In certi ambienti funziona così. C’è qualche pensatore aderente a una lobby di opinion leader che a un certo punto va a prendere l’opposto del senso comune con l’ovvio motivo di ribaltare i parametri del buon gusto con il paradosso. E lo fa per motivi a noi ignoti, probabilmente gli hanno negato un abbraccio da bambino e quel trauma lì lo ha interiorizzato con il primo input che è sopraggiunto dall’esterno. Una linea di design, il profumo della mamma guastato dopo una giornata passata alla cassa del VèGè, la superficie della vigogna di quei pantaloni corti invernali che non voleva indossare a scuola per la paura di mostrare le ginocchia. Fatto sta che questo transfert emotivo gli rimane dentro e a un certo punto, quasi per manifestare una reazione contro le fortune altrui superiori alla propria frustrazione remota ma sedimentata, ecco che il flashback riemerge.
Il che non sarebbe un problema se l’artefice di questo rigurgito culturale non fosse qualcuno inserito negli ambienti giusti, quelli che in quattro e quattr’otto con il loro spirito di influencer operano, in modo che più virale non si può, affinché quella quisquilia dalla profondità dell’oblio comune e giustificato ad un certo momento diventa tremendamente e oggettivamente figa. Questi bastian contrario delle tendenze che più le cose sono agli antipodi dell’estetica vigente meglio è facile convincere l’opinione pubblica che ne vale la pena, e il verbo si diffonde con una velocità inaudita.
Non si spiegherebbe perché una ventina d’anni fa, per esempio, qualcuno ha tirato fuori dalla discarica del pensiero popolare tutta quella merda di cinema anni 70 con i vari Pierino e i Monnezza che, se già facevano cagare ai tempi in cui sono stati realizzati – mi perdonerete spero se sono così diretto nel linguaggio – figuriamoci a così tanto tempo di distanza. Se non che, siamo passati dalle bobine con lo strato di muffa, tanto era che non venivano proiettati, alle loro versioni tirate a lucido in digitale, il tutto amplificato dal web tanto che di Bombolo e di Edvige Fenech sono ancora pieni gli archivi video di youtube.
Dico questo perché da qualche mese a questa parte è tutto un parlare di Max Pezzali. Ho visto per caso una trasmissione di rapper che lo idolatravano come maestro di vita per aver cantato le gesta dell’Uomo Ragno quando questi zarri tatuati facevano a malapena le elementari. Ogni due per tre c’è un articolo con lui che racconta le sue gesta musicali di quell’album con i punti cardinali che in molti, oggi, mettono tra i fondamentali del loro vissuto. Ora se non sbaglio è uscito pure il disco nuovo ed è facile incrociarlo in qualche canale tv, ad ogni ora del giorno e della notte.
Il problema è che poi questi guru delle tendenze passano oltre e ci lasciano nella nostra broda trash che nel frattempo è diventata di culto, non so se mi spiego. Così chi si è perso il primo passaggio, quello originale, in cui il paradosso era una provocazione per sondare la capacità di convincimento della massa, ora pensa che Pezzali non sia per nulla lo sfigato che era con gli 883 e da solista, ma anzi uno che ha costruito le basi del nostro presente. Come con quell’altra moda dell’assurdo: ormai ci siamo scordati che pellicole del calibro della dottoressa che ci sta con il colonnello erano già state seppellite una volta nel dimenticatoio e tutt’ora, come zombi, deambulano resuscitate nel nostro immaginario con fame di vendetta. Ma di cervelli buoni da mangiare, ormai, ce ne sono più pochi.