Ieri sera, nello spogliatoio della palestra dopo l’ora di attività motoria globale, i miei compagni di corso rivestendosi commentavano un fatto di cronaca la vittima del quale, nel servizio a cui l’edizione locale del tg3 aveva dato spazio, veniva presentata come un ragazzo di 25 anni. Il più giovane di quel crocchio di attempati, sui sessanta malgrado i capelli molto più neri dei miei, portava a esempio la propria esperienza: “a 25 anni avevo già un figlio”, diceva agli altri. La discussione che ne è nata verteva proprio sul fatto che oramai nella percezione comune, con l’avallo dai media, si sta erodendo sempre più terreno alla fascia centrale della nostra esistenza.
Complice l’allungamento senza precedenti delle aspettative di vita, considerando che c’è tempo fino ai novanta e passa anni per essere anziani, vecchi o della terza età. Complice anche la fenomenologia del bamboccione, che vede quarantenni ancora indecisi circa il loro futuro. Complice forse un’estetica che ha istituzionalizzato comportamenti e intenzioni adolescenziali anche ben oltre l’esame di maturità, che non a caso si chiama così, e uomini e donne non esistono più.
La tribuna popolare a cui assistevo si chiedeva se e quando fosse il caso di chiamare un individuo “adulto”, sostenendo che i giornalisti dovrebbero impegnarsi nel non contribuire all’aumento di distorsioni della realtà. Ma il problema era che io mi sono sentito a disagio. Non per le generalizzazioni tipiche di un consesso post attività fisica, ma perché mi vedevo come appartenente alla categoria oggetto dello scherno. A quarantasei anni ho temuto che la critica vertesse nei miei confronti e non solo perché esternamente sfoggio un look giovane, mi vesto sempre uguale da tempi immemori, che poi secondo me è il contrario, ovvero mi vesto da anziano da tantissimi anni.
Mi sento un ragazzo di quarantasei anni quando penso, per le cose che faccio compreso il mio lavoro, quando mi vedo reagire alle situazioni, quando rifletto sul mio modo di passare il tempo, di gestire i rapporti umani, di relazionarmi con il prossimo. Ma anche quando ascolto musica suonata da gente di cui potrei essere abbondantemente padre. Mi sento un ragazzo di quarantasei anni perché ho certi dialoghi con me stesso che non mi sembrano essere mai cambiati da quando ragazzo lo ero in tutto.
Ieri però poi ho notato che si trattava solo di una mia impressione, nessuno ha fatto caso al mio imbarazzo. Ciò mi ha tranquillizzato perché probabilmente, malgrado tutto, per chi non mi conosce da fuori dimostro con esattezza la mia età. Meglio mettersi il cuore in pace. Sono adulto da un bel pezzo, forse da così tanto che quasi ne sono di nuovo fuori, dal periodo centrale della vita. Questa volta però dalla parte opposta.