l'elefante e che cosa c'è di diverso da prima

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Dopo l’ultima puntata di Report andata in onda prima che qualcuno decidesse di chiudere il programma Giacomo ha fatto cenno a quando l’organista di riserva, un ragazzino che prestava servizio quando l’organista ufficiale per qualche motivo non era disponibile e comunque in alcune delle funzioni meno frequentate del duomo, gli aveva sfilato il cappellino da sciatore e se l’erano lanciati con il suo compare due o tre volte fino a quando il cappellino, ad un certo punto, era sparito. Giacomo pur di non dare la soddisfazione di mettersi a piangere si era allontanato dal chiostro per approssimarsi all’aula di solfeggio, sperando che al termine della lezione il suo cappello sarebbe ricomparso. Invece niente. A casa poi nessuno se ne era nemmeno accorto, una cosa che trovo inconcepibile perché io impazzisco persino quando nostro figlio lascia negli spogliatoi un calzino sudato dopo gli allentamenti o se non trova più gli auricolari del suo smartphone, figuriamoci con un capo di abbigliamento. In genere gli oggetti smarriti ritornano ai loro padroni come animali domestici quando meno te lo aspetti, a partire dalle carte di credito nelle tasche delle giacche desuete dopo che le hai già fatte disattivare (le carte, non le giacche desuete). Diverso è se qualcuno si appropria di qualcosa che è tuo, forse è questo passaggio che ha indotto Giacomo a condividere l’episodio del cappellino da sciatore dopo la puntata di Report. Ci vorrebbe un servizio di giustizia universale per i ragazzini deboli che mette alla berlina seriamente chi li vessa con angherie da bullo. Giacomo poi, alla lezione successiva qualche giorno dopo (il solfeggio era programmato bi-settimanalmente) aveva pensato di ristabilire l’ordine del suo mondo apostrofando con un epiteto che oggi definiremmo oltremodo sessista la mamma dell’organista di riserva, ed è per questo che si era poi beccato un paio di pugni nello stomaco e per fortuna che a quell’età colpire in faccia è ancora una faccenda tabù. Il cappellino poi qualcuno lo aveva consegnato alla signorina Teresa che, oltre a dare lezioni di canto corale, sbrigava le faccende amministrative della scuola e custodiva in un armadio gli oggetti smarriti. C’è ancora da qualche parte in casa la fotocopia dello spartito di una canzoncina per pianoforte dal titolo “La gavottina della bambola” che Teresa si era premurata di fargli avere dopo l’episodio del cappellino. Comunque non è la prima volta che mio marito, spenta la tele, mi racconta cose della notte dei tempi e se non fosse che so che è una persona a modo un po’ troverei curioso il fatto che riesca a conservare nella testa dettagli che trovo insignificanti. Gli elefanti hanno una memoria così, ho detto a Giacomo prima di coricarci. Lui ha solo aggiunto che comunque non è uno che ama vendicarsi, ma nel dubbio è bene tenere a mente tutto, non si sa mai, e poi, come al solito, ha caricato la sveglia e si è voltato sul fianco, verso di me.

che cosa cerchiamo con così tanto accanimento nel passato

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Storia fa rima con memoria in almeno una decina di canzoni, calcolo che si fa presto a fare in un paio di minuti di fact checking e comunque anni fa un’amica ha chiesto a Francesco Renga nel corso di un’intervista dove fosse arrivato, a furia di cambiare direzione. Ma tutta questa assonanza tra due concetti così limitrofi probabilmente è la prova che il passato è fondamentale per capire il presente e magari per dare anche una sbirciatina al futuro, per far tesoro di quei due o tre spoiler che evitano le scelte più dannose. A volte invece è un peccato riflettere guardandosi indietro perché a distanza di anni sono bravi tutti a scrivere oggi articoli di analisi sulle cose che sono successe ieri l’altro. Si rimesta tutto dentro e sale ancora la pressione. Ci chiediamo reciprocamente che cosa abbiamo fatto quest’estate, forse perché c’è anche un passato prossimo il cui cadavere è a portata di mano ed è ancora caldo. Io quest’estate ho anche riflettuto su un passato più remoto e malgrado questo non mi sono soffermato sui quindici anni dalla morte del quindicenne Carlo Giuliani, e non ditelo a me che ero lì nei pressi allora e oggi che sono così lontano in tempi e chilometri è meglio lasciare la pila di quotidiani acquistati come ricordo di quei giorni giù in garage dove sono perché oggi, da qui, non riesco più a capire. C’è stata anche una full immersion nelle retrospettive esistenziali con il concerto di Max Collini e Jukka Reverberi a cui ho assistito al Carroponte, in cui i due hanno presentato il loro spettacolo e album “Spartiti”. Si tratta di una versione forse ancora più intima degli Offlaga Disco Pax e piena di rimandi originali e di altri scrittori al passato che ci accomuna tutti. Quello più vicino, quello dell’infanzia di Max Collini che è un po’ anche la mia, considerando la leva di entrambi che è la stessa. C’è una risposta a chi ci chiede, allora, che cosa cerchiamo con così tanto accanimento nel passato? Forse una risposta al fatto che oggi, e possiamo dircelo tra noi, le cose non vanno affatto bene e sappiate che a me tutta la responsabilità di questo passato così aureo rispetto alla merda che è toccata alle generazioni successive un po’ inizia a provarmi.

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Il mercato immobiliare non se la passa bene, vero? Peccato, perché vorrei proprio sbarazzarmi del mio dimenticatoio. Non è proprio che non sappia che farmene, perché malgrado l’ampia metratura è ormai al limite della capienza e anzi, dovrei convincere il mio vicino di spazio a vendermi il suo. Di certo si tratta di un dimenticatoio di un certo valore, situato in un contesto signorile, dotato di impianto elettrico e posizionato al livello interrato di un complesso residenziale civile recintato. Senza contare che è stato costruito in prossimità della nuova linea metropolitana e di una futura area con analoghi spazi limitati. Ho comprato il dimenticatoio anni fa e subito ho cominciato a stiparlo di cianfrusaglie umane e inanimate, fino a quando ho commesso l’errore di lasciarci cose temporaneamente. Sapete come si dice, no? Uno è sovrappensiero e dice a se stesso che appoggia lì una scadenza, un libro che gli hanno prestato, una ricorrenza, una promessa. Ma chi ci passa poi per il dimenticatoio quando non serve? Se qualcuno di voi fa un check una volta ogni tanto per vedere se c’è qualcosa che va a male alzi la mano, di certo non io. Per questo ho la smania di tenermi tutto appresso e bene in vista, perché poi se metto qualcosa là sotto è finita.

Stamattina l’ho aperto perché non trovavo un appuntamento che avevo preso e appena ho tirato su il portellone sono stato sommerso di roba. Un macello che non vi dico. Ero di fretta e così ho rimesso via tutto un po’ alla rinfusa, tanto nel dimenticatoio alla fine ci passo solo io. Per questo lo voglio vendere. Se non avessi il dimenticatoio probabilmente farei una fatica bestia anche solo a camminare perché girerei con una borsa colma fino all’orlo di impegni, ma sarebbe meglio così perché gestirei meglio il mio tempo. Non a caso si dice “avere una memoria di ferro”. Perché quello che uno vuole nascondere nel dimenticatoio sono cose pesantissime e se conservate nella mente rischiano di ammaccare la nostra bella scatola cranica. A metterle tutte in borsa, d’altronde, ci si espone a rischio di scogliosi, gibbosi e tutte quelle altre deformazioni ossee dai nomi buffi. Ma è inevitabile. A un certo punto della vita si pensa che, oltre al box e alla cantina, del dimenticatoio non se ne possa fare a meno. E invece io preferisco fare senza, avere tutto sotto mano. Comunque se sentite qualcuno che ha bisogno di un dimenticatoio in ottime condizioni, fatemi sapere. Il prezzo è trattabile.

sotto esame

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L’ambulatorio audiologico condivide la sala d’attesa con lo studio dello specialista in problemi della memoria, un particolare che noto immediatamente vista la situazione di mio papà. E mentre aspetto il mio turno per conoscere di quali frequenze mi sto privando da un po’ di tempo a questa parte, osservo un paziente che ciondola leggendo i poster di comunicazione medica che tappezzano la stanza, quei messaggi che sono a metà tra la divulgazione volta alla prevenzione e scientology. Si apre la porta e il neurologo chiede se è già arrivato il signor Ligieri. Siamo in tre, seduti, e ci guardiamo tra di noi per vedere se qualcuno risponde alla domanda del dottore. La sua voce ha catturato anche l’attenzione dell’uomo in piedi che si volta a osservarlo un po’ inebetito. “Il signor Ligieri?”, ribadisce il dottore. L’uomo allora legge la sua impegnativa che tiene tra le mani, e dopo qualche secondo risponde, ma poco convinto, “Eh? Ah, sì, sono io”. Sembra una gag perfetta, infatti il resto delle persone lì in attesa, me compreso, si guarda facendo quell’espressione un po’ divertita ma anche di pena, perché potrebbe essere solo un caso in cui il paziente chiamato era sovrappensiero ma anche no, e d’altro canto chiunque, tra noi rimasti dopo che l’uomo si è accomodato nello studio, potrebbe soffrire di analoghi disturbi e si corre il rischio di offendere qualcuno. Io prendo subito qualche appunto, sembra la situazione ideale per una storiella da divulgare on line.

E poi arriva il mio turno, per fortuna entro nell’altra stanza, quella di chi ha disturbi all’udito, e quando la dottoressa mi chiama mi viene voglia di dirle “EEh? Scusi ma non sento!” ma allo stesso modo mi sembra poco serio e oltremodo cinico scherzare sulla salute, tanto più la mia. Terminato l’esame, esco per rientrare in ufficio e ripenso al signore che non si ricorda nemmeno il suo nome e penso anche a mio papà, ma vengo distratto dalle vetrine di un negozio, anzi, di una boutique di arredamento. Siamo in pieno centro, zona Cadorna, e in vetrina sotto una lampada Arco di Castiglioni, a fianco di un divano Molteni e su un tappeto Minotti, di fronte a un porta tv su cui svetta una Brionvega modello Algol, seduti su sedie Eero Saarinen intorno a un tavolo dello stesso designer, due coppie di giapponesi consultano un catalogo in cui probabilmente c’è schematizzato secondo la tipologia di ambiente tutto quel ben di dio che hanno intorno, vista la loro espressione di beatitudine. Uno solo di quei pezzi costa probabilmente tanto quanto tutto l’arredamento di casa mia. Ma l’insieme dell’eccellenza di natura morta di interni con clientela facoltosa dell’estremo oriente è deliziosa, loro sì che hanno il buon gusto e il potere d’acquisto adatto a vivere tra tanta bellezza.

E sono talmente preso da quella visione che non mi accorgo subito del telefono che squilla, anzi forse non sento più le frequenze della suoneria standard che ho selezionato ed è quello che mi è stato diagnosticato. Mi sta chiamando il laboratorio di analisi di prima, mi avvisano che ho dimenticato di ritirare fattura e referto alla fine della visita, come mi era stato detto. E quel “come mi era stato detto” mi fa venire in mente che non mi ricordavo che me l’avessero detto, e infatti proprio non me lo ricordo e glielo dico e a quel punto mi si dipana una rete di collegamenti con tutto quel che sta succedendo, forse potevo dire all’impiegata che visti i miei problemi di udito non ho sentito quando mi è stato detto, perché magari lei pensa che sono stato lì invece per problemi di memoria. Il tutto senza gesticolare, solo continuando a osservare le due coppie di giapponesi che nel frattempo non consultano più il catalogo ma guardano me, ma oggi è così, mi sembra che mi guardino tutti.

prenderla con

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Ieri mio padre al telefono era convinto di aver passato la giornata sulla neve, nella casa di campagna in cui ha trascorso la maggior parte del suo tempo libero. Sembrava sorpreso del repentino peggioramento delle condizioni atmosferiche in estate, e questa è stata la conferma dei miei sospetti. Si era di nuovo perso nella sua testa, aveva rovesciato uno scaffale di ricordi e li aveva rimessi a posto incurante dell’ordine cronologico. Ovviamente, come per il resto degli ultimi mesi, non si era mosso dall’appartamento, l’unico particolare attendibile era il fatto che in quel posto di campagna aveva davvero nevicato, durante la notte, e qualcuno al telefono doveva averlo aggiornato. Così gli ho chiesto di poter parlare con mia mamma. Non mi pare sia tornata a casa con me, mi ha risposto. Per fortuna quando gli ho suggerito di guardare meglio in cucina, l’ha riconosciuta e me l’ha passata. Quindi è questo quello che ci aspetta – non è un pensiero che ho condiviso con lei, è che mi sono distratto mentre mi forniva un resoconto degli ultimi episodi che già sapevo ed è stato facile smarrirsi nella preoccupazione a quel punto. Quindi è questo quello che ci aspetta, ho pensato, un filo smangiucchiato che fa arrivare a singhiozzo gli input e altrettanto discontinuamente trasmette verso l’esterno e che nessuno è in grado di riparare come il vecchio telefono fisso da cui lei mi stava parlando. E come per i guasti più gravi di questo, ecco il volume che sfuma a zero verso la fine, un fade-out talvolta con un’interruzione brusca, che poi è quello che più o meno simmetricamente corrisponde a un principio e che giustifica l’eccezionalità dell’essere vivo. Il che è paradossale perché si tratta di un contrario che dimostra l’autenticità di una condizione che altrimenti non sarebbe tale. E se avessi studiato filosofia con giudizio ora potrei anche dirvi chi è che lo sosteneva.

per filo e per segno

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Dopo colazione mia figlia chiede di ripetere la lezione di storia, che consiste in cinque facciate del libro studiate una decina di giorni fa. Per vari motivi in classe non c’è stato ancora il modo di accertare se i bambini hanno studiato e compreso l’argomento (dinosauri e loro estinzione) e solo oggi ci sarà una verifica. La cosa ci era completamente sfuggita, non ci siamo nemmeno preoccupati di fare un ripasso lo scorso fine settimana e ci siamo ridotti all’ultimo momento. E per fortuna che è venuto in mente a lei, e solo lo sforzo di non metterle ansia ci ha impedito di non andare nel panico. Ma ogni preoccupazione, come al solito, è stata superflua. Siamo noi adulti a dimenticare un aspetto importante: l’attitudine che hanno i bambini di ricordarsi le cose è straordinaria. In quattro e quattr’otto la piccola ha ripetuto tutto per filo e per segno ai limiti della esposizione mnemonica, ma poi provando con domande trabocchetto e richieste di dettagli con parole diverse rigirando i concetti è risultato chiaro che aveva afferrato perfettamente il quadro.

Così l’ho osservata mentre chiudeva l’argomentazione perfettamente come se fosse fresca di ripasso, si vedeva la magia dell’espressione di chi ha capito, sta strutturando dentro di sé il discorso e in tempo reale codifica il linguaggio macchina, diciamo così, quello di più basso livello in senso informatico che è il pensiero, e lo rende comprensibile a parole accompagnate da tutti i muscoli della faccia e del corpo che fanno da cornice. Ho pensato a lei come a uno stampo che si forgiava per produrre poi tutto quello che stava dicendo e che aveva in parte la sua forma. E niente, non c’è nulla di speciale se non il piacere di assistere a uno spettacolo dell’intelligenza e agli stessi contenuti. Questo indipendentemente che si tratti del proprio figlio o no, in momenti come questi c’è tutta l’energia che questo tipo di elaborazione produce, scariche di vita fresche di stagione che mettono in secondo piano tutto il resto. Ma l’aver colto un altro tassello per una sorta di thread monografico sulla memoria, involontario perché si tratta di considerazioni assolutamente casuali come tutto il resto delle cose che scrivo (e poi anche basta, cerco di chiudere qui l’argomento), è significativo, è la prova che si tende a interpretare la realtà con il filtro delle urgenze emotive, fino a quando non mutano le priorità e si cambia finalmente registro.

tutto qui

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Che poi, e mi riferisco a quanto ho scritto qui sotto, stiamo tutto il tempo a raccogliere informazioni, un vero e proprio bombardamento, e le stipiamo tutte in una memoria volatile perché oramai l’intelligenza non consiste più nel ricordare l’informazione ma nel sapere dove cercarla su Internet. E, a dimostrazione di questo, per esempio in questo momento non mi ricordo assolutamente dove ho tratto questo concetto, dove l’ho letto, e provo a cercarlo con Google ma non lo trovo e in questo caso come mi devo considerare? Io che non sono un nativo ma un uomo digitale di mezza età ho ancora un po’ di forma mentis del secolo scorso e qualcosa ogni tanto mi rimane in testa. Poi penso ai mali della vecchiaia, purtroppo ne ho un caso molto vicino, e mi chiedo che succede se dopo che hai accumulato dati importanti, come i ricordi di una vita, un bel momento resetti tutto e quando ti portano in giro vedi le cose come se fosse la prima volta, ogni volta. Noi cresciuti informatizzati avremo tutto qui, su questo coso che registra ogni input gli invii da una tastiera. Ho anche letto che le esperienze di blogging hanno il valore di dare una sistematizzazione e mettere al sicuro una serie di contenuti, magari tutto quello che è successo prima, in alcuni casi quello che succede contestualmente, in altri quello che verrà dopo. Con il vantaggio, parlando per il futuro, di avere già qualcosa di pronto da ricordare nel caso si guastasse il disco fisso che si ha in testa, e qualcuno di molto vicino chiedesse di raccontargli una storia.

io?

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Che poi sono il primo a inarcare le sopracciglia facendo quella faccina perplessa con tutte le rughe a righe sulla fronte quando sento ripetere la stessa cosa alla stessa persona una seconda se non addirittura una terza volta perché non si ricorda di avermela già detta, probabilmente non rimango così impresso nel database relazionale, avete capito cosa intendo, o forse come me si va soggetti a quella forma di smemoria, mi si passi il termine, quella della query che ti dà risultati pari a zero. È che alla fine è questo mestiere che ti fa ricordare le cose solo quando lo vuole lui, e per fortuna che uno non cancella la posta, semina tracce, compila fogli di calcolo per tutte le password. Che esagerazione, un foglio di calcolo per le password quando basterebbe un file di testo, se non un comune taccuino che c’è ancora meno il rischio di perderlo. Perché è facile scrivere per lavoro e per diletto, ma poi salvi e basta qualche progetto più stressante o semplicemente più lungo e non solo ti dimentichi cosa hai scritto, ma anche a che proposito hai scritto una cosa che non ti ricordi di avere scritto. Che sembra un paradosso, ma mica tanto. Vi basti pensare che proprio questo tema, dimenticarsi le cose, non ricordo se ne l’ho già trattato o no, e se ne ho scritto l’avrò fatto qui?

chi?

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La mezza età si chiama così probabilmente perché passi metà del tempo a passare in scansione la memoria nella ricerca dell’informazione mancante da usare come complemento oggetto per terminare una frase, ricordarti il titolo del film che volevi consigliare al collega più giovane che ti guarda inarcando il sopracciglio mentre i minuti passano, mettere nella sequenza giusta le cose da fare spostandoti dal punto a al punto b senza dover coprire la distanza più di tre volte, altrimenti il tempo non è ottimizzato e tanto valeva portare a termine ogni compito separatamente, ma in quest’ultimo caso è già un pretendere troppo da quello scontro casuale di componenti cerebrali che un tempo aveva dignità di essere definito sinapsi. L’altra metà del tempo, invece, la passi a giustificarti del fatto che ti sei scordato di qualcosa.

Ma non penso sia questa la causa per la quale non mi ricordo di te. Voglio dire, ho impresso perfettamente nella memoria il mio primo giorno di scuola, so la formazione della Polonia ai mondiali del 74, il numero dei dischi che ho prestato dalla prima superiore in poi e che non mi sono mai stati restituiti, il regalo di compleanno che ho fatto alla prima ragazza di cui mi sono innamorato. Ho ben viva nella memoria la faccia del professore di italiano che mi ha interrogato alla maturità, alcune delle persone che mi hanno scarrozzato in autostop, la coppia di entreneuse che gestivano la latteria sotto casa, la danese in vacanza e il primo datore di lavoro. E soprattutto i musicisti con cui ho condiviso qualcosa. Ma tu, che mi parli da dieci minuti di quando suonavamo insieme, sai che proprio non riesco a collocarti in nessun luogo e in nessun tempo? Ho il vuoto, e un po’ mi vergogno a chiederti chi sei, come ti chiami e che nome aveva il gruppo, perché sarebbe troppo umiliante per entrambi. Dubito che tu sia un mitomane, ma davvero sento che sto per perdere l’orientamento. Metto persino in discussione la timeline della mia vita, tante fitte righe verticali con su l’indicazione crescente dell’anno, eppure non ti vedo in nessun interstizio. Per fortuna mia figlia mi trascina via con forza, non sopporta sprecare tempo con adulti estranei che non la degnano nemmeno di uno sguardo, ma si sa, non a tutti piacciono i bambini. E allora io da una parte e tu dall’altra, ci facciamo ciao con la mano e tu mi rassicuri sul fatto che mi saluterai un generico “gli altri della banda, sai ogni tanto ci vediamo a strimpellare qualcosa!”. Ah perfetto, dai salutameli tutti. Ma tutti chi?