Quando la gente in discoteca ha iniziato a ballare come i robot è stato il segnale che la componente elettronica nella musica stava diventando preponderante. Ma, David Zed a parte, non è mai stato facile muoversi come pensiamo che le macchine antropomorfe possano fare, nel senso che non ci sono robot che ballano di propria iniziativa se non programmati dagli esseri umani e in film, cartoni o a qualche fiera del settore. Anzi, se esiste una macchina antropomorfa a una fiera di settore dubito che qualcuno la programmi per ballare come un essere umano. Al massimo sarà configurata per eseguire le funzioni per le quali è stata pensata. Spostare scatoloni o pulire aree vaste o che ne so. Comunque un tempo bastava una batteria artificiale o qualche parte ritmica di synth che tutti irrigidivano arti superiori e inferiori e via di automi. E nel mio amore per la natura ricostruita da sempre vivo con fastidio questa associazione inconscia che però è molto comune tra suoni elettronici e replicanti di latta, cioè non sento differenza emotiva tra una corda che vibra e la stessa dopo che è stata digitalizzata e riprodotta. E vabbè che adesso tutto è una sequenza binaria, ma ai tempi dei quattro crucchi qui sotto performance di questo tipo avevano un loro perché. Molti degli spettatori in giovanissima età come il sottoscritto non hanno avuto ben chiaro nell’immediato quali fossero i musicisti veri e quali la loro versione robot, se quelli sul palco o gli altri mescolati tra il pubblico. Probabilmente eravamo tutti più ingenui e credevamo di poter cambiare il mondo, riprogrammandolo.