cartoline dalla riviera

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Giusto per darvi le coordinate, a nord sono chiuso da una barriera di colline brulle e tristi che solo a vederle e a pensare a quello da cui mi separano mi viene l’ansia, e da una casa di cura a lunga degenza per anziani. Nella sala ricreativa oggi che è domenica si segue il pomeriggio di Canale 5 a tutto spiano. C’è una discendente di Gino Bramieri che si difende dalle accuse di sconosciuti che la chiamano in diretta su problemi inerenti l’eredità, mi pare di capire. La tv chiude un cerchio di sedie a rotelle in cui la più fortunata sferruzza a maglia e mi sorride notando che osservo la sua vitalità rispetto al consesso di ottantenni e novantenni assenti o, nel peggiore dei casi, ripiegati su se stessi. Fuori c’è uno dei quarantanove pazienti con il cappello da alpino che dà ordini a un plotone invisibile. Nel corridoio una delle quattro infermiere che attende con pazienza che la donna che ha accompagnato in bagno finalmente si liberi. La zia invece è lucida malgrado i novantatre anni, non so se sa che da lì non uscirà più, le porto un bicchiere d’acqua dal boccione mentre una donna che tiene compagnia alla madre si mette a pulire la gabbietta degli uccelli. Dice che quando vede degli animali non capisce più niente.

A sud c’è la coda, la coda che è ormai una parte della natura più della macchia mediterranea, più dei gabbiani, più del mare stesso che ne è la causa. Coda in un senso e coda nell’altro, coda ad andare e coda a tornare lungo l’unica strada che costeggia il litorale con auto, moto, bici, pullman turistici, autobus di linea, famiglie che attraversano, gruppi di ragazzotti che si passano il pallone e le loro femmine con minuscoli pantaloncini sopra le cosce scottate. Intorno la coda e gli automobilisti che si guardano, lasciano persino entrare altri automobilisti dalle vie che si immettono ad alimentarne ancora la lunghezza e tutte le conversazioni che si consumano negli abitacoli che sono sempre le stesse. Perché non la provincia non decide un numero chiuso di turisti domenicali, perché dalle regioni limitrofe non si decidono a fare i turni per scendere, perché cazzo anche questa volta siamo venuti per passare ore e ore in coda.

A est c’è una ragazzina abbondantemente sovrappeso, avrà quattordici anni e piange per strada consolata dalle amiche. Il coetaneo di cui si è invaghita l’ha derisa per la sua forma fisica. Vorrei dirle di non perdere tempo perché certe frustrazioni di quel tipo a quell’età poi te le porti dietro tutta la vita, io lo so per esperienza diretta e visto che non posso cambiare a ritroso il destino di nessuno mi piacerebbe intervenire e convincere chi ha ancora tempo che la vita è crudele e che, sbagliato o no, è bene impegnarsi subito a rientrare nei canoni che ti ammettono di diritto in questa società del cazzo. Ti può andare di fortuna e magari riesci a passare indenne rimanendo come sei, ma è dura e bisogna avere una personalità forte e soprattutto non vivere in questo posto da terzo mondo.

A ovest, infine, un uomo con il codino – solo qui esistono ancora uomini con il codino – si rolla una siga seduto sulla sua cinquecento vecchio modello color azzurro Fiat parcheggiata nella via più brutta della città, la portiera è aperta e intorno si dipana una puzza di piscio di cane quasi più forte di quella che c’era nella casa di cura a lunga degenza per anziani a nord. Passano due ragazzi e lui anziché salutarli suona il clacson, un gesto che trovo sovradimensionato nel vuoto della domenica pomeriggio. I due lo guardano, lui si mette la siga in bocca, chiude la cinquecento vecchio modello e gli dice che visti così insieme, quei due amici, sembrano due froci.

puerto escondido

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Non sei il primo che dice di invidiarmi l’aver trascorso un’ampia parte della mia vita in una città affacciata sul mare. Chissà quante volte sarai andato al tramonto a rilassarti camminando sulla spiaggia, chiudere gli occhi e ascoltare le onde che si infrangono sugli scogli, sedersi sulla sabbia e aspettare che acqua e cielo finiscano per confondersi l’un l’altro, seguire i voli dei gabbiani. A dirti la verità, mai. E faccio fatica a condividere l’idea romantica che tu e tutti gli altri che quando sanno che ho origini liguri si affrettano a commentare il salto in qualità negativo che ha compiuto la mia vita, avete dei luoghi in cui sono nato e ho vissuto, perché avere a disposizione una costa non significa essere alle Seychelles. E non è nemmeno il fatto che avere qualcosa di speciale sotto mano ne riduca il fascino. Ma non ricordo di aver mai pensato al mare – quel mare – in questi termini, un luogo in cui scaricare tensioni e liberare la mente. Anzi. A Ponente, poi, non c’è metro in cui il panorama non sia sgombro di ciminiere a strisce o navi da carico che transitano non così tanto al largo. Poi basta voltarsi e l’incuria con cui si è costruito a ridosso delle spiagge è più che esemplare, in quanto a cattivo gusto. A questo, in estate, si aggiungono i chilometri di stabilimenti balneari che si susseguono disordinatamente, di rado si trova un metro di natura non dico incontaminata, ma almeno non affidata a privati con concessioni commerciali da barzelletta. Insomma, a mettere i piedi nell’acqua al tramonto si corre il rischio di chiudere la giornata innervosendosi, quindi è meglio fare come fai tu, provare l’ebbrezza della riviera da milanese un paio di weekend ogni tanto, pronto a rimetterti in coda e tornare nella landa delle polveri sottili.

nella stessa barca

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Per quel che mi ricordo della Liguria, diciamo che me la ricordo piuttosto bene perché sono nato e cresciuto laggiù, e soprattutto di Genova in cui ho abitato per un po’, c’è quella sensazione di equilibrio precario che non ti abbandona mai. Poi se ti abitui ad avere sempre i due piedi allo stesso livello e a comodità come la raccolta differenziata all’interno dei cortili, passare in autostrada a ridosso degli edifici costruiti in salita ti sembra l’ennesimo film in 3D al multisala. Li guardi e ti gira un po’ la testa e pensi ai capogiri di chi ci abita dentro. Ma non è solo quello. Prova a salire a monte, arrivi in cima e ti senti in una vignetta di Mordillo, c’era persino una canzone di Max Manfredi che raccontava di chi fa la pipì sulle alture e in mezzo minuto si inquina il mare. Ti cade il pallone giù e non lo trovi più. Arrivi in costa sull’appennino e ti coglie l’effetto da montagne russe. Si tratta di una città, e non è l’unica, costruita per altre epoche, quelle in cui esistevano ancora le mezze stagioni e il clima era un altro, e anche sufficientemente consolidato. Oggi passare sotto quell’enorme ziqqurat urbanistico mi dà l’impressione che crolli da un momento all’altro. E comunque non c’è più lo spazio per nulla, in Liguria, figuriamoci per le piogge copiose che oramai da dieci anni fiaccano con regolarità l’autunno rivierasco, ma ogni volta è sempre come la prima volta e che ci volete fare. Non si può ricostruire Genova, non si possono radere al suolo i quartieri appesi sulla cima. Si può cambiare la Liguria, si devono cambiare i Liguri? No, non ce n’è bisogno. Vedendo una delle strade sommerse di fango delle Cinque Terre, notando l’insegna di un albergo che sembra non esserci più, mi sono chiesto quanto costasse lì la pensione completa in alta stagione e il livello del servizio fornito.

pan per focaccia

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Sono sempre state di fronte, affacciate sulla stessa strada, dalla vetrina dell’una si può sbirciare come vanno le cose nell’altra. Due panetterie a pochi metri di distanza, gli ingressi simmetrici sui due isolati di una via del centro. Il quartiere è sempre stato popoloso, in una città in cui l’elemento base dell’alimentazione è la focaccia, focaccia a colazione, a pranzo, merenda, aperitivo e cena, quindi non c’è a monte un errore nella concessione delle licenze. Ma il caso ha voluto che le tue aree limitrofe che avrebbero probabilmente dovuto avere non più di un forno ciascuna, li avessero paradossalmente in quel modo speculare, quasi come due continenti che si separano ma restano per sempre con la stessa morfologia per chiunque ne studi, prima o poi, le caratteristiche.

La clientela è, all’inizio di questa storia e intendo la notte dei tempi, suddivisa equamente anche in modo piuttosto campanilistico. Chi sta al di qua della via va dal panificio Bianchi, chi abita di là si rifornisce da Verdi. Entrambi sono forni con rivendita, entrambi fanno pane e focaccia ottimi, non c’è alcun bisogno di diversificare il prodotto. Trattandosi del cibo tipico locale nessuno ha interesse a far evolvere abitudini, accendere curiosità, sperimentare. Nonsolopane, per dire, quei nomi bizzarri che fanno tanto programma televisivo con il presentatore tutto vestito Marlboro Country che regala i quindici minuti warholiani a massaie e fanatici dello slow food e mangia e beve a sbafo. Quella invece era una visione del consumo alimentare in linea perfettamente con l’era democristiana cui mi riferisco, la balena bianca e le sue propaggini del pentapartito. La metafora è che in campagna elettorale avrebbero votato tutti PCI, e poi guarda un po’ nelle urne il blocco di centro usciva sempre vincitore. Così tutti avrebbero, chissà, anche dato un taglio alla tradizione, ma poi alla fine meglio non rischiare. Così anche tra panettieri. La focaccia resta focaccia, al massimo con le cipolle.

E in quello stesso partito di riferimento per una maggioranza silenziosa (non si mangia con la bocca piena, tanto meno la focaccia) coesistono due scuole di pensiero opposte, diciamo due correnti interne allo stesso partito. Prendiamo come punto di riferimento geografico il mare: Verdi, ubicato a destra, la fa morbida e untissima. Bianchi, a sinistra, la fa secca e asciutta. Noi abitiamo, purtroppo, a destra, e Verdi occupa addirittura l’appartamento sotto il nostro, è un vicino di casa. Si è fatto addirittura insonorizzare la camera perché, lavorando di notte, dorme di giorno e non ne può più di sentire me che mi esercito al piano tutto il dì. Poi il signor Verdi invecchia, va in pensione, subentra qualche parente ma sembra non perpetrarsi la gestione familiare, si perde la continuità, insomma gli habitué percepiscono un po’ di confusione, il negozio perde un po’ in smalto, subentra l’incuria, le vetrine scarne, nel frattempo c’è stata mani pulite e Forlani con la bavetta esposto al pubblico ludibrio. Si smarrisce il consenso: la focaccia non è più come la faceva una volta. E contemporaneamente la popolazione stessa, sempre da quella parte, segue il cambiamento della società e invecchia con quel rigurgito di orgoglio che hanno gli anziani di oggi e vogliono ancora divertirsi. Festa in piazza, uomini e donne, i sogni Mediaset che vivono a lungo come Vianello e la Mondaini in una televendita.

Il signor Bianchi di là segue, anche involontariamente, un percorso opposto. Intanto innesti dell’est europeo nella famiglia padronale danno guizzi di esotismo che gli afecionados apprezzano. Nuovi tipi di focaccia e pane, nuovi sapori, nuovo modello di business. E allo stesso tempo c’è la riscoperta della tradizione, la ricetta come era una volta, la vera focaccia del posto. Gli anni 80 sono finiti, alla rucola subentrano gli agriturismo e le ricette della nonna. Il signor Bianchi e la sua famiglia, figli e parenti acquisiti, fanno quadrato, danno più sicurezza, ed ecco che accade l’imprevedibile. I clienti di Verdi attraversano la strada e passano a Bianchi, magari inizialmente vergognandosene un po’, ricordiamoci che dall’interno dell’uno si vede quello che succede nella bottega dell’altro. Traditori e voltagabbana, ma il marketing consiste anche nell’affossare la concorrenza. Oggi Bianchi sfoggia un modernissimo arredamento nuovo di zecca, commesse giovani, abbronzatissime e cordiali che salutano i clienti anziani che passano il tempo alla finestra, fornisce il numerino per le code, il negozio è sempre pieno malgrado la crisi perché anche con la crisi si fa ancora colazione con la focaccia, pranzo con la focaccia, focaccia per aperitivo e anche a cena.

Verdi, di fronte, oramai è quasi sempre deserto. Qualche vecchio cliente che non si è reso conto della perdita di qualità e del conseguente mancato presidio al vanto locale. Alto tradimento. Metti che sbarca un turista da una nave da crociera nel pomeriggio e vuole assaggiare le delizie del posto e capita lì e la focaccia è stata sfornata la mattina e ormai non è più buona, e magari in vetrina hai una ciambella e un rotolo di cioccolato. In agosto no, il rotolo al cioccolato in vetrina in agosto proprio non si può. Vedi, qui il commercio al dettaglio lo uccide anche l’incuria.

la grande luce si va sfacendo e

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In questa città si invecchia in un modo unico. Le coppie di anziani passano il tempo a parlarsi con l’accento da comanda, da padrone a bracciante, da avventore maleducato a cameriere inesperto, e a chiedersi scusa subito dopo per rimediare. Ma ad altre latitudini è peggio. Gli anziani hanno il volto cotto dal sole, le rughe segnate da stagioni trascorse sulle sdraio in riva al mare. Calzano ciabatte anche fuori di casa, sandali in cuoio incrociati sulle dita dei piedi; li vedi – vedi solo loro, laggiù i giovani non esistono – uscire dai negozi dei caruggi con le borse che traboccano di verdura, o mentre scelgono in pescheria la vittima designata. Grezzi e austeri. Altrettanto poco simpatici, ma in un modo diverso, non perché non hanno tempo. Ne hanno fin troppo. Anche a 80 anni con le borse in mano di quelle che ti segano le dita, perché con i carrelli su marciapiedi sconnessi e strade devastate dall’incuria la fatica è doppia. E infine su per rampe di scale strette e buie e ripide. A casa aprono cassetti in cui non ci sta più nulla, alcuni fitti di sacchetti di nylon ormai fuorilegge, altri di vasetti di yogurt vuoti di cui stento a immaginare il loro secondo impiego. Gli scuri chiusi, le infiltrazioni nei muri, la tv accesa a conciliare il sonno, dopo pranzo.

dimmi perché

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Di ritorno dal paesello, che poi paesello non è per numero di abitanti, ma che è peggio per molti altri motivi ai quali, prima o poi, dedicherò un intero capitolo di scritti ma che ora tengo in stand by. Un posto per raggiungere il quale, se sbagli orario, puoi anche viaggiare alla media di venti all’ora per 200 chilometri, partendo da qui. E quando pensi di essere arrivato, c’è l’ultimo pezzo di strada litoranea in cui la coda è ferma, perché c’è anche il traffico locale. E quando hai superato quello che speravi fosse l’ultimo livello ecco la vera sfida finale, il parcheggio, perché oltre il traffico locale ci sono gli abitanti che usano l’auto anche per muoversi di un paio di isolati. E i parcheggi che lasciano per muoversi di un paio di isolati sono presi immediatamente dal traffico locale che era pronto, lì, in seconda fila. Per i ritardatari solo giri a vuoto. Poi tutti in marcia, con l’asciugamano sulla spalla, per fare il bagno con le navi mercantili che ti fanno ciao ciao al largo. E ogni volta mi chiedo il perché di tutto questo. Perché si sopporti la coda e un’accoglienza tra le peggiori del mondo per stendersi sul terriccio spacciato per sabbia, i più benestanti anche pagando profumatamente l’ingresso in stabilimenti con concessioni scandalose, per vedersi le navi mercantili che ti fanno ciao ciao davanti. Io ho deciso che non voglio fare più il bagno lì, e già ho smesso, e che non voglio andare mai più, a questo ci sto lavorando. Intanto preparo il libro dei perché. Ho già pronta la copertina.