la musica, spiegata bene

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La musica è uno dei più incomprensibili misteri dell’umanità e forse è per questo che siamo in molti ad averci sbattuto la testa contro. La musica ci ha fatto innamorare e ci ha spezzato il cuore. Ci fa vivere e ci fa morire. Chissà se la musica è un elemento comune a ogni essere vivente. Tutti producono suoni, ma forse chi li ha regolamentati secondo armonie, melodie e ritmo siamo stati solo noi, il genere umano che vive sul pianeta terra, in tutto l’universo. Il che non significa che il nostro metodo sia quello giusto, cerchiamo di mantenere la calma e i piedi per terra. Forse sul pianeta Zxsxzyyz le entità autoctone esprimono la loro insoddisfazione non con il post-punk ma con il Xzxzxssxzxz, che è un wzxzxzx che si ottiene emettendo dei fgfgfgfg attraverso dei khxkhxkhxkh. Avete capito cosa intendo, spero.

Limitiamoci così a quello che conosciamo, ai canoni di suono a cui siamo abituati e che abbiamo imparato sin da quando occupavamo il ventre di nostra madre improvvisando chissà quali hit, cercando di andare a tempo con il suo cuore. Già lì c’era chi si vedeva se era portato o meno e infatti, ci avrete fatto caso chissà quante volte, la musica non è mica per tutti e persino ogni musicista la vive a suo modo. C’è chi si fa condurre dallo strumento che suona. Chi lo ha in pugno con una tecnica eccelsa e sa tradurre tutto in musica ma, in realtà, non dice nulla. Chi anche suonando due note una di seguito all’altra produce sequenze che riflettono perfettamente quello che ha dentro ed è come se parlasse e tu, che non ci riesci perché ti bombardi di sovrastrutture, non capisci dove sta la magia. Chi segue degli schemi come i bambini che copiano i disegni dai modelli quadrettati per imparare la scala (non quella musicale, eh, qui siamo in piena metafora) e chi a mano libera riproduce i capolavori dei maestri. Chi interpreta la realtà e chi se la inventa, chi è perfetto per lo strumento che ha scelto e chi lo strumento che ha scelto gli sta stretto o largo.

Io che cerco pericolosamente di attraversare con le ruote dell’auto le giunte sui cavalcavia in modo da farlo a tempo, che ogni volta in cui suona il segnale in ascensore composto da tre note il cui intervallo le rende simili all’incipit del tema di “Jesus Christ Superstar” mi viene sempre da continuarlo fischiettando e mia figlia mi odia per questo, che sbatto il filtro della caffettiera contro il bidone della spazzatura per svuotarlo riproducendo l’inizio di “No no no you don’t know me” di Dawn Penn, che in macchina armonizzo qualunque cosa esca dall’autoradio compromettendo il mio matrimonio ogni volta, che faccio le scale in salita da quando ho sette anni canticchiando mentalmente lo stesso studio per pianoforte imparato appunto a sette anni, che scelgo le amicizie in base ai gruppi che ascoltano, che appena vedo una tastiera non resisto dal suonare almeno una volta il tema di “So what?”, nemmeno io che tutto sommato sono uno che se ne capisce, il mistero della musica non lo saprei spiegare. So solo che a un certo punto ho venduto tutta la strumentazione che avevo come atto di crudeltà verso me stesso, perché non ero soddisfatto di quello che facevo, non vedevo sbocchi e nemmeno possibilità di miglioramento. D’altronde la musica è un’arte di cui una delle opere più conosciute al mondo e forse anche nell’universo, anche tra quelli che fanno fgfgfgfg attraverso dei khxkhxkhxkh, dice nel ritornello che non c’è verso di ottenere soddisfazione. Un motivo (anche questo è un gioco di parole che spero cogliate) ci sarà.

stanze note

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Questa è una casa in cui c’è musica, quest’altra che vedete a fianco invece è una casa in cui non c’è musica. Anche se non c’è nessuna foto di riferimento è facile distinguerle. Il nucleo che vive nella casa in cui c’è musica ha il sorriso sulle labbra e, a certe latitudini, anche il ritmo nel sangue. Gli altri boh, davvero non so come facciano a vivere. Conoscevo una coppia che aveva rivestito le pareti della sala con una carta che simulava una libreria. Scaffali disegnati fitti di libri ordinati e posizionati con il titolo in bella vista. La cosa mi faceva sorridere perché poi in casa di libri veri ce n’erano ben pochi e so di per certo che non erano, come me, maniaci ossessivi dei prestiti interbibliotecari e a quel tempo vi assicuro che gli e-book non erano nemmeno nell’anticamera del cervello del loro inventore. Ma queste cose oggi non mi stupiscono più di tanto perché sono tanti i modi in cui si può accedere alla cultura.

Le case silenziose, quelle in cui non si sente mai musica, quelle mi fanno più paura. I nostri nonni avevano sempre la radio accesa, anche quando si facevano la barba in bagno si portavano quella a transistor che utilizzavano poi la domenica a spasso per gli aggiornamenti di Ciotti e Ameri. I nostri padri riempivano le loro stanze di musica colta dai nomi così impronunciabili che solo a sentirli i piccoli si rintanavano nei loro nascondigli dalla paura. Dietrich Buxtehude. Alexander Scriabin. Carl Orff. Ludwig van Beethoven. Noi ci davamo dentro con i Cure e i CCCP, ma questo l’abbiamo già detto e ridetto, allo stesso modo in cui abbiamo ripetuto più volte che il rock oggi è un passatempo per vecchi e che a nessuno interessa più ascoltare la musica con altre persone. Per questo non capisco gli investimenti che si fanno per dotare gli spazi pubblici o privati all’aperto di dispositivi per la diffusione sonora. La grande truffa dell’Out Of Home, o come si chiamava qualche anno fa quando il fenomeno è stato lanciato sul mercato nemmeno avessero scoperto la ruota, è che la gente vuole vedere e sentire cose ma per i fatti suoi in casa, poi però vai nelle case e vedi che non c’è granché.

Le radio sono spente, sono solo accesi schermi ultrapiatti e curvi dai colori che in natura nemmeno se ti fai di LSD li vedi così, con delle partite o al massimo dei cuochi che cucinano. A me piace mettere i dischi di sera, dopo cena, al posto della tv. Mentre sbrighiamo le ultime faccende per dare alla nostra casa una dignità entry-level mi piace ascoltare qualcosa, anche solo una facciata di un ellepi, ma mi rilassa e così mi corico molto meno agitato di quando guardo qualcosa in tv. Ora ho preso anche l’abitudine di accendere Lifegate la mattina mentre preparo colazione. Alla fine, anche se è una stazione radiofonica un po’ da anziani come me, è molto più sincera delle varie Virgin Radio o Radio Freccia, che trasmettono l’idea di rock che hanno quelli che vogliono passare per gente che se ne capisce di rock ma solo per venderti poi le solite canzonette. In generale, comunque, il mio motto è: meno cuffie e più casse. Solo così le vostre mura domestiche si permeeranno di musica e la musica non vi lascerà mai più.

conoscere il passato non aiuta a interpretare il presente, almeno in musica

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Il pop oggi è un terreno di scontro generazionale tanto quanto anni addietro lo sono stati le rivalità tra genitori democristiani e figli simpatizzanti di autonomia operaia, madri formate alla scuola gentiliana contro giovani seguaci del sei politico, padri rispettosi delle regole e adolescenti autoriduttori o, per fare un esempio più consono, fan della musica classica di mezza età intransigenti su tutto il resto contro chi portava il rock in casa. Ma, come vedete, si tratta di piani antitetici, si parla di reazionari contro giovani ribelli, temi con cui scornarsi perché frutto di posizioni opposte. Invece la nostra generazione cresciuta nel pop e che ha passato la vita a erigere monumenti al pop si è sorprendentemente trovata contro la generazione dei loro figli che non ne vogliono sapere delle nostre lezioni di musica pop, un’attitudine, la nostra, che fa parte dell’approccio generale per cui ci sentiamo giovani anche a cinquant’anni e pensiamo di saper insegnare ai giovani (quelli veri) come si fa ad essere giovani.

In pratica abbiamo occupato i luoghi in senso lato e traslato e i momenti culturali che per natura appartengono ai giovani, e ora loro, non trovando spazio, si sono spinti giustamente oltre e secondo me è per questo motivo che ascoltano della musica veramente di merda, sempre che l’ascoltino. Perché noi genitori pop ci troviamo di fronte sia i figli che ascoltano della musica veramente di merda che quelli che non ascoltano musica, il che per noi che siamo nati e cresciuti con la musica come fattore distintivo è inconcepibile. Come non mangiare. Come non bere. Come non respirare.

Eppure è così e, tra le due varianti di questo decorso della civiltà come la conosciamo, non so quale augurarvi e augurarmi. Mia figlia, per esempio, ascolta roba tutto sommato di qualità ma, in quanto perfettamente integrata nel suo tempo, ogni tanto mi fa sentire canzoni che giudico vergognose, quasi tutte riconducibili ai fenomeni rap e trap locali, o brani resi celebri perché usati nemmeno in spot tv ma come sottofondo a meme di youtube, cose condivise che si diffondono a macchia d’olio e di cui si è smarrita la paternità (altro aspetto per me inconcepibile) fino al pop del momento, che tutto sommato tra quello che offre il panorama commerciale è il meno peggio. Io che sono piuttosto rigido su queste tematiche cerco comunque di non esprimere giudizi (nel tempo qualcosa mi è scappato, con conseguenze peggiori rispetto alla causa scatenante) e faccio del mio meglio per capire. Ed è questo che fa riflettere: decenni degli ascolti più estremi, di Clock DVA, Einstürzende Neubauten, i Ministry (cazzo, i Ministry), Ornette Coleman, Drexciya ma anche moltissima musica di adesso e millemila altra roba complessissima per poi non riuscire a comprendere Ghali o Sfera Ebbasta. I loro pezzi si librano negli ambienti di casa nostra riprodotti su supporti di qualità pessima – smartphone e pc portatile, questo è l’Hi-Fi con cui i nostri ragazzi stanno crescendo – e non avete idea di come si infrangano in mille pezzi contro il mio universo sonoro. La musica è cambiata e probabilmente non è nemmeno più musica, il pop è morto ma per fortuna io mi sento in forma.

la chiave del successo

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La musica ha l’odore della muffa, anche la musica di più recente produzione che giace impilata nella vostra dispensa – fisica o virtuale che sia – da poco, perché la muffa delle cantine in cui vive chi compone ed esegue musica si appiccica poi tra i solchi dei dischi venduti o nelle cartelle degli mp3 scaricati. Se ce l’abbiamo ancora nelle narici noi che con la musica non abbiamo combinato nulla è facile spiegare l’odore che si riversa dalle casse dello stereo quando l’ascoltiamo. Quindi rivalutiamo la puzza di chiuso mista a umidità e mista a sudore, perché è di questo che sa il rock. La musica ha poi il tono della comprensione, e vorrei che rifletteste su questa affermazione. La musica sa capire chi l’ascolta perché dice le parole che chi ascolta vuole sentirsi dire e, allo stesso tempo, sa arrivare a destinazione utilizzando tutti i sistemi invisibili che ti stuzzicano la pancia, il cuore, le ghiandole delle lacrime, la testa e il collo, le gambe e i muscoli della faccia. Un pezzo a caso trasmesso alla radio, a cui chiedi qualcosa, ti dimostra con la sua armonia come sia facile trovare quello che cercavi, un accordo che risolve in un altro ti consente di tirare un sospiro di sollievo, ed è in grado anche solo di distrarti dall’ansia del momento, questo perché probabilmente chi ha scritto quella canzone era nelle tue stesse condizioni, per di più immerso nella puzza di cantina umida. Amici musicisti, continuate quindi a darvi delle risposte quando suonate i vostri pezzi e togliete i deodoranti da ambiente nei posti in cui le componete. Questa è la chiave del successo.

d'altronde la musica è fatta a pezzi già di per sé

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Qualche settimana fa girava in rete la notizia della chiusura di MTV Italia. In realtà la faccenda è più complessa, o almeno io c’ho capito poco anche perché è una di quelle questioni che sugli articoli scritti in Internet alla terza riga già inizio a saltare capoversi e arrivo a fine pagina che ne so quanto prima, sempre che nel frattempo qualche link non mi abbia distratto inducendomi ad allontanarmi da lì. E se non ricordo male la notizia si è diffusa più o meno in concomitanza con la morte di David Bowie, come se alla scomparsa dell’imperatore della musica di tutti i tempi tutto l’impero si sgretolasse a partire da uno dei principali organi di informazione di regime.

Ho letto sui social e solite provocazioni in cui c’era chi esultava per la fine di un canale televisivo musicale la cui proposta è abbastanza di merda. Qualunque sia la vostra opinione, la fine di un anello della catena produttiva dell’industria musicale (sempre che poi chiuda oppure boh) è comunque da considerarsi una sconfitta della musica stessa. A me capitava spesso in momenti di zapping di soffermarmi invece su un altro canale in cui si vedevano spesso videoclip che era TRS Evergreen, una specie di MTV di una volta in versione Radio Zeta specializzato in musica anni 70/80/90, soprattutto hard rock. E ne parlo al passato perché anche sulla pagina Facebook di TRS Evergreen si annuncia la cessazione dei programmi a vantaggio di un fantomatico Canale 93 Motori.

D’altronde che cosa ce ne facciamo di una tv musicale ai tempi di Internet? Siamo ancora disposti a pazientare davanti alla tv nella speranza che trasmettano un video che ci piace, oppure con le nostre smart tv possiamo consumare tutta la musica che vogliamo in fretta e furia, oppure ancora passiamo il tempo davanti a MTV di oggi perché i nostri gusti sono perfettamente in linea con il turn-over dei successi commerciali di MTV? Non preoccupatevi, non sto per partire con uno dei soliti pippotti sulla tv di una volta e Videomusic e Claudio De Tommasi o Cingoli e la Maugeri. C’è stato un momento però in cui MTV Italia è stata davvero avanti ed è quando si era inventata YOS diventata poi FLUX quindi QOOB, la piattaforma multicanale in cui si contaminava davvero ogni genere e ogni impeto artistico. Questo prima che la musica si svalutasse del tutto, come dice questo articolo a cui prima o poi dedicherò uno special.

Resta il fatto che MTV come la intendiamo noi non esiste più da un pezzo. Al suo posto c’è un’emittente omonima ma che trasmette solo telefilm e programmi della subcultura statunitense, l’equivalente delle reti Mediaset italiane ma molto, molto peggio, con certe trovate che fanno accapponare la pelle. C’è un programma più o meno all’ora di cena che trasmette le risse che si trovano filmate e pubblicate su Youtube, per dire. Quindi non si tratta solo della fascia oraria in cui mostrare materiale di questo tipo, ma anche del contenuto in sé. Non dimentichiamo che MTV ha portato alla ribalta i soliti idioti e uno dei due idioti di quella coppia di idioti. Sono queste cose che poi mi fanno pensare che chi se ne frega se davvero chiude MTV Italia, ma poi mi dissocio da questa linea distruttiva. Oltre a essere una sconfitta della musica e una sconfitta della cultura in genere, dimostra che la nostra generazione ha perso se comunque ci siamo lasciati scappare con le nostre preferenze un canale televisivo sebbene discutibile ma comunque musicale per una copia da telespettatori deprivati usi a cose come Italia Uno.

abbiamo perso, ma questo l’avevamo già capito da altri segnali molto più evidenti

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Non stupisce quindi che il prodotto della musica e di conseguenza la musica in sé abbia toccato il fondo di un processo di svalutazione senza precedenti, come certo denaro corrente di alcuni posti poverissimi di cui ci vogliono pacchi e pacchi di mazzette per cambiare anche solo una moneta di quelle che in occidente usiamo per liberare e spingere il carrello della spesa. Ma la metafora più azzeccata, per questo processo, è la cosa in sé: guardiamo stipati nei nostri tera di memoria quanti pezzi conserviamo e qual è il loro valore effettivo se è così facile attingervi per ripagare una qualsiasi delle nostre emozioni. È sufficiente raccogliere virtualmente una manciata di questo equivalente delle perline colorate per renderci conto di quanto siamo poveri, oggi, da questo punto di vista. E non certo per la qualità di ogni singolo pezzo. Piuttosto è la quantità a disposizione a determinare questo regime di inflazione artistica che ormai si protrae nella nostra società da almeno una decina d’anni. Nessuno è in grado di indicarne l’elemento scatenante, credo che attribuire la colpa di questo fenomeno esclusivamente alla digitalizzazione sia riduttivo. O meglio: il canale che si è aperto ha consentito la tracimazione e la distribuzione di massa di questi beni virtuali, ma il pubblico non ha percepito davvero la reale ricchezza che l’accesso indistinto a questi beni poteva generare. Di fronte all’abbondanza i più si sono domandati quale poteva essere l’utilità di riempirsi l’esistenza di canzoni in grado di suscitare l’entusiasmo così soggettivamente, considerando la proliferazione di materia prima. Data la sovraesposizione alla musica oggi sono finiti i tempi dell’identificazione di gruppi sociali con i generi musicali. Non voglio dire che non esista più il fanatismo delle pop star, anzi esso è amplificato dalla tv e dai media ma indipendentemente dalla componente musicale, oggi assolutamente secondaria. Se prima band e cantanti riuscivano a costituire il motivo scatenante per intere generazioni, oggi sono state sostituite nell’immaginario pop da altre icone, e se fate una chiacchierata – rigorosamente via messaggistica istantanea – con qualche adolescente di oggi capirete che cosa vi sto dicendo. Quindi visti da qui, tutti noi per i quali il genere musicale preferito costituiva orgogliosamente un motivo di appartenenza, oggi in cui l’appartenenza non esiste più (o se esiste può far solo che tenerezza) a causa della parcellizzazione causata dai social network, facciamo abbastanza ridere, e considerando che già allora facevamo ridere i nostri fratelli più grandi per i quali invece l’elemento solidificante era la politica, insomma nell’insieme possiamo considerare la nostra generazione fatta di punk, di dark, di metallari eccetera un vero e proprio fallimento storico.

tutte le iniziative per la sesta “Giornata senza musica”

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Non è la prima volta in cui l’assessore alla cultura si presenta con vistose calzature da trekking in ambiente urbano, ormai la cittadinanza è abituata ad accettare questo vezzo di informalità e soprattutto costituisce materia di distrazione se, al momento di tenere il discorso, nessuno lo ha provvisto di un microfono da esterni e ci tocca fare silenzio anche se i rumori dell’ambiente non li può zittire nessuno. D’altronde oggi in cui si celebra la “Giornata senza musica” ogni sistema di diffusione audio è bene tenerlo al chiuso nei negozi che li noleggiano, per fugare qualsiasi tentazione.

Anch’io ho sperato fino all’ultimo che piovesse, così la festa poteva sembrare un’iniziativa qualsiasi guastata dal brutto tempo in cui è meglio lasciare casse e strumenti musicali al coperto. Invece no, non c’era il sole ma comunque nemmeno una goccia d’acqua e qualche multa perché qualcuno si è messo a canticchiare qualcosa si è vista. In un caso io mi sono astenuto a fatica dalla delazione. C’era un tizio che fischiettava il che, oltre a essere un comportamento vietato nella “Giornata senza musica”, è una pratica davvero desueta e di altri tempi. Fischiava una nota aria del secolo scorso, un retaggio dei recenti festeggiamenti dei cent’anni della Liberazione che gli dev’essere rimasto in testa dopo le manifestazioni di ieri. Non è stata però una bell’idea quella di inaugurare un nuovo monumento proprio nel giorno del silenzio, come i più lo hanno ribattezzato. Ci sarebbe stata bene la banda, il coro della scuola civica di musica, magari i bambini delle elementari con le loro app di audio editing.

Invece niente. L’assessore che sembra un montanaro parla senza che lo senta nessuno davanti a una parete su cui sono state applicate centinaia di facce di gesso sorridenti. È questa l’opera che un artista locale ha donato ai cittadini. Centinaia di riproduzioni di volti degli abitanti del paese – tra cui ci sono anch’io – ricavate da calchi realizzati sui visi sorridenti dei volontari che si sono prestati all’iniziativa. Carino no? Conclusa la parte dei discorsi ufficiali – anche se incomprensibili da dove sto seguendo l’inaugurazione – ci avviciniamo per cercarci come si fa al cimitero. Dove ti hanno messo?, ci viene da chiedere a chi abbiamo vicino. Ed eccomi lì, identico all’originale. Non avevo dubbi, con il naso che mi ritrovo sono facile da riprodurre, in qualunque modo, anche ad opera di uno scultore.

Mi avvio per rientrare a casa, a mia figlia che mi ha accompagnato non è piaciuto nulla di tutto ciò, lei è in quella fase adolescenziale in cui senza coetanei fa tutto schifo. Io penso che alla sua età ascoltavo Lio e mi scappa di canticchiare il ritornello di “Amoureux solitaires” senza accorgermi che il capo dei vigili è lì a due passi, mi sente e mi fulmina con lo sguardo. Mi viene il dubbio di essere stato ripreso per il testo, ma forse solo io collego il concetto di amore solitario alla masturbazione, o forse alla masturbazione collegavo Lio ai tempi, con la gonna di pelle al ginocchio. Comunque no, era sempre per la “Giornata senza musica” a cui so benissimo che non mi abituerò mai come quando avevo comprato la Alicia DeLonghi e per un paio di mesi buoni avevo continuato a mettere la caffettiera sul fornello, accorgendomi fortunatamente in tempo del guaio che stavo per combinare. E anche oggi mi va di culo, niente contravvenzione. Il capo dei vigili mi ha riconosciuto come la faccia di gesso venuta meglio e, per una volta, ci passa sopra.

a cosa pensi quando senti un pezzo come questo

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C’è un altro bel modo per fare sogni a occhi aperti ascoltando musica ed è quello di immaginarsi sul palco con il gruppo o il cantante in questione a eseguire questo o quel pezzo e non venite a dirmi che non l’avete mai fatto, perché dev’essere un qualcosa degno di uno studio psicanalitico tanto quanto il figurarsi il senso di colpa del mondo, annessi e connessi, al proprio capezzale o in coda dietro alla propria bara. Non c’è davvero nulla di male, sappiatelo, nessuno è ancora in grado di ficcare il naso nella vostra testa quindi sentitevi liberi di lasciarvi andare alle più trasgressive perversioni, come proporre un pezzo famoso di oggi in occasione di quel concertone che si era svolto nell’83 con tutti i gruppi del liceo. Salire sul palco e come in un celebre episodio di Quantum Leap lasciare tutti a bocca aperta suonando una canzone qualsiasi dei Tv On The Radio. Ascoltavo invece uno degli album più acclamati dell’anno testé finito, che l’omonimo dei Run the jewels, in cui ci sono basi che ai tempi d’oro della 4AD – Cocteau Twins, Wolfgang Press e compagnia bella – avrebbero potuto costituire un perfetto tappeto sonoro per un innovativo progetto dark rap. Pensate un po’. Già che ci sei, diranno i lettori più opportunisti, tanto vale tornare indietro nel tempo e anticipare certi successi mondiali degli U2 o dei REM. Converrete con me però che così si perde tutta la poesia, già che uno si fa dei film mentali tanto vale farseli fuori dai circuiti mainstream. E secondo me in questa fase di sublimazione dei desideri più reconditi ci sono passate anche le persone che non direste mai. Non vi dico le cose che ho fatto io, inventandomi i Subsonica quando qui in Italia a malapena c’erano i Decibel, e tutto per fare breccia nell’omologa della mia adolescenza della ragazzina dai capelli rossi di Charlie Brown. E più volte ho trovato mio papà talmente immerso in uno dei concerti d’organo di Bach che secondo me era completamente perso dietro lo strumento antico di qualche cattedrale barocca, intento a fare da apripista a centinaia di fedeli pronti a elevare la propria mente verso Dio.

tutto ciò è stupefacente

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Alcuni segnali della senilità si avvertono in evoluzioni o involuzioni, a seconda dei punti di vista, di certi criteri con cui si filtrano le cose che succedono o anche solo nelle opinioni che con il tempo mutano. Di conoscenti che con l’età sono diventati grillisti, addirittura filo-israeliani o metodici praticanti di quei passatempi che confinano l’intelligenza umana in un estremo isolamento, che è poi l’anticamera delle peggiori derive mentali della vecchiaia, ne abbiamo tutti. Mai avremmo detto, per esempio, che un giorno ci saremmo trovati nella mezza età a praticare sport come strategia compulsiva di redenzione dei peccati giovanili, come se rovinarsi di chilometri, di bracciate o di pedalate rendesse nulli automaticamente tutti gli eccessi naturali e artificiali con cui abbiamo tentato di distruggerci da giovani e consentisse di recuperare neuroni, cellule cerebrali, anticorpi, fegato e sciogliere tutta la carne in eccesso di cui anni di appetiti chimici hanno favorito la stratificazione. Addirittura ci troviamo a correre felici a perdifiato ascoltando compilation della stessa musica che un tempo utilizzavamo per abbandonarci agli oblii delle sostanze stupefacenti più in voga. Non stupitevi, quindi, se incontrate runner che combattono ipertensione e colesterolo al ritmo dei The Cure, per esempio. O se la voce di Peter Murphy contribuisce a scalare di corsa gradini a due a due con maggior enfasi. E ancora se gli album preferiti, come Jeopardy dei The Sound ascoltati dall’inizio alla fine, corrispondono con precisione alla metà esatta del tragitto da portare a termine quotidianamente, dopodiché si fa dietro-front e si rientra a casa percorrendo la stessa distanza con un disco nuovo, questa volta di Siouxsie and the Banshees. Che trip.

wordstar

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Le cose che uno scrive sul computer da sempre danno una sensazione particolare perché vedersele così stampate, anche se sono stronzate allo stato puro, fa una certa impressione. Che già era una bella sensazione con la macchina da scrivere, ma dio mio, ci sarà pure il fascino della Lettera 22 ma tutto quel baccano. E tac tac tac taratac e ding e il carrello e il bianchetto, di notte mica si poteva stare svegli a soddisfare le proprie esuberanze di personalità. Già, tutti noi che veniamo dai diari dei ricordi, dai manifestini dei concerti scritti con il pennarello o per imitare le copertine dei dischi punk con le le lettere tagliate dalle riviste come le missive anonime che chiedevano il riscatto delle persone vittima di sequestro di persona e poi fotocopiati e appesi nella vetrina del bar del centro e di straforo sulla bacheca de l’Unità.

Si usa il computer per scrivere perché vedere nero su bianco il nostro pensiero ci riempie di orgoglio. La parola sistemata per bene con lo spazio prima e dopo fa un po’ paura, è scritta e l’autore ne è responsabile. Se poi è pubblicata si è anche passibili di querele, guai, ritorsioni, sanzioni, minacce. Le parole hanno un peso, quelle scritte nell’Internet diventano fossili e non se ne vanno più. E oggi, anzi già da tempo, non è solo il nero su bianco che ho scritto sopra, perché ci sono tutti i colori, i formati, le clip art, inserisci una foto, fatti fare l’impaginazione dall’amico che sa usare Illustrator, l’editoria fai da te e i posti dove puoi mettere in vendita un e-book. Ma per esercitarsi come faccio io, figuriamoci poi con questi template tutti così eccitanti e gratuiti, che a uno viene voglia di provarli tutti come i vestiti delle boutique per leggere le proprie parole tutte imbellettate. Ed è un atto di autocompiacimento fino all’osso perché nemmeno nei libri e così. A nessun editore verrebbe mai in mente di stampare un romanzo con questo sistema dei titoli, delle categorie e tutto il resto. I link degli amici qui a fianco.

Quindi quello del self publishing è ancora un passo oltre e non era di questo che volevo parlare. Mia figlia chiama il doppietto quel modo di scrivere le parole con le lettere contornate, non so se avete capito ma facciamo finta di sì. Quello stile di grafia che piace a tutti i bambini. Bene, io ne andavo matto e riempivo quaderni così. Al di là del contenuto e del significato, che in quello stadio della vita è irrilevante, c’era il fascino estetico della parola in tutto il suo volume bidimensionale. Poi, quando che cosa scrivere ha acquisito sempre più importanza come è normale che sia nella vita di ognuno, il corsivo per motivi di comodità ha preso il sopravvento sul resto. Ma non ho mai amato particolarmente la mia grafia, scrivevo tondo a scuola fino a quando avevo letto non so dove che scrivere inclinato in un certo modo denotava acume intellettuale e allora vai di temi tutti storti, che a rileggerli facevo fatica pure io.

All’università si passa di livello, perché come dice l’indovinello veronese la penna è l’aratro, lo strumento di lavoro che serve a scrivere appunti, lo stile diventa approssimativo tendente allo stenografico tanto ci devo capire io poi quando preparo gli esami. E osservavo con mestizia quei fiori d’inchiostro sfiorire, le parole marcate e sottolineate solo per essere comprese al più presto e poi lasciate evaporare al proprio destino. Tanto più che nel frattempo la videoscrittura era dietro l’angolo. Anzi, oltre le porte degli uffici, sulle scrivanie di segretari e contabili, ma non ancora nelle case.

Così, quel bel giorno in cui abbiamo conquistato una periferica di input alla completa nostra  mercé ha generato uno stato di onnipotenza, il testo che si componeva riga per riga, il conflitto interiore se badare alla forma con il font, le dimensioni, il giustificato, il tracking, l’interlinea, oppure concentrarsi sul contenuto. Il significato. La trama. La punteggiatura. L’ortografia. So solo che, quando ho avuto due soldi da parte per poter portare a termine il mio primo investimento professionale, ho dovuto scegliere tra un 386 e degli strumenti musicali. Un computer o un paio di tastiere per suonare e guadagnarmi da vivere. Di sera sognavo a occhi aperti i fogli bianchi da salvare con i nomi dei capitoli, ma invece poi la mattina guardavo le cose più da vicino. I preventivi erano praticamente identici, i consuntivi sarebbero stati impari. Sono salito sulla macchina e sono andato al solito posto dove tutti quelli come me andavano, e sono tornato indietro con due ferri del mestiere. Ben altri tasti da schiacciare, alcuni bianchi e alcuni neri, ma per il momento poteva andare bene così.