windows 2020

Standard

A volte l’essere apocalittici non paga e gli sta bene a tutti i complottari del mondo che di riffa e di raffa le cose stanno andando avanti. Al buco dell’ozono alla fine qualcuno ci ha messo una toppa, i maya non ci hanno preso per niente, i vaticini sulle catastrofi probabilmente si riferiscono a qualche altro pianeta, contro il global warming basta vestirsi a cipolla e al massimo se Trenord esagera con l’aria condizionata ti metti una pashmina che usano tanto e ci fai pure la figura di quello trendy. Questo per dire che anche quando cercavamo le prime foto porno su Altavista scroccando la connessione a 56 kbit/s a qualche ente pubblico e pensavamo che il genere umano non sarebbe sopravvissuto alla digitalizzazione di massa, oggi un po’ come quando nel 1999 ci siamo resi conto che la fantascienza del comandante Koenig e della dottoressa Russell non si sarebbe avverata in tempo possiamo vantare vent’anni di Internet a cui siamo passati indenni. Certo, siamo meno propensi alla socialità di una volta e un po’ più inclini alla sedentarietà da pc, conosciamo pratiche prima mai sentite a partire dallo bukkake per arrivare ai poke e al community management, ma siamo vivi e vegeti e pienamente integrati nel duemila e rotti. Ma vi sarete accorti anche voi che avere già vent’anni di ricordi digitali salvati e tramandati lungo i vari tipi di supporti nel tempo, dai floppy agli Zip e al Jaz passando per cd e dvd per arrivare agli hard disk esterni, alle chiavette usb e alle micro sd, costituisce già un bel patrimonio di fonti da tramandare ai nostri figli e nipoti. Passare in rassegna file con data di creazione nel secolo scorso è una pratica che si svolge con la tenerezza con cui si organizzano le foto dei nostri genitori quando erano giovani. Ma la velocità con cui gli attuali microprocessori al fulmicotone elaborano quelle poche manciate di bit non rende giustizia tantomeno dignità a dati e informazioni così retro, e la latenza meno che irrisoria con cui un clic avvia un qualcosa è una più che appropriata metafora del modo in cui secondi ore giorni mesi e poi anni si sono presi gioco di noi anche con i dispositivi in stand by.

non me la raccontate giusta

Standard

Inutilmente affaticati, d’altronde nessuno si sognerebbe mai di ammettere che il lavoro può essere annoverato tra i sistemi dell’annullamento individuale alla pari dell’alcol, del colesterolo e delle droghe pesanti, troviamo modalità light per illuderci dell’esistenza di realtà parallele di trasgressione, proprio oggi in cui qualunque novità esercitata compulsivamente alla lunga rompe i maroni e quindi uno stimolo verso un’evasione definitiva dev’essere proprio una roba che ci lascia senza parole. Abbiamo visto tutto, no? La frequentazione estrema con i sodali nei social network, l’accessibilità interdisciplinare dei contenuti in rete e persino la pornografia gratis anche all’ora di pranzo, per dire. Credo sia per questo che comunque ci viene voglia di raccontare i sogni, anche se è un po’ la morte dello storytelling. Una dimensione in cui tutto è possibile e ci condiziona a tal punto da credere alle teorie più assurde. Ho sentito persino dire che chi leggiamo essersi suicidato prima di compiere il gesto desse l’impressione ai parenti più vicini di essere morto già altre volte e di sapere quello che faceva. Io mi sfogavo con cose più banali, per esempio, come scorrere il cursore delle onde medie per captare le voci dall’oltretomba o pensare intensamente che mi asciugassero i brufoli sulla fronte in modo da tornare a scuola con una faccia meno soggetta all’ilarità dei pari. Nulla si verificava, manco a dirlo. Ci sono desideri a raggio più corto e chi ha la mentalità imprenditoriale riesce persino a tirarci su un bel gruzzoletto. Sentite qui: una mia amica vorrebbe mettere su un ristorantino in cui servire solo piatti che si intonano con i colori dei vestiti degli avventori. Mica male, vero? Ti presenti con una camicetta bordò e ti fai servire un risotto al radicchio, il pullover marron per un primo con i funghi o il gulash, io ne vado matto. Arriva il cameriere e mette in tavola persino il pane bianco o di segale a seconda degli abiti che indossi e poi ti consiglia. Un posto in cui i nude look sono vietatissimi, ovviamente. Ma alla fine nessuno ci prova veramente, tutte queste velleità sono post it appiccicati con lo sputo, come si dice dalle mie parti per indicare un qualcosa destinato a cadere nell’oblio con una metafora che fa un po’ schifo. Ci restano convinzioni quotidiane più alla nostra portata, come l’illusione che gli alimenti industriali possano essere conservati fuori dalla loro confezione in contenitori generici alla pari di quelli che preparavano le nonne. Ma quanto cazzo si cucinava un tempo? Eliminare ogni traccia di modernità dalla nostra cucina, uniformando la disposizione dei prodotti acquistati al 30% di sconto per tipologia e non per brand, ci trasporta in una dimensione alla quale non apparteniamo più e in cui la soddisfazione del riciclo preventivo di involucri e packaging appaga la coscienza al massimo fino al successivo ritiro programmato dell’immondizia.

sotto la buona stella

Standard

La celebrità esige ogni eccesso, intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice e non la sobria rinomanza degli statisti sul viale del tramonto o dei sovrani dal mento sfuggente. E magari avessi scritto anche io, come DeLillo, una storia che comincia così, d’altronde non sono mai stato un eroe del rock and roll – al massimo del post punk e in un’area estremamente circoscritta – tanto meno un autore. Di certo sono una brutta persona perché non mi sono sottratto dallo spiare mia figlia mentre giocava a fare la star del pop, mimando di percuotere immaginari strumenti musicali a corde al ritmo di chi non ve lo dico, dal momento che un po’ mi imbarazza. Da questo tempio del gusto raffinato e di nicchia da cui sto componendo queste righe a volte si percepiscono, anche per mia volontà, ascolti piuttosto ordinari e commerciali. La cosa mi ha fatto riflettere per due motivi.

La ragazza malgrado le insistenze di genitori affetti da una passione smisurata – il padre, poi, non ne parliamo – non ha mai gettato la spugna sulla propria volontà di lasciarsi trascinare nello studio di un qualsiasi strumento malgrado il suo senso del ritmo e il fatto che abbia già una nutrita raccolta sua di brani di riferimento. A me per esempio piacerebbe introdurla alla batteria, oppure uno strumento monofonico a fiato. Di certo eviterei il piano perché comporta stress a cui non voglio sottoporla a partire dalla sua intrasportabilità, nel caso di scampagnate con gli amici, e dall’equivoco di fondo alla base dello studio stesso. Se fai musica classica diventi spartito-dipendente, il jazz è altrettanto lingua morta o in auge presso comunità chiuse del latino, tutto il resto non rende con gli accompagnamenti con la mano sinistra che comunque fanno sempre l’effetto canzone di Baglioni. Anche se vuoi far ascoltare una rivisitazione dei brani dei Cure. Non nego però di essere sollevato dal considerare quella musicale un’indole tenuta in stand-by e da lasciare latente, ho i miei buoni motivi e li  ho già elencati qui se non ricordo male. Il secondo aspetto riguarda invece il fatto che quello stesso gioco, mimare le star del rock, lo facevo anche io, tale e quale e più o meno alla sua età. La racchetta da volano come chitarra, un fazzoletto legato in fronte, uno specchio o il vetro della finestra come pubblico. E non so, probabilmente anche i miei genitori mi hanno spiato e si sono chiesti perché non giocassi con i soldatini Atlantic, cosa che comunque facevo.

Oggi quella fluorescenza divoratrice, quella di Bucky Wunderlick per intenderci, è molto meno luminescente di allora perché basta guardarsi intorno che è tutto sempre acceso. I banner su Internet, le foto dei socialcosi, i display nelle stazioni, i passatempi digitali portatili. Tutti hanno successo. E negli interstizi di questo inquinamento luminoso universale – in senso proprio, lato e traslato – tutto è glitterato apposta per non lasciare in ombra chi è costretto a riflettere perché privo di luce propria. Così diamo l’impressione – ma a chi poi, che ormai non c’è più pubblico e mercato nemmeno al sud del mondo? Agli alieni? – che a qualunque ora svegliarsi dopo un incubo chiunque può ritrovare i propri punti di riferimento. Non so voi, ma io al massimo, di notte, tengo una striscia di tapparella aperta. Di più poi non riesco ad addormentarmi.

è lecito chiedersi come fanno nei paesi del nord

Standard

Gli innesti di modernità sulle fasce più povere generano gli effetti più strabilianti e interessanti da documentare. Bisogna stare attenti però a parlarne e a raccontare queste cose cercando di essere delicati perché a suscitare l’ilarità dei lettori mettendo alla berlina i deboli son capaci tutti ed è un atteggiamento degno dei peggiori autori di nefandezze pseudo-letterarie, quelli che vivono di provocazioni e nient’altro. Pensavo invece al garbo di chi si è inventato un film come “Miracolo a Milano” e i borderline alle prese con la fondazione di una sorta di nuovo ordine sociale. Secondo la nostra visione a compartimenti stagni si tratta di un’impresa che, in teoria, dovrebbe essere sopra le loro possibilità. Ma alla fine sono loro che vincono, se non ricordo male. Vorrei tirare in ballo anche il titanismo leopardiano, ma mi rendo conto che sarebbe una forzatura e un inutile sfoggio di paroloni di cui ci si riempie la bocca e, rimanga fra noi, in questo caso è un commento che proprio non c’entra un cazzo.

Perché è di lui che vi vorrei raccontare, questo ragazzo che è seduto vicino a me e non vi dico di cosa puzza, anzi provo a farvelo indovinare: è quella cosa liquida dalla quale più volte al giorno sentiamo di doverci separare in frequenza variabile a seconda di quanto beviamo. Ecco, forse questa persona dovrebbe fare i conti con la tempestività o semplicemente cercare un modo per rinnovare a intervalli minori l’underware, ci siamo capiti. E data la giovane età non credo alla base del problema sussista una gestione difettosa dell’apparato preposto all’espulsione e la conseguente dotazione di un sistema di contenimento mobile artificiale. Comunque mi guardo in giro per capire se mi trovo per sbaglio nei pressi di un orinatoio o se qualcuno ha frainteso proprio quel sedile della metro gialla come parte di un infinito water dove il confine tra le acque nere e quelle bianche sta tutto nella chiusura mentale di chi non trova la dicitura fuori servizio nemmeno sulle maniglie delle porte dell’immenso. Diamine, così alla fine ho capito che ciò che percepivo non era una caratteristica dell’ambiente ma ha gambe e braccia ed è seduto proprio lì di fianco a me. E se lo osservo attentamente mi rendo conto del suo aspetto, che dire trasandato promuoverebbe più del novanta percento, il sottocritto in primis, verso le categorie della cura della persona da dieci e lode, sapete che è una delle voci su cui, oggi, ti giudicano anche sulla pagella a scuola.

E a dirla tutta questa ingombrante carenza non sarebbe nemmeno così deplorevole se non fosse abbinata al possesso di un dispositivo di comunicazione individuale e hi tech non dei più costosi, certo, ma sufficiente a far propendere il giudizio di terzi verso di lui sul versante negativo, se siamo ancora fermi al pregiudizio per cui mentalmente si esegue lo scorporo etico tra i generi basilari di prima necessità e i beni accessori e, in quanto tali, superflui. Ma fermi ci siamo per forza di cose, dato che dalla vendita di quel cellulare si potrebbe investire qualche decina di euro in una quantità più adeguata di biancheria. Non solo. Da quel marchingegno al di sopra delle sue possibilità giunge a fasi alterne qualcosa di ancora più irritante dell’acido urico, ovvero una serie di hit di musica brasiliana, non trasmesse contemporaneamente ovvio bensì in sequenza, il che è peggio. Uno di quei pezzi che quando ne sento anche solo uno e vedo la gente ballare ho il riflesso condizionato di ruotare la maniglia per tirare lo sciacquone, chissà se anche a voi l’esasperazione vi ha ridotto così.

Per non parlare della neve, che non è moderna, anzi, ma il modo in cui si riversa indistintamente su cose e persone è un’allegoria di qualcosa di più complesso, forse ancora di più di uno sbandato che dorme nei cartoni, chissà da quanto non si lava ma ha un telefono mobile con cui ascoltare Gustavo Lima. La neve scende e si posa secondo leggi naturali ben precise di temperatura, latitudine, altezza, stagione. Sotto ci può essere qualunque cosa e chiunque, gente nata in posti caldi e che con cappello di lana e piumino economico cattura la nostra attenzione. O la sudamericana con i Moon Boot, che ti viene da guardarla perché noi siamo abituati a pensare loro in contesti così lontani dall’asfalto coperto di neve sporca di scarichi di automobili in città. Ecco, la neve sporca. Anche quella è un innesto di modernità di cui chiunque, ricco o povero, farebbe a meno.

non è colpa nostra (se è andato tutto a ramengo)

Standard

Ho scopiazzato l’idea di Speakermuto e ho contribuito a mio modo, cioè scrivendo a vanvera, al dibattito in calce al post odierno di Leonardo.

Una volta qui era tutto un mito. Poi noi con i nostri Clash e i nostri Radiohead siamo cresciuti e il pop è diventato la cultura degli adulti. Alle generazioni senza futuro ne è rimasta solo una versione compressa e di poco ingombro rispetto alla memoria a loro disposizione, facile da cancellare come un sms promozionale. Non ci capacitiamo del fatto che quello che noi ritenevamo culturale oggi è poco più di una suoneria, di valore irrisorio come tutto ciò che viene misurato considerando i prezzi di oggetti di possesso obbligatorio come uno smartphone. Di musica di qualità ce n’è da tutte le parti (in Italia un po’ meno), dobbiamo solo cambiare le nostre aspettative.