Ci sono diversi modi per fruire delle cose del passato. Possiamo considerarle storia o storiografia e, dal presente, studiarle per comprendere meglio il contesto, i fatti, le conseguenze. Possiamo farle nostre alla luce di un revival o una moda derivativa, quindi additarle come oggetti di culto al di fuori da ogni possibile giudizio. Possiamo riderci su per la distanza a cui si trovano dal momento in cui le guardiamo perché è passata così tanta acqua sotto i ponti, o sono cambiate così tanto le condizioni, per cui siamo incapaci di comprendere cosa abbia spinto a una tale ingenuità, impensabile per noi e la nostra adorata contemporaneità digitale.
Tutti questi punti di vista si applicano a qualsiasi cosa, ma oggi mi sono venuti in mente perché sto rimuginando sull’effetto che mi ha fatto vedere “Bianca” di Nanni Moretti qualche giorno fa, dopo aver notato il titolo nella vastità caotica dei programmi disponibili su Netflix in questo periodo. In realtà stavo spulciando il menu alla ricerca de “Il ragazzo di campagna”, non chiedetemi il perché, ma quando ho riconosciuto il volto di Laura Morante tra quella abbondanza di titoli sconosciuti sono trasalito e non ci ho pensato due volte a premere play e, se siete sottoscrittori dell’abbonamento come me, vi invito a fare lo stesso e poi a dirmi se avete provato le stesse cose che ho provato io. So che “Bianca” appartiene al background esperienziale di tutti voi e quindi taglio corto. Vorrei solo farvi riflettere su alcuni aspetti che risaltano durante la visione di un film come “Bianca” su Netflix e su uno smart tv da decine di pollici come il mio.
Ho provato innanzitutto una forte tenerezza per la sigla in cui non succede assolutamente nulla se non la sequenza dei testi, ora che siamo abituati a veri e propri film nei film con musiche da paura, e ho usato l’avanzamento veloce non perché volevo che durasse poco ma per proteggerla dal ludibrio della contemporaneità, non so se mi spiego.
Poi mi sono anche innervosito perché Nanni Moretti, nel film, non parlava come un attore americano doppiato di oggi in una delle serie tv che vanno per la maggiore e Laura Morante, di cui ero follemente innamorato, non sembra aver fatto nulla per cambiare la sua bellezza secondo i canoni estetici attuali. La pettinatura, il trucco, la dentatura, la pelle, sono fatte per ben altra risoluzione video. Nessuno poi si è premurato di adattare la sceneggiatura e certi dialoghi alla velocità a cui siamo avvezzi sui social e l’audio stesso, in certi punti, lascia un po’ a desiderare. Ti aspetti che gli attori parlino e invece non dicono nulla. Si guardano. Spalmano la nutella. Osservano i dirimpettai. Cose così.
Sono giunto quindi alla constatazione di quanto la contemporaneità, nei confronti di un film come “Bianca”, possa essere fortemente lesiva, possa farne vilipendio, possa strapparne gli organi vitali e farli a brandelli come un predatore che insegna ai propri figli come esercitare al meglio il primato genetico nella catena alimentare. E la morale è che un film come “Bianca” non dovrebbe essere un film come un altro da vedere su Netflix e su una smart tv da decine di pollici, fatta per sequenze rapide, colori ultra-naturali, piani per schermi di quel tipo così ampi che ti consentono di consultare simultaneamente lo smartphone avendo comunque il programma che stai seguendo sempre nel campo visivo, grafica da realtà aumentata e iper-realtà da contemplare a pochi centimetri dal divano, colonne sonore fortemente evocative.
Un film come “Bianca” dovrebbe essere incompatibile con tutte queste diavolerie e rimanere sugli scaffali più nascosti dei supermercati dell’entertainment come Netflix o in quei cestoni che si trovano negli Autogrill, con i cd a pochi spiccioli perché non se li compra più nessuno, in modo che nessuno lo possa più vedere e possa venire giustamente dimenticato, e in modo che nessuno possa più rimanere perplesso di fronte ai canoni di bellezza di Laura Morante che non sono quelli di oggi o alle frasi-citazioni di Nanni Moretti o al suo linguaggio nei dettagli cinematografici che oggi nessuno si sognerebbe più di usare, in modo che un film come “Bianca” possa rimanere un lontano ricordo, un qualcosa di sfocato come la storia che si impara a scuola, come certe reminiscenze che non si sa bene se sono davvero nostre, se ce le siamo inventate e le abbiamo tirate in ballo tante di quelle volte che oggi le consideriamo parte della nostra vita e tra qualche anno, raggiunta la demenza senile, potremo finalmente spacciare come autentiche perché anzi saranno in molti a dichiarare che è stato così anche per loro, che non ne sono sicuri, ma tanto se è vero o no nessuno ci farà più caso.