vissi d’arte

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C’è stato un momento nella mia vita in cui ho creduto veramente che il mondo potesse aver bisogno di me in qualità di consulente musicale. Che cioè esistessero aziende o persone in grado di pagarti per consigliare la musica più adatta. Per esempio per una pubblicità, o per una campagna elettorale, per qualche manifestazione, come sottofondo per immagini, per iniziare e finire un film, per correre sentendo di meno la fatica, per riuscire ad addormentarsi o per svegliarsi nel migliore dei modi. Insomma, ritenevo di poter far parte di quella categoria di persone che svolgono funzioni grazie alla quali gli altri possono vivere con maggiore agio, si sentono più in forma, riescono a rilassarsi, alzano il volume dell’autoradio e cantano una canzone con gli occhi chiusi che li porta via dalla coda in tangenziale e dalla neve sporca accumulata ai bordi della strada.

Una attività diversa dal fare il disc jockey, lì devi abbinare un pezzo a quello successivo e lo devi fare secondo numerose variabili come il momento della serata, se devi portare più gente in pista o se gente ce n’è troppa, se devi calmare quelli che sono in procinto di darsi gli spintoni o se il pubblico è troppo ubriaco per capire le finezze. Il consulente musicale invece ha tutto il tempo per scegliere il pezzo da proporre a seconda della richiesta che gli è stata fatta, può mettere a punto il suo menù come quelli che propongono i vini a seconda del piatto deciso dal cliente al ristorante.

Adatto a chi lavora in televisione, o nell’industria cinematografica, nel mondo della moda. Grandi agenzie che operano nei media che hanno bisogno di conferire valore aggiunto ai loro messaggi con il giusto tocco di commento sonoro, ma che solo una conoscenza a trecentosessanta gradi di tutto quello che c’è e c’è stato (e sta per esserci, non dimentichiamolo) scremato dal buon gusto e da una visione oggettiva degli input che ogni singolo elemento musicale può trasmettere alla ricettività emotiva umana in tutta la sua casistica è in grado di fornire.

Ma anche singoli, perché no. Ricchi esteti che subappaltano ad altri decisioni e responsabilità di scelte che da soli non sono in grado di prendere. Ci sono gli assistenti per lo shopping? Ci sono i personal trainer? Esistono i wedding planner? Quelli che ti curano il look? Bene, non vedo perché non ci possa essere spazio per un esperto di playlist contestuali, e non lo dico solo perché c’è stato un momento in cui ho creduto veramente che il mondo potesse aver bisogno di me in qualità di consulente musicale. Quel momento, è stato un attimo, è accaduto poco fa, ma sono certo ricapiterà presto, con la stessa frequenza con cui succede da quarant’anni a questa parte ogni mattina, quando indosso le cuffie e scelgo il disco della giornata.

amore vigliacco

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È impossibile ipotizzare una stima precisa, ma partendo dagli anni ’60 a oggi avere un gruppo rock – genere inteso in senso lato, avrei fatto meglio a scrivere avere una band – e farne una professione è stato un sogno per centinaia di migliaia di ragazzi, giusto per rimanere in Italia. Il problema, se lo vogliamo intendere come tale, è sintetizzato nella celebre massima “uno su mille ce la fa”, e il fatto che a cantarla sia stato Gianni Morandi potrebbe già dare a questo incipit la dignità di aver centrato le cause di una moria di talenti senza precedenti e più o meno a ragione. Può risultare interessante scoprire che ne è stato degli altri novecentonovantanove.

Se volete farvi un’idea di quello che rimane sotto al fortunato che emerge, o nella batteria immediatamente più bassa, a filo con l’acqua – se vogliamo utilizzare la metafora dell’iceberg – e che passa una parte della sua vita in odore di vittoria e che solo una botta di fortuna, in quella posizione, potrebbe farlo emergere. Oppure quelli affogati sul fondo, schiacciati da tutta la massa di aspiranti che li sovrastano senza lasciare lo spazio per tutta una serie di meriti, giustamente. Chi è più bravo, chi è più paraculo, chi ha i contatti giusti, chi ha dei numeri. Ma a qualsiasi livello di questa indagine stratigrafica c’è una qualità trasversale che in taluni casi costituisce l’elemento decisivo, in altri, pur essendo presente in dosi anche elevate, non riesce a fare la differenza. Si tratta dell’impegno, della costanza e della disponibilità al sacrificio di chi ci vuole davvero provare. Un investimento a fondo perduto, nella stragrande maggioranza dei casi.

Si sa, nello spettacolo in genere c’è un elemento, che è il gusto del pubblico – inteso anche come i quattro ubriachi unici ad ascoltarti nel pub di periferia mentre suoni – che ne ingigantisce l’imprevedibilità. No, purtroppo non è un lavoro come gli altri, che già hanno la loro precarietà. Questa è una peculiarità della categoria “saranno famosi”.

Ma chi sono tutti gli altri, i sommersi, quelli che ci provano e non ci riescono? Che fine fanno? Che ne è stato del loro lavoro, delle composizioni, delle demo? Che cosa non ha funzionato, malgrado l’abnegazione? Quando si capisce che arrivato il momento in cui non si può fare altro che mollare il colpo?

S. è stata per quindici anni la cantante dei C., un gruppo ormai sciolto che ha seguito l’iter standard di chi opera in ambito musicale ai tempi del web. Le origini, la fase di costruzione di un’identità, le prime composizioni. Poi la ricerca di locali per concerti, le manifestazioni, la partecipazione a concorsi. Si registrano le demo, gli studi di registrazione pagati da mamma e papà, i cd autoprodotti. Quindi la musica condivisa su tutti gli spazi social più comuni, verticali e non, si diffonde la propria arte, si cercano contatti. Nel frattempo si cresce, e nel momento in cui si deve scegliere che fare della propria vita si sceglie un lavoro sufficientemente flessibile da non ostacolare l’attività musicale. Bisogna essere sempre pronti a partire per suonare magari a 400 chilometri di distanza, quindi si prediligono gli impieghi su turni. Fino a quando ci si rende conto che è tutto vano e si ripiega su una attività più amatoriale, ci si dà lo status di gruppo di nicchia, lo si era anche prima ma si anelava al grande successo. Nel frattempo non è più tempo per una carriera altrove, non è più tempo per una famiglia, magari. E il rock non ha ripagato. Casi di questo tipo sono numerosissimi quanto le varianti. C’è chi non demorde, magari sfrutta un equilibrio con il proprio lavoro vero, e continua imperterrito anche mentre i coetanei spingono le carrozzine dei nipotini al parco.

E c’è infine quel mausoleo che è Internet, un luogo infinito che risuona in ogni dove di band ormai morte e sepolte. Siti o pagine dei social network più diffusi tra gli emergenti che proclamano l’ultimo aggiornamento avvenuto quattro o cinque anni fa. Tonnellate di canzoni caricate su server in ogni dove di cui non se ne farà più nulla, un cimitero della creatività dall’atmosfera spettrale indipendentemente dal genere di appartenenza dei reperti in cui ci si imbatte. Provateci, fate un giro a caso su Myspace, prima che sparisca come la maggior parte dei suoi utenti.

E non credo che nel caso dei ragazzi che non ce l’hanno fatta sia stata una congiura del mondo verso il gruppo in questione. Magari erano proprio scarsi. Non è nemmeno il caso di drammatizzare, forse non è così importante. Ma, ribadisco, può essere comunque un’esperienza edificante sfogliare tutte quelle pagine autocelebrative, immaginando di attraversare i corridoi di quegli immensi stabili adibiti a sale prove, con tutte le porte che si affacciano allineate e dai cui pannelli isolanti si percepiscono i rumori di sogni che si infrangono, sogni di ogni genere (musicale), con distorsore o senza.

p.s. il titolo del post riprende quello di una canzone di gruppo di tantissimi anni fa, una band che si è sciolta quando non solo non c’era ancora Internet, ma non esistevano nemmeno i cd, in cui si parlava proprio di questo. L’amore vigliacco, inutile dirlo, era la musica. Anzi, il rock’n’roll.

ispirazione, espirazione

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Può capitare che nel profondo del profondo del mese più profondo dell’estate, quei due o tre giorni che stanno a cavallo di ferragosto a seconda della sua posizione tra le domenica precedente o successiva, quel buco di c**o temporale (a volte anche con temporale annesso) in cui non c’è nulla, si scelga di trascorrere questo nulla barricati in casa. E sono convinto che molti lo passino così, altrimenti non si spiegherebbe il vuoto fuori. C’era un tipo, per esempio, che una volta è rimasto chiuso in casa per tre giorni, da solo. Cibo e bevande a sufficienza e un intero set di synth più un sampler collegati a un Mac, un PowerPC per l’esattezza su cui girava dignitosamente Cubase. E niente, tre giorni di full immersion in composizioni ispirate grazie alle quali il riservato musicista ha vissuto di rendita per almeno tre gruppi successivi, nemmeno troppo caldo malgrado la strumentazione impilata e accesa nella stanzetta più piccola, chiamiamola studio. La casa aveva infatti una doppia esposizione e, ubicata piuttosto in alto e per di più al quinto piano, era ventilata abbastanza. Ogni suono era ispirazione per un pezzo nuovo, non c’era giorno o notte o alcun limite fisico, le ferie sono state pensate anche per cambiare abitudini e vivere tra parentesi. Alla fine, stremato e spremuto dalla verve creativa, il tipo ha spento tutto, ha fatto una meritata doccia, è salito su una Panda bianca targata AL e ha raggiunto i genitori in una casa sull’appennino ligure, dopo un viaggio in cui ha ascoltato e riascoltato, su nastro, quanto registrato in quei tre giorni, più di due ore di musica che quasi non si ricordava già più.

un amore di gruppo

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Ho deciso che se rinasco e mi viene data l’opportunità di rifare tutto da capo, cosa di per sè molto probabile, non cambio la mia vita nemmeno di una virgola se non alla voce “hobby e interessi”. Già. Penso che anziché imparare a suonare uno strumento musicale, nel mio caso pianoforte, tastiere, sintetizzatori analogici e ogni diavoleria sonora immessa sul mercato con l’avvento del digitale, connettibile al pc tramite interfaccia midi, prima, e usb, in tempi più recenti, mi dedicherò a un passatempo meno costoso, che so, la Formula Uno, e meno carico di aspettative, che so, fare il blogger. Anzi, ho intenzione di scrivere una lettera a mia figlia, nella quale spiegare che è meglio dedicarsi allo sport, alla lettura, ad amicizie normali e ad attività più salubri, rispetto a contornarsi di idioti perditempo (non solo batteristi) con i quali passare serate in scantinati e garage dall’inconfondibile fraganza di muffa, rincorrere personaggi dubbi quali organizzatori di concerti, impresari e discografici con cui si è disposti a scendere a ogni compromesso, e sognare una vita facile fatta di tour intorno al mondo e grupies consenzienti. Caro sangue nel mio sangue, ecco una lista alla Saviano di tutto quello che, se mi dai retta, nella buona e nella cattiva sorte potresti risparmiarti. Fai tesoro di quello che ha passato papà, e continua con scoutismo, yoga, pallavolo e nuoto, che ce n’è già abbastanza.

In ordine sparso: gestori di locali che non vogliono pagarti a fine serata; chilometri macinati in furgone, stipati come sardine tra corpi sudati, piedi puzzolenti e ampli polverosi (nel peggiore dei casi aste dei piatti che crollano addosso ad ogni frenata); numero di spettatori inferiore a quello di persone sul palco; tecnici del suono metallari residenti, non avvezzi all’amplificazione dei synth analogici; pomodori che lanciati dal pubblico fanno centro sulla tua maglia, nella piazza principale della tua città; cantanti che non si ricordano i testi; batteristi che non si ricordano la struttura dei pezzi, con i quali devi instaurare un sistema di messaggistica anticipata fatta di sguardi e curvature dell’arcata sopraccigliare.

Un bicchiere di vino bianco fresco e quattro chiacchiere piacevoli con Mara Redeghieri, a tavola il giorno dopo un concerto; chitarristi che si alzano di un paio di tacche rispetto al sound check; batteristi ostinati che considerano l’uso del metronomo un affronto ai loro studi jazzistici e prendono i pezzi ad un bpm totalmente aleatorio; fidanzate che passano dal cantante al tastierista e poi di nuovo al cantante, causando lo scioglimento del gruppo; gelati mangiati in autogrill prima di arrivare alla cassa.

Quelle sagome dei Tiro Mancino; pastori tedeschi della finanza che non ne vogliono sapere di uscire dal furgone fermo al posto di blocco, mentre fuori fa freddo e sono le 4 del mattino e vorresti tornare a casa, ma l’odore nell’abitacolo è inequivocabile; i materassi, riciclati chissà da chi, sui quali devi stenderti, se la paga è il rimborso minimo ovvero essere ospitati in un centro sociale; i bagni del centro sociale; il centro sociale; Carmen Consoli che prova i pezzi nel camerino con la chitarra acustica; i fattoni che ballano sotto il palco canzoni che sentono solo loro; il pubblico francese, misto, multietnico e di tutte le età, che sta ad ascoltarti malgrado il tuo sound tenda al punk noise industriale perché comunque è la festa della musica, ed è una festa; le serate di cover per tirare su qualche lira, oggi euro nelle tribute band; i turnisti che suonano senza cuore; i turnisti che suonano però meglio di tutti e che non riesci a convincere a sposare la causa; Luca De Gennaro e Paolo Conforti che ti fanno passare la voglia di frequentare l’ambiente dei gruppi underground.

I chitarristi punk morti di overdose; i chitarristi punk che prendono il metadone; quelli che suonano in canottiera; quelli che si presentano al concerto nel locale figo vestiti da ufficio; i genitori del più giovane della band che hanno la tua età; le sbronze prima del concerto; le sbronze durante il concerto; le vomitate dopo il concerto; le congestioni prese a fumare fuori dal locale in pieno inverno; Cecchetto che cazzia brutalmente regista e presentatore della trasmissione radio alla quale devi rilasciare l’intervista per un buio di una manciata di secondi; cannare in pieno la parte di piano di Because the night; cannare in pieno l’inizio di piano di Virtual insanity; convincere gli altri che suonare i synth non significa essere un pianista; la SIAE che ti fa la multa; l’inaugurazione del locale dove vanno le modelle; Giuliano Palma e Aliosha con le modelle che hai visto la settimana prima all’inaugurazione del locale; i batteristi che votano Bossi; mantenere una fedeltà alla linea; i parametri per essere considerato new wave.

Suoniamo prima dei Portishead, che poi significa suoniamo prima di un dj che ha aperto i concerti per i Portishead; Madaski che ti fa usare il suo mixer per le tue tastiere; la dinamica di diffusione di una rissa nel locale, che assomiglia alla meiosi cellulare; la pioggia che ti fa saltare il concerto e la paga della serata; Piero Pelù che viene nei camerini della Flog a complimentarsi con il tuo cantante; il liscio per mettere insieme uno stipendio; il furgone sepolto dalla neve, che ti costringe a tornare a casa in treno la mattina di capodanno; l’affidabilità, questa sconosciuta; fare 300 chilometri per essere intervistato telefonicamente da un giornalista che abita a 5 minuti da casa tua.

L’umidità che fa impazzire i circuiti elettronici vintage; i problemi alla schiena dopo decenni di strumenti trasportati ripieni di circuiti elettronici vintage; chi paga la sala prove in ritardo; chi dorme con la tipa in sala prove; le prove di mattina; le interminabili sessioni di registrazione; le interminabili sessioni di missaggio; Roy Paci che dà una dritta al tuo trombettista; ringraziare mamma e papà sul booklet; i cantanti maledetti; i cantanti che poi si mettono a fare i solisti; i cantanti che se ne vanno; i cantanti.

Dulcis in fundo, una reminiscenza perfetta per la chiusura di un post, un amarcord per il quale una battuta di una riga non basta, un rilancio da usare con gli amici durante le discussioni alla io ce l’ho più lungo. Un episodio che si trova meritatamente nella top ten dei momenti storici della mia vita. Magari anche nella vostra, in questo caso potrete capirmi se sapete di cosa parlo. E ve la tirereste anche voi. Siete pronti per il (o la) climax?

Il primo maggio del 1996 ho aperto il concerto omonimo, in piazza San Giovanni, a Roma, davanti a una folla di 400mila persone. Persone sicuramente distratte, a cui eravamo sconosciuti, accaldate e bruciate dal sole. Ma pur sempre 400mila. E c’era Sting, quell’anno, che ha accennato Message in a bottle al sound check, illudendomi, e poi ha suonato le sue solite melense canzoni pop da solista, se ami qualcuno lascialo libero e similia, con il suo gruppo di virtuosi. Sting, che nei camerini, fottendosene di chi avrebbe voluto avvicinarlo e del volume della musica che arrivava dal palco, se ne stava sdraiato su una chaise longue a leggere un libro all’ombra delle sue guardie del corpo. E poi è arrivato il nostro momento, il palco tondo che ruota e ci sbatte in faccia quell’oceano di mani che salgono. Pochi minuti, il palco ruota ancora, questa volta verso le quinte, e già devi scendere. Tornare a casa. E finisce così. E pensi che sarà per la prossima vita.

questa musica che non ha orecchi

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Avete mai prestato attenzione seriamente alla musica diffusa nei negozi in cui fate shopping? E con shopping intendo l’accezione inglese, ovvero fare una spesa di qualsiasi tipo, dai pelati alla Coop alle Camper nuove in via Montenapoleone (percorso tipico di un consumatore di sinistra come me). Prendiamo per esempio un qualsiasi centro commerciale dell’hinterland, le solite botteghe in franchising con i prodotti che si ripetono tristemente uguali ovunque, l’apoteosi della spersonalizzazione della non-scelta del consumatore (e se scrivessi in inglese non ci sarebbe questa indecorosa infilata di preposizioni articolate).

È sabato, è anche inverno, fuori piove ma anche se non piovesse ci andrei lo stesso. Entro, e il background sonoro preponderante è il brusio, vociare misto a carrelli trainati e scale mobili. Qualche acuto di bambini. La canzoncina della giostra. Una madre richiama il proprio figlio: “Keviiiiiiiiiiiiiin!”. Ma concentriamoci. Si coglie un bordone di musiche varie in libertà, una sopra l’altra, un bsxbsbxbsbbrsrsrtrxrtsrtxrx che mi ricorda lo stabile industriale riconvertito in sale prove dove avevo il campo base di un gruppo, tanti anni fa. Un corridoio stretto su cui si affacciavano decine di cellette, ciascuna occupata da una band e dotata di adeguato sistema di isolamento acustico. Quindi dentro ci si stava da dio. Ma fuori, in quel limbo che dava accesso a quella fila di bocche chiuse e blindate usciva di tutto, metal su reggae su punk su nirvana su funky, un calderone disarmonico tendente alle frequenze più basse degna colonna sonora di girone dantesco.

L’esperienza al centro commerciale è simile, infatti entri in un negozio, lasci fuori tutto il bsxbsbxbsbbrsrsrtrxrtsrtxrxs e resti solo con una frazione di quel bsxbsbxbsbbrsrsrtrxrtsrtxrx, una componente di quel bsxbsbxbsbbrsrsrtrxrtsrtxrx che resta nuda e si lascia afferrare distintamente. Molto frequentemente, per non dire quasi sempre, il genere più in voga tra i misteriosi selezionatori (davvero: radio interne a parte, non ho idea di chi possano essere) è R’n’B moderno, quella variante della black music in cui le cantanti urlano acuti dopo essersi arrampicate su scale barocche con una logica piuttosto aleatoria (2 gradini verso l’alto, 3 verso il basso, torno su di 1, riscendo di 4 per poi saltare 2 a 2 verso la rampa successiva). Non ci sarebbe nulla di male (o almeno ci sarebbe ma capisco che a qualcuno piaccia così), purtroppo il bordone di chiacchericcio locale di ogni singolo negozio, muovendosi sulla stessa fascia di frequenze della componente strumentale, lascia emergere solo la voce. Che alla terza o quarta canzone, mentre sei lì che aspetti che si sciolga l’eterno dubbio della persona che accompagni circa l’acquisto di un capo da 6 euro, con molta probabilità tessuto in estremo oriente, che poi come da copione non sarà mai acquistato, genera fastidio.

C’è poi l’immancabile punzapunza, incontrastato leader dell’entertainment per distratti, con le sue varianti più o meno acide a seconda del target preso di mira. I postumi di Sanremo, Festivalbar (ammesso che esista ancora) e manifestazioni canore varie, ora note come Talent Show. Entri poi nei reparti wellness, erboristeria o cosmesi e sei automaticamente proiettato in luoghi esotici in cui armonie remote agevolano la contemplazione dei prodotti verso l’acquisto degli stessi. Tra gli scaffali del supermercato invece vale un po’ tutto, quasi come su Virgin Radio. Nulla di subliminale, perché se si tratta di scatolame o di salumi il consumatore non presta attenzione a nulla se non al prezzo al chilo.

Ma ora c’è un barlume di speranza, in tutto questo. Un po’ come i finali dei film più ansiogeni che, dopo 89 minuti di pioggia, si avviano ai titoli di coda con le nuvole che si aprono lasciando filtrare il cielo sereno. Proprio così. Al termine del mio non-tour nel non-luogo per antonomasia entro in una cartolibreria, e non credo alle mie orecchie: un raggio di sole, proprio quello di De Gregori, “a questo amore a questa distrazione, a questo carnevale dove nessuno ti vuole bene, dove nessuno ti vuole male“. Un pezzo che non mi capitava di sentire da secoli, “a questo mondo già troppo pieno, a questa strana ferrovia, unica al mondo per dove può andare ti porta dove porta il vento, ti porta dove scegli di ritornare“. La casualità della piacevole sorpresa mi ha reso di umore accondiscente verso la proposta di quel negozio, già più friendly per natura verso i miei gusti. Libri, penne, bloc notes e infinite varietà di ameno merchandising, “avrai matite per giocare e un bicchiere per bere forte, e un bicchiere per bere piano un sorriso per difenderti e un passaporto per andare via lontano“. A quel punto, io che detesto la retorica, mi sono svegliato dallo stato di ipnosi. Ho trovato eccessiva e didascalica la corrispondenza tra commento sonoro e immagini, quello che avevo intorno. Mi sono sentito colpito e affondato. Diamine, Francesco ha centrato nel segno. Così, di riflesso, sono fuggito senza comprare nulla.

lo spleen e i peanuts

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Tanti sforzi per poi leggere quello che davvero ci si porta dentro in una striscia di Charles M. Schulz.