give synth a chance

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Il Moog e il suo suono che ha reso celebre l’impiego dei synth monofonici nel rock, che è quello del tema di “Impressioni di settembre” o di “È festa” della PFM, per intenderci, è un fenomeno che ha avuto alti e bassi di fedeltà sonora ed è stato soggetto alle mode del momento come altre usanze legate all’esecuzione musicale. Il basso in slap, la batteria Simmons, il falsetto maschile, la dodici corde. Ma la storia di quel timbro alla Moog, che chiamerò così per semplificazione considerando che, con le dovute distinzioni, può essere riprodotto indipendentemente dalla marca della tastiera, è forse una delle più tristi dell’oscurantismo estetico in campo artistico, pari quanto alla larghezza dei pantaloni sulla caviglia che ai tempi in cui comunque acquistarne un paio secondo la moda era troppo più dispendioso che far intervenire una zia o un mamma o una nonna sarta, e si correva di volta in volta a richiedere l’apporto manuale a seconda di quanto il codice dell’abbigliamento, per non essere a rischio emarginazione sociale, imponeva, implorando di non tagliare stoffa ché non si sa mai.

Così per il timbro alla Moog. Prima tutti lo volevano perché c’era il rock progressivo, poi basta suoni giurassici che riportano ai dinosauri della musica perché nel post punk guai a usarlo, poi no aspetta c’è il revival 70 corri subito a prendere il Moog in cantina, poi dai che Jamiroquai lo usa a manetta, cavolo l’ho appena venduto, che importa ricompralo senza badare a quanto costa ma tra il pubblico c’è sempre qualcuno che non capisce che il trend è quello lì e ti accusa di suonare i Genesis fuori contesto, poi basta acid jazz che ha rotto il cazzo ma non mettere via il synth perché i Prodigy addirittura si chiamano come un modello di synth e ma come fai a girare con uno strumento così delicato che tanto ci sono i virtual synth e allora aspetta che mi compro un Mac portatile così posso fare tutti i suoni che voglio e ora di nuovo basta così, grazie, il puoi riportare il Moog o quello con cui lo suoni in cantina che in questo momento per fare le cose che si sentono in generi zarri come il dubstep ci vuole ben altra potenza. Ecco, se io fossi un Moog con tutti questi tira e molla mi offenderei e farei uno sciopero dei circuiti. Basta, ora fatevi i suoni giurassici da dinosauri del rock con la bocca, per non dire di peggio.

vorrei ma non posso

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Il mio era un Moog Prodigy, lo vedete nelle foto qui sotto, e io lo trovavo davvero un synth eccezionale malgrado si trattasse di uno strumento monofonico (mettere strumenti monofonici in mano a un tastierista è come dare un pallone sgonfio a Pelè, la maggior parte di noi proprio non ha la mentalità monodica) e con nemmeno tre ottave di estensione. E lo avevo acquistato solo perché l’avevo trovato usato in un negozietto di provincia in un momento in cui i tastieristi non se li flava nessuno e quindi i synth analogici non dico che te li tiravano dietro ma quasi. In più il Prodigy già di per sé è il modello entry-level, da qui il titolo di questo post perché i Moog di nuova generazione hanno prezzi inaccessibili e quindi va bene celebrare il settantottesimo anniversario di Robert Moog anche con un Doodle, però sappiate che è una roba da ricchi. Il mio Prodigy, comunque, l’ho sfruttato ampiamente sia durante il periodo dell’acid jazz che cavalcando il ritorno del post punk, fino a quando l’ho lasciato in una sala prove ricavata in uno scantinato e potete immaginare l’umidità come me l’ha ridotto. Che già, usandolo dal vivo, ogni volta l’accordatura era una scommessa e dipendeva dalle condizioni del tempo. E così come tutti, stufo di ronzii e di disturbi in amplificazione, l’ho venduto in pieno boom del ritorno al vintage. Ho fatto però un vero affare, devo ammetterlo.