mio cugino è morto veramente una volta ma poi non è riuscito più a svegliarsi

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Mio cugino è morto veramente una volta ma poi non è riuscito più a svegliarsi ed è per questo che quando si è presentato per avvisarmi che questo genere di dicerie hanno un fondamento di verità non si capiva bene mentre parlava, non so se vi è capitato mai di ascoltare qualcuno che dice cose nel sonno. Mio cugino è morto veramente una volta e quando lo osservo nell’unica foto sua disponibile in formato digitale – una vecchia istantanea acquisita con lo scanner – mi fa sorridere perché è un primo piano e ha la testa piccola e una felpa bianca di qualche taglia più grande. Si vede solo il cappuccio raccolto sulle spalle intorno al collo e, visto così, sembra un astronauta con la tuta senza casco, per questo penso che lui in realtà sia andato nello spazio anziché chissà dove. La vita e la morte sono entrambe storie da fantascienza, a pensarci bene. Ci sono anche un sacco di foto in cui le persone vengono male e il caso di mio cugino astronauta non è certo l’unico. Mio cugino è morto veramente una volta ed era molto tempo prima dell’avvento di Internet ma anche delle macchine fotografiche digitali, quindi lui e il suo ricordo rimarranno per sempre nella dimensione al di qua di Windows 10. Non c’è traccia di lui da nessuna parte se non in qualche ricordo trascritto da me, proprio come questo. Oggi non possiamo sopportare un genere di oblio così crudele e secondo me faremo sempre più fatica nel tenere vivi i particolari del nostro passato analogico. Oggi quando succede una tragedia le foto di Facebook delle vittime finiscono su tutti i giornali e i loro profili restano attivi come mausolei digitali, monumenti più duraturi del bronzo almeno finché non si esaurisce la corrente. Amici e parenti postano frasi di cordoglio e jpeg a tema, soprattutto nelle ricorrenze particolari fino a quando qualcuno si decide a far qualcosa per spegnerlo. Pensate se le loro facce fossero legate a qualche campagna di digital marketing. Avete presente quando qualcuno in famiglia fa una ricerca per acquistare qualcosa e per tutto il resto della vostra vita le pagine in cui navigate restano tempestate dell’oggetto della ricerca? Per esempio, quando mia moglie vuole cambiare la rubinetteria del bagno, dopo su tutti i siti in cui navigo compaiono rubinetti come se piovesse. Ecco, se la foto di mio cugino che è morto veramente una volta ma poi non è riuscito più a svegliarsi, quella in cui a me sembra un astronauta, si trovasse in rete e provassi a cercarne le tracce, vedermelo comparire ovunque sarebbe ai limiti dell’ossessione. Ma questo non cambia la sostanza: mio cugino è morto veramente una volta ma poi non è riuscito più a svegliarsi, quindi andateci piano con questo genere di esperimenti perché non è provato che riescano in ogni occasione e nemmeno ci sono dati disponibili a dimostrare il margine di errore.

cattive notizie

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Il buon Pierpaolo conosce a menadito cose come “Il libro tibetano dei morti” ma secondo me la sua tesi secondo cui la morte ha la voce di un parente di secondo o terzo grado trapassato se l’è inventata di sana pianta e, detto tra noi, non ho nessuna voglia di controllare, ho un sacco di letture più interessanti in scaletta da qui alla fine dei miei giorni. Nel suo caso si tratta comunque del cugino Nasta, diminutivo di Anastasio e in realtà cugino di suo padre quindi nei parametri di quella strampalata regola che non sta né in cielo né in terra. Nasta era cardiopatico perché abbondantemente sovrappeso e non ricordo se al secondo o terzo infarto, nemmeno troppo vecchio, ha lasciato moglie, figlia, nipotini e villa con tavernetta con forno a legna da cui estraeva certe teglie di farinata che Pierpaolo se ne ricorda ancora. Nasta prima della pensione gestiva un ristorante rivierasco specializzato in pesce dove la famiglia di Pierpaolo non andava molto volentieri, non tanto perché Nasta non faceva prezzi di favore ai parenti ma perché siccome era sempre pieno li faceva accomodare in tavolini di risulta dove un cliente normale non si sarebbe mai seduto. Pierpaolo così stava dicendo a qualcuno che basta, era stufo di ferie faticose e che l’anno prossimo sarebbe andato in un villaggio ma poi, in macchina, aveva sentito Nasta chiamarlo per nome con il suo timbro di voce così particolare, come quando portava a tavola le teglie di farinata e chiedeva di versagli un bicchiere di lumassina. Pierpaolo ha pensato subito a una vendetta. Una volta era in casa da solo con la sua nuova fidanzata quando Nasta e sua moglie erano passati per fare un saluto, così Pierpaolo aveva fatto un gesto alla sua tipa come a dire che palle questi che ci hanno interrotto mentre facevamo un po’ di petting. Aveva fatto il gesto di nascosto ma poi si era accorto che Nasta lo stava guardando. Qualcuno però gli dica che i parenti di secondo o terzo grado non se la prendono se qualcuno non ha tanto piacere di accoglierli in casa e sono pure convinto che nessuno gli assegna il compito di essere messaggeri di brutte notizie. Certe cose le dicono gli sconosciuti, altrimenti la morte sarebbe meno difficile da accettare.

sfida accettata

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Mia madre mi dice che il ragazzo nella foto mi somiglia, o per lo meno ricorda me trentacinque fa con il quadruplo dei capelli e una pettinatura fine anni settanta, e che tutte le volte in cui faceva con mia zia il giro settimanale al cimitero la impressionava pensare che ci potessi essere io là sotto. Ma a quei tempi ero vivo quanto ora, aggiungerei fortunatamente e qualche gesto di scongiuro che voi non potete vedere perché comunque mi immaginate mentre scrivo con due mani sulla tastiera.

E probabilmente si tratta dello stesso periodo in cui avevo indovinato il tragitto che seguiva Maria per raggiungere il capolinea dell’autobus all’uscita da scuola. La stessa Maria che poi ho scoperto che in realtà non era proprio quello il suo nome ma una specie di versione in ebraico che un ignorante come me potrebbe anche scambiare quasi per un anagramma. Comunque io la precedevo intelligentemente per qualche scorciatoia per scoprire se lei, scorgendomi avanti, era interessata a raggiungermi e a percorrere l’ultima parte della strada insieme. Una volta poi è successo, ho sentito qualcuno correre e poi mi è arrivata una pacca sulla schiena con la forza di chi non riesce a tenerla sotto controllo, soprattutto in quella fase della vita in cui le attenzioni alle persone che ci interessano le rivolgiamo anche con modi piuttosto grossolani, perché non abbiamo ancora ben chiaro che cosa significhino l’amore o il sesso. E se non ricordo male quella volta è stata l’unica, lei aveva una giacca gialla e io avevo allungato la strada per tornare a casa con una distanza irragionevole.

Maria non la incontro da quell’anno lì e sono certo che quella sia stata anche l’unica occasione in cui ci siamo trovati così vicini, quindi se anche lei ora vedesse quella foto sulla lapide che impressiona ancora oggi mia mamma forse avrebbe qualche reminiscenza, ma lo dico solo per qualche grado in più di sdolcinatezza perché so benissimo che Maria già aveva poco slancio nei miei confronti allora, figuriamoci nella ricorrenza del giorno dei morti del 2014, il primo anno in cui sono a trovare mio papà dall’altra parte della barricata, avete capito cosa intendo.

Mi soffermo solo ancora su due aspetti degni di nota di questa visita al cimitero. Poco più avanti dalla tomba di mio papà c’è un suo zio morto negli anni 30 che è identico a lui, e anche di questa foto mia mamma commenta la familiarità. D’altronde in quel borgo dell’appennino c’è pieno di gente che ha il mio stesso cognome, veniamo tutti da lì. Un fattore che diverte tantissimo mia figlia,  il cognome è anche il suo e nel posto in cui viviamo costituisce invece una rarità. Si mette a passare in rassegna tutto lo schieramento di defunti provenienti dallo stesso ceppo e la cosa cambia tutta la prospettiva con cui approccio quella visita.

Anche la foto che mia madre ha scelto come ricordo ultimo di mio papà appartiene a un passato che fatico a riconoscere, figuratevi mia figlia che l’ha visto solo negli ultimi undici anni. Probabilmente anche per lui, come per lo zio morto negli anni trenta o per il mio sosia fine anni 70 è stata identificata una fisionomia ideale da attribuire all’anima con lo scopo di riconoscimento per quella che viene definita la vita eterna. Una procedura che poi non è così strana perché funziona anche per i vivi, e se avete una certa età come me non potrete negarlo. Se mi chiedete di mostrarvi l’aspetto di tizio o caio, persone che conosco dai tempi di Maria e della sua giacca gialla, o che magari ho perso per strada perché abitiamo a 300 km di distanza quindi è impossibile frequentarsi con assiduità, se mi chiedete di descriverveli vi disegnerei un ritratto di quello che è il loro momento di massima forma, mica trenta chili in più o senza denti o fiaccati da qualche grave malanno o zoppi a causa di un incidente di lavoro. E lo farei perché questa pratica delle figurine con il ritratto che poi valgono per sempre è una banale e ovvia tecnica di conservazione del sé, egoismo allo stato puro, una feroce foto di gruppo dove ci si tiene tutti stretti quel po’ di vita con cui si vorrebbe restare per sempre.

finale senza sorpresa

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La storia individuale non è materia d’insegnamento, nemmeno comparata a quelle altrui come certe letterature all’università. E sarebbe un peccato, se i destinatari di tali lezioni non fossero già impegnati a frequentare e prendere appunti sulle proprie vite e mancasse quindi lo spazio minimo indispensabile per applicarsi almeno un po’. A volte ci si sorprende per quanto abbiamo già vissuto e non solo a un colpo d’occhio voltandoci un secondo indietro, ma anche quando ci soffermiamo su certi piccoli dettagli che ritroviamo per caso come biglietti da visita malconci nelle pieghe più remote della nostra esistenza che inizia a essere un po’ stropicciata perché talmente grande che quasi nel suo contenitore non ci sta più e bisogna trovare qualche espediente per chiudere la cerniera, come nelle valigie delle vacanze. Dev’essere per questa enciclopedia tutt’altro che tascabile che ci portiamo appresso che i figli ci vedono così poco interessanti, figuriamo poi oggi, ai tempi del sapere condiviso sulla rete. Una metafora che calza a pennello, questa. Superare le complessità cercando nell’Internet consente di accedere più velocemente a risultati rispetto a chiedere a quei so-tutto-io dei propri genitori. E malgrado i tentativi di mostrarci autorevoli portatori sani di esperienza difficilmente riusciamo a vincere la consapevole diffidenza di cui ci si bea stando dall’altra parte della barricata adolescenziale. Così mi viene da pensare allo spreco di disporre di questo bagaglio di piccole cose quotidiane di cui non frega un cazzo ai tuoi ragazzi perché tanto hanno o stanno per avere la versione aggiornata. Giustamente, per carità. Per la prima volta nell’evoluzione del genere umano ci sentiamo chissà perché protagonisti insostituibili di un capitolo importante della storia universale. Sarà che tutti insieme abbiamo bruciato le tappe portando lo sviluppo avanti di un secolo in soli vent’anni – almeno così dicono – o forse, in questa fase occidentale di pace relativa in libertà assoluta, ci è stato concesso troppo tempo per auto-riferirci e ora abbiamo scoperto che, di noi, non se ne può fare a meno. Ed è più questo approccio a non mollare il nostro posto nel mondo a togliere spazio ai più piccoli e ai più giovani. Quello di non invecchiare come dovremmo, in realtà, costituirà un ostacolo per la nostra specie, o almeno ci complicherà la cose tra qualche decennio. Sono davvero curioso di scoprire come ci racconteremo tutto questo insuperabile equivoco, a giochi fatti.

quella che fa una sintesi meno approssimativa dell’anima

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La scelta si è ridotta alle uniche due recenti accettabili, risultato di una cernita laboriosa eseguita non senza la suspense che alla fine non ne riuscissimo a trovare nemmeno una buona. Tolte quelle in cui era troppo giovane, quelle in cui non faceva smorfie, quelle ritratto con abbigliamento da lavoro in campagna o da casa come lo intendeva lui, pigiama con pullover messo rigorosamente al contrario, le fototessere, ne sono rimaste un paio. Un primo piano con il viso appoggiato al dorso della mano che rivelava il sonno imminente della domenica pomeriggio e una in cui papà finalmente guarda in camera, con i capelli tutti per aria ma tanto quella era una costante, però con un bel colorito. Tutte le altre avevano il loro perché ma fuori contesto, come quella con il cappello di paglia che lo ritrae seduto sulla sedia in legno a innaffiare i fagiolini o quell’altra al mio matrimonio, ripresa mentre rovescia una confezione di riso intera in testa di mia moglie. La foto grazie alla quale verrai ricordato per l’eternità mica è facile da scegliere a priori, perché finché si è in quella parte della vita in cui diamo per certo che la cosa non ci riguarda le foto le facciamo per l’immediato. Figuriamoci oggi che si fanno persino con i telefoni e le grandi case produttrici stanno dismettendo le compatte perché piano piano non le compra più nessuno. Volete dire che presto troveremo i selfie stampati e usati sulle lapidi? Perché no. Ma sui mobili del soggiorno degli altri, vi invito a farci caso, può capitare di trovare foto di parenti molto anziani tirati a lucido con il vestito della festa che guardano felici come bambini l’obiettivo, senza immaginare che quella sarà una delle ultime immagini con cui rimarranno nella memoria altrui. Che poi sia la stessa scelta per l’eterno riposo non so, di certo ci danno l’idea di voler arrivare all’appuntamento con la a maiuscola con la migliore presenza possibile. Anche se la morte a volte fa scempio della cura con cui ci siamo sforzati di avere un aspetto dignitoso, alla fine grazie alle mani di esperti ce la caviamo sempre. Per il momento li vedi lì pronti e frementi per farsi prendere in prestito un istante di vita dietro lenti spesse, le mani in grembo, pantofole da casa, ancora fiduciosi come non mai nel domani e nell’oggi, persino con quel mezzo sorriso di chi ne sa più di te su come, da un certo momento in poi, vanno le cose.

questo fino a quando qualcuno ti appare in sogno e ti detta una combinazione di numeri vincenti

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L’equivoco di fondo è invece quello per cui uno muore, un tuo parente stretto e magari con una certa autorità e controllo sulla tua vita come un genitore, e di colpo viene messo al corrente di tutto quello che hai fatto e che farai perché va a mischiarsi grazie a non si sa bene cosa con il tutto. Dovresti accorgertene nel momento in cui succede, Dimensioni che noi umani non possiamo nemmeno immaginare, strati di conoscenza a livello gassoso – non se ne spiegherebbe l’invisibilità – le cui molecole a noi ignote si uniscono a quelle della nostra chiamiamola anima in cui la più perfetta delle nanotecnologie ha concentrato miliardi di anni e di chilometri di storia in cui, per un padre per esempio, è facile individuare istanti con te protagonista che ti fai una canna all’uscita dell’orale della maturità nell’86 o certe perversioni casalinghe di auto-erotismo che ti hanno permesso non pochi compiacimenti in periodi esistenziali di – diciamo così – flessioni del proprio fascino sull’altrui interessamento. Ecco quindi svelato il terzo segreto della bidella complice di una truffa ai danni della prof di matematica e i pensieri perfidi quando è stato il momento di voltare le spalle al volere paterno la prima volta o il tasso alcolico in occasione dell’incidente con l’unica macchina di famiglia e i conseguenti nove milioni di lire di danni. Ora si tratta di cose che non dovreste sapere perché voi non siete ancora morti, quindi facciamo finta che abbia elencato peccati presi a caso e con molta libertà dalle vite altrui.

Invece non è così, anzi il contrario o quasi. Ovvero che è proprio in occasione di lutti come questo che uno viene a sapere di cose accadute a parenti vari perché nei momenti di mollezza da confessione reciproca a scopo consolatorio tra zii o cugini, di quel livello che si incontra solo in occasioni come queste, che saltano fuori certi altarini mica da ridere. Quello che dopo averlo tutto sommato stimato per tutta una vita e rispettato per essere passato a miglior vita in modo indecoroso vieni a conoscenza della sua militanza nella RSI, che finita la guerra ha setacciato certe montagne dietro a casa tua per dare degna sepoltura a nazifascisti giustiziati dalla resistenza, che poi è diventato esponente locale di punta dell’MSI prima di cambiare tutto e abbonarsi a una rivista di stampo anarchico. Quell’altra – e che brutta fine che ha fatto – ha invece abortito a quindici anni in tempi in cui non si poteva certo raccontare in giro. Ma anche un caso di alcolismo da terza età causato da solitudine improvvisa e i rischi del bicchiere in eccesso dopo certi tipi di farmaci.

In generale però mi sento di confermare che magari uno non ci pensa che gli altri abbiano bisogno di affetto e attenzioni anche in condizioni normali, quando non è il compleanno o quando gli succede qualcosa di tragico, come è successo a me. Ecco perché mi sento di lasciarvi rilanciando con quanto sia straordinario vedere le persone ogni giorno che stanno bene e che si beano del quotidiano e sarebbero da riempire d’affetto e di abbracci o di like su Facebook anche solo perché, anche oggi, hanno salutato i figli alla scuola materna o hanno mangiato prosciutto e melone a pranzo, oppure sono in attesa al banco gastronomia dell’Esselunga con i bambini che invece mettono fretta perché hanno in testa solo le figurine. Lasciate perdere il soprannaturale, ve lo dice uno che ha appena assistito a un rosario recitato da un diacono fiaccato dal Parkinson e con una pesante inflessione dialettale ligure. Se incontrate amici o parenti mentre svolgono funzioni apparentemente banali ma concrete e misurabili, di quelle che alla fine reggono l’intero sistema delle convenzioni sociali, date loro l’importanza che meritano, metteteli al centro delle loro vite come se quel giorno, ogni giorno, fosse il loro giorno.

quando arrivi non chiamarmi, mi faccio vivo io

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E così da oggi rimanete solo in due. La più grande, che ne ha fatti novanta, e la più piccola, che ne ha settantacinque. Le due sorelle e il fratello che c’erano in mezzo a uno a uno vi hanno lasciate lì ai lati come quando ai bambini cadono i denti da latte e ne restano due distanti a presidiare la parte di gengiva interna a loro. Ma si tratta di un vuoto apparente perché comunque siete abituate a tendervi la mano per saltare l’una dalla parte dell’altra a seconda della necessità del momento, come si aiuta qualcuno quando deve scavalcare una pozzanghera per non inzaccherarsi le scarpe della festa. Da una parte, quella della primogenita, c’è lo stupore persino di dire in giro l’età che si è raggiunta e in quello stato di salute, la pelle di una bambina, la testa di una adulta, la sobrietà di una mamma, la premura di una nonna. Dalla parte della più piccola dei cinque figli non è così, la vecchiaia ha portato con sé l’incancrenirsi di problemi mai risolti e tutta una serie di angosce che nessuno, a quell’età, si meriterebbe. Ma, come si dice, finché c’è la salute. E da entrambi i lati del varco che proprio questa mattina si è aperto di una porzione in più, forse il sentirsi mancare la presenza delle posizioni a fianco delle vostre, tutte le pedine che cadono lasciando la vita sempre più rada di relazioni strette, fa passare gli eccessi degli stati d’animo con maggior facilità. Il troppo caldo di quello che è stato nascere e vivere e il troppo freddo di quello che sarà il vivere e poi non diciamo nemmeno il nome quella cosa così ingiusta, che ti prende anche quando non hai risolto una discussione la mattina, magari hai dimenticato una luce accesa in casa, e la sera nessuno ti rivede più. O tutta quella serie di derive preparatorie che ti lasciano poi gli ultimi giorni addormentato in attesa di svegliarti da un’altra parte che non è la nostra, quella di chi ti parla sapendo che non ci senti più. E niente, solo un saluto a tutte le famiglie che erano numerose di qua e chissà, stanno aspettando altrove di riunirsi e chissà come, se tutti bambini, tutti adulti o come come vorremmo fosse per sempre la nostra famiglia o tutti come nell’ultimo istante vissuto – speriamo di no – o tutti soffi d’aria al profumo di pelle abbronzata dopo una giornata di sole.

morte a Porta Venezia

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Una donna, cinquantanni circa, è sdraiata per terra con le braccia aperte sul pavimento, la testa appoggiata alla borsetta, immobile e composta. Questo, unito alle palpebre calate e alla concitazione con cui un astante presta le operazioni di primo soccorso confrontandosi al telefono con una centrale operativa, probabilmente la struttura alla quale ha richiesto un intervento tempestivo, lascia supporre il peggio. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 3/03/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

prossima stazione

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Ero immerso nella lettura del Corriere quando è comparso dal nulla nella sua divisa bianca per chiedermi se scendevo alla prossima. Il Corriere mi arriva tutti i giorni a casa, sapete, sono abbonato, e da quando sono in pensione e soprattutto da quando la vecchiaia mi ha imposto tutti i limiti di mobilità, di pensiero e di curiosità stessa verso quello che dista più di un un grado di separazione dai legami di famiglia dedico alla lettura del quotidiano la maggior parte della giornata. Il resto non mi interessa, mia moglie che è più vitale di me è libera di fare quello che sente e continua a riprendermi sulla mia arrendevolezza ma davvero, sto bene qui così, a bearmi delle visite dei miei figli e dei miei nipoti ogni tanto, e a leggere quello che succede nel mondo. E quando mi si è avvicinato mi sono sorpreso come tutte le volte in cui qualcosa irrompe d’improvviso e mi costringe a sforzarmi su quello che ho intorno.

Ma ho capito subito, anzi proprio subito no. Come scusi?, gli ho detto. Scende alla prossima, vero? ha ribadito. Oh veramente no, gli ho risposto, ho ancora tante pagine da leggere, poi mia moglie è fuori a fare la spesa, non l’ho avvisata e potrebbe allarmarsi. E poi dopo pranzo dobbiamo accompagnare mio nipote a calcio quando esce da scuola, mia figlia lavora fuori e… Ecco, a quel punto ho capito perché ha estratto un tablet di ultima generazione, il che non mi ha sorpreso, si vede che Steve Jobs ha iniziato a lavorare di là. Ha estratto quel tablet e ha dato qualche ditata sullo schermo, mi ha guardato, ha sorriso, e mi ha confermato che non c’era nessun errore, era scritto lì, dovevo proprio scendere. Ah, non posso nemmeno avvertire mia moglie?, gli ho chiesto. Una telefonata? Posso almeno cambiarmi, sono vestito da casa, ho il tempo per indossare qualcosa di più elegante? Ma dentro di me sapevo già la risposta.

Ha messo via il tablet e ha fatto un cenno con le braccia aperte, un gesto inequivocabile. Mi spiace, purtroppo non è possibile, mi ha detto, sa come succede in questi frangenti. Certo, gli ho risposto. Peccato non salutare mio nipote, però, domenica aveva il primo incontro e ci teneva tanto che lo andassi a vedere. Guardi che potrà seguire comunque il suo esordio, ha aggiunto, anche se lui non la vedrà. Già, ho pensato, e gli ho anche detto che era carino da parte sua tranquillizzarmi, anche se dentro di me sapevo che non sarebbe stato possibile. Così mi sono alzato dalla poltrona, lui mi ha messo la mano sulla spalla e tutto si è fermato. Eccoci. Dopo di lei, prego.

vita da star

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Ci siede intorno a un tavolo, si occupano divani e sedie, e poi ci si guarda negli occhi mentre ognuno si guarda dentro e cerca di immaginarsi quando sarà il proprio turno. Il rumore della trivella della riflessione si attenua solo quando uno di noi fa una domanda, quell’altro risponde. Si sdrammatizza, scappa il sorriso, la battuta. Poi l’ansia riparte e va più a fondo, oltre al dolore ci saranno tutti gli aspetti tecnici, nessuno è esperto, per fortuna, solo chi ha avuto un lutto di un parente stretto da poco sa dirti cosa ci vuole e cosa è bene evitare. Viene fuori addirittura che ci sono quelli che ti fanno tutto, non devi pensare a nulla, la mattina dopo hai già i manifesti per le vie, ti vestono la salma, ti organizzano le esequie. E domani tutti ad accompagnare un pezzo della storia di qualcun altro che va ad aggiungere anni a un film lungo più di quanto riusciamo a immaginare, alcune scene ancora impresse nella memoria di qualcuno, altre perse per sempre quando anche l’ultimo spettatore sopravvissuto è passato dietro le quinte. Così ti viene voglia di chiederlo a quelli che incontri, che poi è una domanda che oramai tutti collegano a una celebre gag di un comico napoletano, anche lui già nel cast di quell’altro lungometraggio. Lo sai, vero, che anche tu…? Ti viene da chiedere. E lo sai che anche questa tizia che è seduta qui a fianco e legge Vanity Fair, anche lei…? Lo sai, eh, che tutti, proprio tutti…? Ma poi esci, cammini, ti siedi tra sconosciuti e li guardi bene e in molti non vedi alcun segno di tutto ciò, oddio magari a quello che ha Libero in mano glielo augureresti, ma poi pensi chissenefrega, diamine, se si continua a produrre nuove serie, tutte di successo, a ingaggiare sempre nuovi protagonisti e nuove comparse, un motivo ci sarà.