Quante volte capita di rovinarsi il weekend con uno strappo, una storta, mangi o bevi troppo e non c’è niente che ti possa rimettere in sesto dall’emicrania. Vai a sciare e ti spatasci contro uno snowboarder scavezzacollo. Ti dimentichi talmente tanto del tuo ruolo manageriale che qualche virus si impadronisce del tuo intestino. Mio papà si intristiva molto soprattutto nei casi limite, quando rientri da una gitarella fuori porta con la famigliola e vedi qualcuno che si è stampato sulla strada e pensi che, in effetti, un’indigestione tutto sommato è il meno peggio. Anche a me è andata di lusso. Ieri ho passato il pomeriggio al pronto soccorso perché mi si è conficcato il riff di chitarra di “Libera nos a malo” di Ligabue in un piede. Non sapete quanto detesti il cantante emiliano, forse per questo che mi ha fatto infezione. Camminavo scalzo in un parco e qualche comitiva di persone dai gusti discutibili deve averla cantata in coro, con l’accompagnamento di una chitarra acustica suonata però dal solista di una delle ennemila tribute band che infestano il paese. Vi ricordate l’alone viola dello spot sull’AIDS? Ti pungevi con un ago infettato e senza bisogno di Instagram ti prendevi un filtro da cui non c’era verso di tornare indietro. Ecco. Ho calpestato il riff di chitarra di “Libera nos a malo” di Ligabue e ho iniziato a cantarmela e ricantarmela nella testa. Mio nonno catturava le vipere nelle pietraie per venderle al farmacista del paese da cui poi si ricavava l’antidoto per il veleno. Con lo stesso obiettivo sarebbe il caso che qualcuno si prendesse la briga di raccogliere i residui di musica elementare da terra, anche se l’ideale sarebbe che nessuno lasciasse incustodite le hit banali ma, finiti i propri porci comodi con Vasco e quelle robe lì da scampagnata, pulisse tutto. Comunque poi è finita bene, la medicina ha fatto progressi ed è bastata una playlist di quelle che dico io per limitare la diffusione dell’infezione. Lanciamo comunque una campagna contro i riff che se ti prendono poi non te li togli più di dosso perché è vero che ci sono quelli piacevoli ma, come sapete, la madre dei negozianti che vendono chitarre elettriche a gente del calibro di Ligabue è sempre incinta.
ligabue
ordine e fattori
StandardLeggo del Tenco assegnato a Ligabue e penso che poteva andare peggio, con il Ligabue assegnato a Tenco.
un po’ di cose a casacci
StandardAvere un gruppo rock, in Italia, è quasi più complicato che organizzarsi in un partito politico. (Apro una parentesi: rock in senso lato, diciamo dai Negramaro – esclusi – in giù. Focalizziamoci più sul termine “gruppo” che sul genere. Chiudo la parentesi). Non mi credete? Ah no? La prima similitudine che mi viene in mente, a proposito, riguarda la fatica con cui si dilapidano energie nel trovare leader carismatici per riportare i cittadini alle urne, quando sarebbe molto più semplice e immediato (nonché intellettualmente onesto) proporre un programma, tot punti e obiettivi da raggiungere, e poi chi se ne importa di chi c’è in parlamento a seguirne il compimento. Invece no. Dobbiamo fare primarie, trovare quello che sa comunicare bene, quello che piace tanto alla casalinga di Voghera quanto al cassaintegrato di Pomigliano eccetera eccetera. Un ticket, come si dice, o un un team di attuazione sarebbe difficile da sintetizzare per essere portato efficacemente al pubblico elettorale italiano.
Nel rock non avviene la stessa cosa? Chi siede da almeno due decenni sugli scranni più alti dell’olimpo del rock nazionale, se non due uomini forti – mi riferisco a Vasco e Ligabue -, mentre ai gruppi rimangono solo le briciole? Che poi, detto tra noi, altro non sono che due tradizionalissimi cantautori, ora attempati, che hanno condito i loro brani con riff di chitarra elettrica. Voglio dire, non è che ci siamo così tanto evoluti dal songwriting specifico nostro, ammesso di considerare l’evoluzione un processo positivo. E quando parlo di gruppo rock non è che mi riferisco ai Pooh, per carità. Ora, non dico i Beatles, ma almeno un omologo di band come, che so, i REM, giusto i primi che mi vengono in mente. Niente. I gruppi rock, in Italia, si formano, magari iniziano ad avere successo e poi il cantante lascia la band per la più fruttuosa carriera solista, magari infilandoci – per arrotondare – l’attività di giudice nei reality musicali. Oppure, vedi che fai tutto tu, testi e musica e arrangiamenti, e allora che senso ha tenerti zavorre di strumentisti fissi quando, a chiamata, puoi risparmiare con i turnisti che più si addicono al momento, liberandoti così anche dai vincoli compositivi. Anche i duo si separano perché litigano, figuriamoci band di quattro o più elementi.
Non solo. I gruppi rock devono fare i conti anche il forte handicap linguistico. L’italiano sta al rock come il tedesco sta alle ninne-nanne. Ecco, forse da questo punto di vista solo i tedeschi stanno messi peggio di noi. Perché gli inglesi hanno quella bella lingua sintetica, verbi monosillabici e una marea di preposizioni per significati all’infinito, parole tronche contro i nostri mostri bisdruccioli. Questo costituisce un annoso problema per i gruppi di base, quelli underground. Cantare in inglese o in italiano? Usare la logica del “the cat is on the table” così nessuno riesce a capire che non ho nulla da comunicare, o azzardare la stesura di liriche quindi mettendo me stesso in gioco sotto due punti di vista, quello di musicista e quello di paroliere? Ragazzi, il rock è anche questo. E poi, c’è bisogno di cambiare accordo ogni battuta? E di pronunciare le consonanti per forza come Bowie? No, non ci siamo. Fare rock è davvero difficile, e farlo in gruppo, anche se divertente, alla lunga è frustrante.
Arrivo al punto (era ora!), il pippotto che avete letto fin qui non è fine a se stesso. C’è un ma. Che è un gruppo, italiano, di cinque elementi, in attività dal 1996 o giù di lì. Una band alla quale sono affezionato, li ho visti nascere, crescere, ho assistito a uno dei loro primi concerti (se non il primo in assoluto, almeno fuori dalla loro città di origine). Si sono formati dallo spin off di uno dei principali collettivi reggae italiani, oserei dire l’unico: il chitarrista, che è poi la mente della band in questione, decise di voltare pagina. Un istrionico cantante con cui suonavo, ai tempi, si stava facendo produrre alcuni brani dal chitarrista di cui sopra, affiancato in studio da un geniale tastierista malato di synth e di macchine automatiche. Oltreché di idee e creatività. L’istrionico cantante mi mise al corrente del nuovo progetto del chitarrista di cui sopra con il geniale tastierista, e già il nome mi incuriosì. Da allora, da quando ho iniziato a seguirli, hanno pubblicato 6 dischi e hanno fatto una marea di concerti: pur avendo un sound ricercato con un intensivo quanto appropriato uso dell’elettronica, il live resta la loro dimensione più immediata, grazie al frontman, simpatico-carino-intelligente-piùomenointonato, e all’impatto sul pubblico. Il pubblico è un altro elemento fondamentale della loro storia, e non solo perché comprano o scaricano la loro musica. Il rapporto coi fan, nato sotto il palco, è stato per tutti questi anni coltivato sul web, un diario di bordo curato con una costanza encomiabile, roba che nemmeno Beppe Grillo. Si tratta di uno spazio dove poi, alla fine e come su tutti i blog (tranne questo) si interviene a parlare di tutto. Non mancano le critiche, e se avete ascoltato l’ultimo loro CD, uscito qualche giorno fa, ai malumori di un pubblico abituato ad essere sempre servito e riverito hanno dedicato pure un brano. Il pubblico, dicevo. Mi ha sempre colpito la trasversalità degli ascoltatori che hanno, un obiettivo raggiunto grazie alla potenziale ubiquità delle loro canzoni, che possono passare a Sanremo come su Radio Popolare, a radio Italia come su radio Deejay. Un po’ rock, un po’ club culture, un pizzico di reggae, canzone d’autore, echi degli anni ’80, big beat, pop, insomma, un po’ di tutto. I ruoli stessi nella formazione, poi, sono uno spaccato di eterogeneità: c’è il figo, l’intellettuale, il leader, quello un po’ tamarro e il nerd. E i testi, pur non immediati come quelli di Vasco e Liga, sono accessibili e fluidi, diretti ma poetici, un mix di linguaggio di strada e citazioni colte.
Ma, lo sapete meglio di me, il mercato del rock, in Italia è quello che è, e le due presenze ingombranti a cui ho fatto riferimento lo occupano ormai da troppo. I numeri della band in questione, in termini di vendita di dischi e biglietti, non sono paragonabili a quelli di Vasco e Liga. Fino ad oggi sono stati ampiamente sottovalutati, considerati di nicchia (una nicchia da un sold-out e mezzo al Forum di Assago), osteggiati dai duri e puri perché commerciali e allo stesso tempo bollati come alternativi e scomodi dai giovani assuefatti dal morbo veltroniano, altre volte identificati nei gruppi demagorock da concertone del Primo Maggio, più comunemente ritenuti troppo difficili da associare ad una categoria di itunes da chi mastica il pop più melenso. In un paese di loquaci critici musicali e recensori iconoclasti secondo quantità e convenienza, i Subsonica avranno una vera e meritata fama solo intorno ai 55/60 anni. Ma non c’è da preoccuparsi: guardate Little Tony, è ancora il ragazzo col ciuffo di una volta.
p.s. non credete a chi sostiene che Eden non vale una cicca: è un gran bel disco, fidatevi.
“Rock’n’Roll è partecipazione” (G.Gaber).