Ho deciso che se rinasco e mi viene data l’opportunità di rifare tutto da capo, cosa di per sè molto probabile, non cambio la mia vita nemmeno di una virgola se non alla voce “hobby e interessi”. Già. Penso che anziché imparare a suonare uno strumento musicale, nel mio caso pianoforte, tastiere, sintetizzatori analogici e ogni diavoleria sonora immessa sul mercato con l’avvento del digitale, connettibile al pc tramite interfaccia midi, prima, e usb, in tempi più recenti, mi dedicherò a un passatempo meno costoso, che so, la Formula Uno, e meno carico di aspettative, che so, fare il blogger. Anzi, ho intenzione di scrivere una lettera a mia figlia, nella quale spiegare che è meglio dedicarsi allo sport, alla lettura, ad amicizie normali e ad attività più salubri, rispetto a contornarsi di idioti perditempo (non solo batteristi) con i quali passare serate in scantinati e garage dall’inconfondibile fraganza di muffa, rincorrere personaggi dubbi quali organizzatori di concerti, impresari e discografici con cui si è disposti a scendere a ogni compromesso, e sognare una vita facile fatta di tour intorno al mondo e grupies consenzienti. Caro sangue nel mio sangue, ecco una lista alla Saviano di tutto quello che, se mi dai retta, nella buona e nella cattiva sorte potresti risparmiarti. Fai tesoro di quello che ha passato papà, e continua con scoutismo, yoga, pallavolo e nuoto, che ce n’è già abbastanza.
In ordine sparso: gestori di locali che non vogliono pagarti a fine serata; chilometri macinati in furgone, stipati come sardine tra corpi sudati, piedi puzzolenti e ampli polverosi (nel peggiore dei casi aste dei piatti che crollano addosso ad ogni frenata); numero di spettatori inferiore a quello di persone sul palco; tecnici del suono metallari residenti, non avvezzi all’amplificazione dei synth analogici; pomodori che lanciati dal pubblico fanno centro sulla tua maglia, nella piazza principale della tua città; cantanti che non si ricordano i testi; batteristi che non si ricordano la struttura dei pezzi, con i quali devi instaurare un sistema di messaggistica anticipata fatta di sguardi e curvature dell’arcata sopraccigliare.
Un bicchiere di vino bianco fresco e quattro chiacchiere piacevoli con Mara Redeghieri, a tavola il giorno dopo un concerto; chitarristi che si alzano di un paio di tacche rispetto al sound check; batteristi ostinati che considerano l’uso del metronomo un affronto ai loro studi jazzistici e prendono i pezzi ad un bpm totalmente aleatorio; fidanzate che passano dal cantante al tastierista e poi di nuovo al cantante, causando lo scioglimento del gruppo; gelati mangiati in autogrill prima di arrivare alla cassa.
Quelle sagome dei Tiro Mancino; pastori tedeschi della finanza che non ne vogliono sapere di uscire dal furgone fermo al posto di blocco, mentre fuori fa freddo e sono le 4 del mattino e vorresti tornare a casa, ma l’odore nell’abitacolo è inequivocabile; i materassi, riciclati chissà da chi, sui quali devi stenderti, se la paga è il rimborso minimo ovvero essere ospitati in un centro sociale; i bagni del centro sociale; il centro sociale; Carmen Consoli che prova i pezzi nel camerino con la chitarra acustica; i fattoni che ballano sotto il palco canzoni che sentono solo loro; il pubblico francese, misto, multietnico e di tutte le età, che sta ad ascoltarti malgrado il tuo sound tenda al punk noise industriale perché comunque è la festa della musica, ed è una festa; le serate di cover per tirare su qualche lira, oggi euro nelle tribute band; i turnisti che suonano senza cuore; i turnisti che suonano però meglio di tutti e che non riesci a convincere a sposare la causa; Luca De Gennaro e Paolo Conforti che ti fanno passare la voglia di frequentare l’ambiente dei gruppi underground.
I chitarristi punk morti di overdose; i chitarristi punk che prendono il metadone; quelli che suonano in canottiera; quelli che si presentano al concerto nel locale figo vestiti da ufficio; i genitori del più giovane della band che hanno la tua età; le sbronze prima del concerto; le sbronze durante il concerto; le vomitate dopo il concerto; le congestioni prese a fumare fuori dal locale in pieno inverno; Cecchetto che cazzia brutalmente regista e presentatore della trasmissione radio alla quale devi rilasciare l’intervista per un buio di una manciata di secondi; cannare in pieno la parte di piano di Because the night; cannare in pieno l’inizio di piano di Virtual insanity; convincere gli altri che suonare i synth non significa essere un pianista; la SIAE che ti fa la multa; l’inaugurazione del locale dove vanno le modelle; Giuliano Palma e Aliosha con le modelle che hai visto la settimana prima all’inaugurazione del locale; i batteristi che votano Bossi; mantenere una fedeltà alla linea; i parametri per essere considerato new wave.
Suoniamo prima dei Portishead, che poi significa suoniamo prima di un dj che ha aperto i concerti per i Portishead; Madaski che ti fa usare il suo mixer per le tue tastiere; la dinamica di diffusione di una rissa nel locale, che assomiglia alla meiosi cellulare; la pioggia che ti fa saltare il concerto e la paga della serata; Piero Pelù che viene nei camerini della Flog a complimentarsi con il tuo cantante; il liscio per mettere insieme uno stipendio; il furgone sepolto dalla neve, che ti costringe a tornare a casa in treno la mattina di capodanno; l’affidabilità, questa sconosciuta; fare 300 chilometri per essere intervistato telefonicamente da un giornalista che abita a 5 minuti da casa tua.
L’umidità che fa impazzire i circuiti elettronici vintage; i problemi alla schiena dopo decenni di strumenti trasportati ripieni di circuiti elettronici vintage; chi paga la sala prove in ritardo; chi dorme con la tipa in sala prove; le prove di mattina; le interminabili sessioni di registrazione; le interminabili sessioni di missaggio; Roy Paci che dà una dritta al tuo trombettista; ringraziare mamma e papà sul booklet; i cantanti maledetti; i cantanti che poi si mettono a fare i solisti; i cantanti che se ne vanno; i cantanti.
Dulcis in fundo, una reminiscenza perfetta per la chiusura di un post, un amarcord per il quale una battuta di una riga non basta, un rilancio da usare con gli amici durante le discussioni alla io ce l’ho più lungo. Un episodio che si trova meritatamente nella top ten dei momenti storici della mia vita. Magari anche nella vostra, in questo caso potrete capirmi se sapete di cosa parlo. E ve la tirereste anche voi. Siete pronti per il (o la) climax?
Il primo maggio del 1996 ho aperto il concerto omonimo, in piazza San Giovanni, a Roma, davanti a una folla di 400mila persone. Persone sicuramente distratte, a cui eravamo sconosciuti, accaldate e bruciate dal sole. Ma pur sempre 400mila. E c’era Sting, quell’anno, che ha accennato Message in a bottle al sound check, illudendomi, e poi ha suonato le sue solite melense canzoni pop da solista, se ami qualcuno lascialo libero e similia, con il suo gruppo di virtuosi. Sting, che nei camerini, fottendosene di chi avrebbe voluto avvicinarlo e del volume della musica che arrivava dal palco, se ne stava sdraiato su una chaise longue a leggere un libro all’ombra delle sue guardie del corpo. E poi è arrivato il nostro momento, il palco tondo che ruota e ci sbatte in faccia quell’oceano di mani che salgono. Pochi minuti, il palco ruota ancora, questa volta verso le quinte, e già devi scendere. Tornare a casa. E finisce così. E pensi che sarà per la prossima vita.
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