Probabilmente non è l’unico, nel senso che non è universale, non è un elemento chimico, e sono sicuro che ogni epoca ne ha avuto uno in particolare. Il lubrificante con cui si puliscono le armi e la polvere da sparo, andate a chiederlo a chi ha dovuto combattere. Ma senza fare paragoni imparagonabili, c’è anche l’essenza dell’emancipazione e persino l’aroma dell’hashish. Ma è anche un fattore personale, ognuno ha il suo e così vi piaccia o no ma per me il vero profumo della libertà è la pittura sui muri, quando si vede che non è più fresca ma si sta asciugando ed è primavera inoltrata e ci sono le finestre aperte per far entrare il sole e farla asciugare ancora più in fretta. Magari poi sono muri spessi perché portanti e di edifici del secolo scorso o ancora più vecchi. Comunque la vernice, in questo mio quadretto sinestesico o multi-sensoriale, è bianca e abbaglia quasi per il sole che ci si riflette, in attesa che le pareti accolgano i mobili rigorosamente di risulta lungo stanze che quando sono ancora vuote sono tutte da ispezionare. Con un sedia provvisoria è bello provare a sedersi ovunque nell’appartamento deserto e immaginarsi i punti che poi saranno quelli dove troveranno posto il divano, le poltrone, i cuscini da terra e tutto quello che serve per adoperarsi nel fare le cose che si fanno da fermo. Leggere, ascoltare i dischi, conversare con gli ospiti, guardare nel silenzio. E negli angoli, in cui convergono più pareti, l’odore dell’imbiancatura trasuda qualche anticipo della vita che si consumerà lì dentro. Con il freddo, con il sole dell’estate, con le attese della stagione successiva e la malinconia di quelle appena trascorse. La libertà ha anche un suo rumore, lo sapevate? Per sentirlo però dovete uscire dalla vostra casa nuova, appena fresca di vernice e di contratto di affitto. Dovete salire su un treno di quelli un po’ da gente povera, e badate che non so nemmeno se ce ne siano ancora. Sono i treni senza aria condizionata, che quando si riempiono di viaggiatori o quando fa caldo si tira giù il finestrino. La corsa del treno, fuori dalla città o in riva al mare o nella campagna dubbia (la campagna dubbia è quella che non sai bene se sia periferia vittima dell’incuria o reale natura incontaminata dall’urbanizzazione) con il fracasso dei finestrini aperti, dai quali è rigorosamente vietato gettare oggetti, per me è il vero suono della libertà, un tumulto assordante con le tendine che volano e i passeggeri che urlano per farsi sentire dagli altri ma alla fine si vede che è un modo per sincerarsi che è vero, sta succedendo realmente a tutti quanti e non c’è niente che possa fermare il viaggio.
libertà
three at least, free at last
StandardTre storie di richieste di libertà, di denuncia, di riscatto. La prima è di Linton Kwesi Johnson, che chiedeva la liberazione di George Lindo:
La seconda è degli Specials, che cantavano contro l’arresto di Nelson Mandela nel modo più gioioso possibile:
La terza è degli Asian Dub Foundation ancora con Deeder, che volevano libertà per Satpal Ram:
e lo so che per prevenire i commenti di chi so io dovrei fare un cenno a “free anche mio cugggino”.
Piuttosto, semmai, Liberi tutti.
le famiglie degli altri
StandardOggi, l’ultimo giorno di seconda elementare di mia figlia, mi vede reduce un po’ affaticato da un trittico di romanzi su saghe famigliari made in USA. Un totale di 1500 pagine circa, a quantificare la letteratura al chilo, per un viaggio nelle vicende altrui iniziato con Pastorale americana di Roth, da cui sono approdato a Libertà di Franzen per arrivare al meno conosciuto, ma non meno intenso (una qualità della narrativa la cui accezione non sempre è positiva) La condizione, di Jennifer Haigh. La sensazione è quella di aver passato tanto tempo fuori casa, almeno un paio di mesi, immerso in drammi e soluzioni degli stessi in un viaggio su una limousine narrativa (brillante e appropriata metafora di Ipazia sognatrice), comunque scomoda e affaticante sulle lunghe distanze.
Ieri, mi si permetta un finalmente, ho chiuso l’ultimo capitolo di questo tour letterario peraltro casuale – leggo i libri a seconda di quando scatta il mio turno nelle prenotazioni in biblioteca – seduto nella platea di un teatro comunale, pronto a gustarmi il piccolo saggio conclusivo di un laboratorio teatrale organizzato per le tre classi seconde dell’istituto scolastico in cui è iscritta mia figlia. La sala era gremita di nuclei famigliari, ciascuno con le proprie trame da romanzo, tragiche o grottesche, molto spesso a lieto fine. Genitori separati e supporter fino al terzo grado di parentela, padri dal passato burrascoso e madri lavoratrici tuttofare multipresenti.
E un padre, lì in mezzo, accaldato in giacca e camicia, che prima che si spegnessero le luci ripensava a una mattina di molti molti anni prima in cui, con un grembiule nero e un fiocco blu, aspettava irrequieto che la mamma finisse di pettinarlo per andare a scuola, era il giorno dell’esame che un tempo i bimbi sostenevano al termine del primo biennio delle elementari. “Come sei cresciuto, hai già finito la seconda” disse quella mamma, oggi nonna settantaquattrenne, co-protagonista di una saga famigliare dai risvolti tragici e grotteschi che difficilmente sarà a lieto fine. Si è compiuto un ciclo, se ne compirà un altro.
non è neanche avere un’opinione
StandardIeri sera alle 00.30 circa, ho terminato la seicentoventesima o giù di lì pagina di Libertà di Jonathan Franzen. Quella con il timbro della biblioteca, che sancisce la fine dei tempi regolamentari. Poi via con i tempi supplementari, a muovere tutti gli ipercalorici contenuti di cui mi sono nutrito durante le ultime settimane giù, dalla testa verso la pancia, e capire che c’è ben poco da dire; è un romanzo in sé, c’è tutto. Tutte le famiglie del mondo, tutti i genitori, tutti i figli, gli amici, i fratelli e le sorelle, le amanti, le case. Persino i gatti, a discapito degli uccelli. C’è la città per antonomasia, e c’è la natura che è un po’ la metafora stessa del modo in cui è bene leggere questa storia, alla cui conclusione – quella che Franzen prepara per un capitolo intero – si arriva dopo sentieri in piano, quelli che in costa sovrastano vallate e ampie visuali, e gli angusti passaggi in conifere fitte, a schivare rami pungenti che ti lasciano comunque il graffio sulle braccia. Pur di una tacca sotto Le correzioni, è complessivamente più maturo e più completo del suo fratello maggiore. Un romanzo con cui altro non si può fare che leggerlo, consumarlo, e appiccicargli addosso cinque stelle, “as is”.
se la tv on demand non rispond
StandardVolevo scrivere qualche considerazione su Jonathan Franzen, il nuovo romanzo “Libertà” (ho solo 6 prenotazioni in biblioteca prima della mia, un totale ad oggi di 38, il momento della lettura si avvicina), di quanto ho apprezzato “Le correzioni” e “Forte movimento”, di quanto mi coinvolga la sua scrittura. Volevo approfittare di alcuni spunti emersi durante l’intervista all’autore sabato scorso a “Che tempo che fa”, particolari che avevo notato anche io nelle sue opere precedenti tanto quanto la persona seduta nella metà sinistra dello schermo. Volevo sottolineare qualche collegamento, qualcosa che mi sembrava intelligente. E per pubblicare un post completo di fonti e richiami, ma anche per controllare che quanto avevo sentito durante la trasmissione fosse davvero quello che ricordavo, passaggi che avevo pensato di lasciar decantare per non scrivere mosso dall’entusiasmo, a caldo, sono andato su youtube a cercare l’intervista. Toh, non è stata ancora pubblicata (ultimo aggiornamento: le 19.29 del 23/03). Il che è curioso: Santoro, Littizzetto, Travaglio e altri fenomeni televisivi sono disponibili già a pochi minuti dalla fine dei loro interventi. Peccato che uno dei più noti e bravi (e anche un po’ di moda, diciamolo, ma, come si dice da queste parti, in sci veghen) scrittori contemporanei non sia altrettanto oggetto di culto (mi direte: perché, se ci tieni tanto, non lo metti on line tu?).
Vabbè, poco male, vado sul sito della RAI, sicuramente lo trovo lì. La prima volta, mi viene chiesto di scaricare Microsoft Silverlight, che, a dir la verità, non so nemmeno se si tratti di un plug in o che altro. Ma tale è il desiderio di rivedere Franzen, di non lasciarmi scappare le cose che vorrei scrivere che clicco il consenso all’installazione senza pensarci su, qualsiasi cosa sia. Magari è uno spyware di Microsoft che serve a identificare programmi craccati. Sono fritto. Speriamo di no.
Poi però metto a fuoco il nocciolo della questione: il fatto che un portale come quello della RAI utilizzi una tecnologia di streaming differente da Youtube, che, per quanto ne so io, è la più comoda e funziona con qualsiasi sistema operativo e qualunque browser. Da sempre ho il mito dell’integrazione, dell’interoperabilità tra ambienti e dell’utilizzo di sistemi standard, il tutto favorito dall’uso del protocollo IP. E penso anche che il servizio di web TV on demand di una emittente prestigiosa e autorevole come dovrebbe essere l’emittente pubblica italiana utilizza piattaforme non immediate e poco comuni, il che non depone a suo favore.
Non fa nulla. Installato Silverlight, chiudo Firefox, lo riavvio, torno al link. Parte la pubblicità, 14 secondi al contenuto scelto. Bene. Silverlight funziona. Poi l’animazione del loading. Bene. Poi il buio. Il nulla. Ci riprovo, pensando nel frattempo, per non perdere l’ispirazione preziosa, a come organizzare le cose da scrivere. Chiudo Firefox, lo riavvio, torno al link. Altra pubblicità, questa volta solo 9 secondi. Ok. Poi ancora l’animazione. Poi un avviso: “Riconnessione al server in corso”. Ed ecco, finalmente, il video tanto agognato.
Ops. Contenuto non disponibile. Ma no. Sarà un problema di sovraccarico. Sarà il mio PC. Sarà Firefox. Sarà per la prossima puntata.
p.s. forse era destino, le cose che volevo scrivere su Franzen, e che nel frattempo ho dimenticato, non erano così interessanti. Magari mi verrà in mente qualcosa una volta finito “Libertà”. E lo so, il titolo di questo post non è granché.