in questa nuova vigilia di Natale si chiama Pax. Un po’ in tema, con le feste, lo è.
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il racconto di natale di plus1gmt

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Mia moglie mi sta chiedendo quale delle due palline preferisca prima di posizionarle nel rametto predominante dell’albero addobbato che i nostri due gatti, probabilmente infervorati come il resto degli abitanti del loro territorio di scorribande a causa dei preparativi per il banchetto natalizio, hanno appena lasciato rovinare a terra senza danni ingenti, grazie al tappeto che posizioniamo sotto proprio perché conosciamo i nostri polli-felini. Solo qualche pallina caduta da rimettere a posto, comprese le due sulle quali è necessario esercitare il complicato arbitrio. Il punto però è che le due palline sono pressoché identiche, si distingue a malapena una sottile differenza nella trama della superficie e qualcosa di appena percettibile nella sfumatura della decorazione. Almeno per me, che nella mia grettezza maschile e secondo il metro di giudizio ancestrale che i miei geni hanno ereditato lungo millenni di battute di caccia, stupri, angherie, abigeati e variegate lotte per la supremazia del branco di appartenenza, non sono in grado di cogliere dettagli oltre la sfericità e l’utilizzo principe per il quale quell’accessorio è stato pensato.

Così mentre rifletto su quale possa essere la risposta giusta per impedire che si sedimenti una nuova opinione negativa seppur generalizzata – e viziata dalla proliferazione di luoghi comuni che rivestono la presunta superiorità delle femmine sui maschi, teoria che promuovo da sempre e chiunque ve lo può testimoniare – circa il mio sesso di appartenenza, mentre brancolo nella mappa cognitiva alla ricerca del riferimento per muovermi correttamente verso la localizzazione della differenza tra la palla di Natale A e la palla di Natale B, in un eccesso di auto-sopravvalutazione inconscia mi appresto contestualmente ad allestire il pranzo per la coppia di animali domestici che hanno testé attentato all’incolumità dell’abete artificiale.

Ora seguitemi nel seguente ragionamento. La procedura operatore in teoria non lascia spazio per alcun “single point of failure”, come si dice in informatica. Nessuna vulnerabilità in una sequenza di gesti elementari. 1) Si prende la bustina contenente la monoporzione, 2) la si posiziona sulla ciotola, 3) la si strappa lungo la guida a partire dal taglio ergonomico, 4) si getta la parte della busta strappata nel contenitore dell’indifferenziata, 5) aiutandosi con l’altra mano si spreme la monoporzione facendo uscire tutto il contenuto nella ciotola, 6) quindi si getta la busta vuota. Ma mentre mi sforzo di non deludere mia moglie per fornirle il parere che si aspetta da me, vado in burn-out ed ecco che 1) prendo la bustina contenente la monoporzione, 2) la posiziono sul contenitore dell’indifferenziata 3) la strappo lungo la guida a partire dal taglio ergonomico, 4) poso la parte della busta strappata nella ciotola, 5) aiutandomi con l’altra mano spremo la monoporzione facendo uscire tutto il contenuto nella spazzatura, 6) e solo al momento di gettare la busta vuota mi accorgo del bug.

Sia lei che io ci ridiamo su perché poteva andare peggio. Per esempio potevamo essere fermi in piena notte con la nebbia al distributore automatico nella strada provinciale che porta verso il nulla pavese, la macchina completamente a secco e solo venti euro a disposizione, messi i quali nella cassa automatica e selezionata la pompa da cui rifornirsi, lei che mi chiede dove ho messo il cd degli Interpol e io che penso che non l’ho proprio preso. Così afferro senza leggere l’erogatore che fa capo al diesel mentre la mia Picasso, a parte il GPL, va a benzina e lascio defluire nel serbatoio il carburante sbagliato e letale per la vettura. Questo sì che è uno scenario da fatal error. La bustina di cibo per gatti da 0,1 euro al chilo può anche marcire insieme al resto, ma oggettivamente devo fare più attenzione.

E già sono stato graziato il giorno prima perché nessuno ha notato quando, nel reparto ortofrutta del Carrefour, mi sono perso via a osservare la coppia che selezionava gli ananassi più adatti al pranzo della vigilia. Nella ressa dei ritardatari che fanno la spesa il ventiquattro dicembre pomeriggio, in quell’underground umano alle prese con i rimasugli di merce di seconda e terza scelta perché il meglio e il più conveniente è il primo ad andarsene, e la gente quando si tratta di pranzi e di feste non fa sconti a nessuno, tantomeno alla grande distribuzione organizzata che di sconti non ne fa mai abbastanza. Nella povertà di mezzi e di spirito dell’umanità popolare che si riversa a sperperare la tredicesima per accrescere il colesterolo dei propri cari, una donna e un uomo bellissimi e altissimi, probabilmente appena sbarcati da un’astronave lasciata in sosta abusivamente in un parcheggio riservato ai portatori di handicap, sovrastava la bassezza di quella temporanea concentrazione di miserabili di oltre mezzo metro. Lui con la barba scolpita al millimetro a evidenziarne l’alterigia, lei con i capelli biondi e lunghi e foltissimi che ricadevano a boccoli su una giacca in pelo di quelle che in una famiglia normale, rivendendola, ci si sostiene per un anno solare intero. Si vedevano anche dal banco pescheria, grazie alla loro aura luminosa, magri e predominanti mentre con il fare senza compromessi decretavano il frutto perfetto da gustare al termine della cena imminente.

Mi sono distratto a pensare alla loro storia, perché avevo un amico che credeva che tutte le donne fossero come quella, e avevo un’amica che era convinta che si sarebbe sposata con uno così che sembra un attore, e non solo quei due non si sono mai incontrati tra di loro, non solo erano due individui esteticamente mediocri, ma so per certo che hanno trovato partner normali, su standard come posso essere io, anzi spero un po’ meglio, per loro. Invece la coppia dell’ananasso non ho idea di come si sia formata e perché non sia in una di quelle boutique del centro in cui i vegetali commestibili costano un’esagerazione. Quelli che a Natale vanno a trovare qualche parente povero che vive in quartieri come il mio, e quando scendi per strada a gettare la spazzatura, proprio il sacco con il cibo dei gatti che hai buttato per errore perché eri chiamato a una decisione irrevocabile, vedi le loro Porsche parcheggiate davanti alle villette a schiera di edilizia agevolata. Quelli sono i figli che non hanno studiato ma si sono arricchiti, hanno evaso le tasse, e anziché fare acquisti nei negozi dedicati a loro si mischiano a quelli come me, che poi si distraggono a immaginare tutto questo e sbagliano a digitare il codice sulla bilancia. Così rischiano di pagare un casco di banane transgeniche con il prezzo al chilo di una primizia che non si possono permettere. E meno male, davvero, che mi sono fermato in tempo.

Ma questo racconto di Natale finisce bene, e non solo perché a Natale finisce tutto bene e inizia tutto meglio, questo vallo a dire a mio cognato che poverino si è spatasciato in bici l’antivigilia investito da un coreano distratto. C’era uno spettacolo al Museo degli strumenti musicali, quello ubicato nei locali del Castello Sforzesco. Mia moglie ed io abbiamo accompagnato le bambine, nel senso di nostra figlia e un paio di compagne di classe. Lo spettacolo prevedeva la lettura del racconto natalizio per antonomasia, quello celebre anche di più di quello di Paul Auster (che invece secondo me non c’è proprio storia) e figuriamoci di tutti quelli di scribacchini della domenica come il mio. Quello di Scrooge e dei fantasmi, ci siamo capiti. A dare i biglietti c’era una signora che, dopo averle ricordato che avevamo effettuato una prenotazione e il titolo dello spettacolo, è rimasta perplessa perché non sapeva se l’autore fosse proprio quel “Christian Carol” a cui avevamo fatto riferimento noi, ma forse le avevamo fatto la domanda troppo velocemente, ho pensato io. Forse la signora ai biglietti ha frainteso. Forse è perché quando sono emozionato mi mangio le parole, anche se poi c’è il pranzo di Natale e allora non le digerisco proprio.

momenti di gloria

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Speravamo di arrivarci ma un po’ speravamo di non arrivarci così in fretta perché c’era chi sosteneva che non ci saremmo arrivati proprio. Perché questa settimana che ci separa dal trentuno e che, casualmente, contiene anche il venticinque non doveva nemmeno esserci, nevvero? Ma non vi dico quello che è accaduto prima, anzi se avete avuto la costanza di leggermi fino a qui negli ultimi dodici mesi lo sapete e lo avete letto tra le righe, se non addirittura dentro. Questo post, pubblicato alle zero e zero uno di Natale, fa il rumore di un sospiro di sollievo. Se siete frequentatori di Facebook, avrete notato quella funzionalità con su scritto duemiladodici, un pulsantone che ci schiacci sopra e ti fa una specie di the best of. Del meglio del vostro meglio dell’anno in chiusura, che a dirla tutta, in taluni casi come in parte il mio, ha più la parvenza di una galleria degli orrori. Per questo tentativo di fare delle mie débâcle un rotocalco, all’invito a ripercorrere i venti migliori momenti prima di voltare pagina, a Zuckerberg e alla sua pletora di programmatori va il mio più sentito mavaffanculova.

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seguimi, dolcezza

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Riconosci che è Natale da tante cose, ognuno ha la propria e qui vi dico la mia. Quando impiegati di ogni sesso, razza, religione, età, classe sociale, li vedi camminare lesti sulle strade ancora sporche di neve con scarso equilibrio e a rischio scivolone tenendo per mano un panettone o una boccia di spumante da supermercato. C’è molta tenerezza in tutto ciò, il sottile contrasto tra la magnanimità padronale a pioggia della quale beneficiano tutti egualmente, dal management ai centralinisti, e l’anonima gratitudine che ritorna al mittente sospinta dalla situazione contrattuale e dal trattamento economico sotto forma di rassegnata accettazione della convenzione aziendale. Con le feste il dono si ritira e basta, anche se la collaborazione si estingue il trentuno dodici mentre l’ufficio è chiuso e tutti rientrano dopo il sei gennaio, quando si troveranno una scrivania lasciata libera senza ricordarsi da chi. L’impiegato e il suo panettone si avviano verso casa la sera dopo il brindisi con il capufficio e la segretaria, i colleghi si riconoscono da distante perché la marca è la stessa con quella confezione così sfarzosa e ingombrante che poi sul tram o nella cappelliera in treno proprio non ci sta. Guarda che cosa mi hanno dato al lavoro, dicono poi gli impiegati una volta riuniti con la famiglia. D’altronde meglio lo spumante che la cornucopia in peltro di cui ti ha fatto omaggio lo stampatore insieme a quel calendario da tavolo con le foto dei gatti. O il pacco del CRAL che riceve il tuo vicino di casa che fa il messo comunale, con quel caffè che corrode la Bialetti tanto è imbevibile, il pandoro che devi strizzarlo tanto è sugnoso e i Lindor tarocchi che fanno venire i brufoli ai bambini. Ma c’è chi giura di avere una foto appena nato alla cerimonia di saluti natalizi della Provincia negli anni sessanta, quando con i soldi pubblici si compravano regali per tutti i figli dei dipendenti. Un bambino di qualche mese tenuto in equilibrio da sua mamma sopra una torre di pacchi incartati. Poi è tutto finito, ora ci sono le email con le stelle, i paroloni in comic sans per uno scintillante duemilatredici, gli sms inviati alla rubrica aziendale dalla a alla zeta. In certi ambienti maschili le cravatte con il nome del destinatario scritto con il pennarello indelebile, quello che si usa per mettere i titoli sui cd, sulla confezione in cartone bianco, senza nemmeno uno straccio di carta regalo. Ma vi ricordate gli auguri in Flash con l’animazione che caricavi la foto e facevi i pupazzetti danzanti con le facce altrui? I giochi che tiravi le palle di neve in faccia alle renne, prima che i programmi di posta elettronica non iniziassero a bloccare qualunque cosa? Perché ci siamo ridotti così. E riconosci che è Natale proprio perché gli impiegati fanno quell’ultimo viaggio di ritorno prima di scambiarsi gli auguri con i colleghi che fanno la stessa linea con il pacco regalo sulle ginocchia, giocherellando con il nastro e tu cosa fai a capodanno e cosa prepari per il pranzo di Natale, se è un cenone della vigilia o lo festeggi la sera prima. C’è così qualcuno che sa poi che al rientro, che sarà un giorno di quelli con la nebbia o la pioggia e davanti hai un’infinità di giorni prima delle vacanze successive, tutti ci si guarderà amareggiati per aver esagerato con la condivisione dei sentimenti, con le emanazioni di privato in ambito pubblico che fa tanto privacy violata. Per questo qualcuno, dicevo, ha lasciato un paio di confezioni avanzate dalle avances alimentari dei fornitori in sala riunioni, c’è tempo per un caffè e una fetta di pandoro prima di ripartire. Le feste sono finite, ma anche questa è una convenzione sociale, con lo zucchero velato che fa tanto palla di vetro e la rassegnazione che è come sentircisi dentro.