il guerrilla reading riflette esattamente l’idea che chi non legge ha di chi legge

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Ho esercitato il mio diritto a leggere a voce alta in pubblico solo una volta, durante un viaggio in traghetto verso la Sardegna. Bivaccavo su un materassino gonfiabile fiero del mio passaggio ponte, in compagnia di altre centinaia di viaggiatori senza cabina, e sapete come funziona quando si stanzia in tanti nello stesso posto. Se tutti parlano a voce alta, telefonano, non si premurano di imporre ai figli di fare meno baccano, quel posto diventa un inferno. Per farla breve, una piccola comitiva di gente di mezza età ma in piena adolescentizzazione e euforia da ferie da single discorreva con un tono inappropriato per l’ambiente, proprio mentre ero alle battute finali di non ricordo che libro (sicuramente un autore USA). Così, mi sono detto, perché non leggere ad alta voce? Forse i passaggi di quel libro hanno meno dignità delle loro chiacchiere?, mi sono chiesto. E il messaggio è passato. La comitiva di supergiovani, sbalordita e distratta riguardo all’argomento della loro conversazione dal mio comportamento, dopo qualche minuto ha desistito, preferendo quattro passi sul ponte scoperto a godersi le sigarette controvento e i battibecchi tra i cani costretti ad altrettanta socializzazione forzata.

Si tratta, ovviamente, di un caso limite, una rivalsa, il tentativo di riappropriarsi di un diritto non dico al silenzio ma al rispetto altrui. Ora, non so se avete letto questo articolo e, come vi è scritto, davvero provate a immaginare di “salire sul tram e che a un certo punto la vostra insospettabile vicina di posto inizi a leggere ad alta voce un brano del libro che ha in mano. E, finito lei, che inizi a leggere il tizio lì in piedi davanti a voi e poi una signora là in mezzo e così via”, con l’obbiettivo di farvi “alzare gli occhi dai telefoni cellulari e a catturare l’attenzione con delle pillole di letteratura scelta”.

Da lettore compulsivo e pendolare senior e certificato – uso mezzi pubblici per recarmi a destinazione quotidiana dal 1986 – vi dico che il guerrilla reading riflette esattamente l’idea che chi non legge ha di chi legge. Gente boriosa che si sente superiore solo perché tiene un libro, possibilmente tradizionale e cartaceo, in mano. Che poi è proprio così, ne sono fermamente convinto e guai a chi sostiene il contrario. Solo che credo non sia questo il modo per far pesare in modo appropriato, a chi non legge, il fatto di essere degli ignoranti, gretti e zoticoni affetti da pigrizia mentale e schiavitù digitale. Ci sono biblioteche pubbliche che attirano con varie iniziative l’ampia fetta di popolazione che non è loro utente, e che probabilmente coincide con chi non legge, per poi infondere in loro il germe della lettura passando da altre vie e prendendola alla larga rispetto a sbattergli in faccia quel che meritano.

Noi lettori siamo superiori a voi non-lettori, a meno che siate non-lettori ma lettori del mio blog e quindi, considerando che state dando credito a un aspirante scrittore americano, va bene lo stesso, ma ci vuole tatto nel mettere i non-lettori di fronte alla responsabilità del collasso della società come la conosciamo e della quale abbiamo appreso la conformazione proprio leggendo dei romanzi su cui c’era spiegato per filo e per segno, oppure raccontato tramite storie esemplificative, quello che siamo. E lo so che ai tempi dell’Internet ci sono diverse forme di lettura, ma – e ne abbiamo già parlato – quella di battute da due righe per volta postate dal vostro vicino di casa, a meno che il vostro vicino di casa non sia un autore affermato o Umberto Eco, non rientra in questa disciplina.

Ma c’è una seconda lettura, non necessariamente a voce alta, di questa iniziativa. Potremmo infatti tentare un diverso tipo di esperimento per esorcizzare la fobia di qualunque flash-mob o sentinellismo in piedi che sia che hanno certe persone, me in primis. Assistere a una qualunque performance fuori contesto, malgrado mi auto-annoveri tra le file dei situazionisti radicali, mi fa letteralmente sbarellare. Non vi nascondo che, se mi fossi trovato accerchiato da reading-guerriglieri, avrei afferrato armi e bagagli e sarei saltato giù dal tram. Così ho pensato che potremmo ingaggiare qualche lettore arabo e chiedergli di fare altrettanto mettendosi a leggere, nella sua lingua madre, qualcosa a voce alta, su un mezzo pubblico gremito di persone, e poi vedere che succede.

morti di saghe

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Diceva Desmond Reel che il problema di avere un libro in testa e non scriverlo è che ogni libro che leggi ti viene la voglia di scriverlo nello stile che usa lo scrittore che stai leggendo, questo ovviamente al netto dei Problemi con la P di Problemi maiuscola e con la M di Maiuscola maiuscola, che sono:
1) lo stress di voler a tutti i costi scrivere un libro e di non riuscirci
2) lo stress di dover scrivere un libro se uno non ci riesce
3) lo stress di pensare a cosa inventarsi a quelli che ti chiedono come mai a tot inverni – nel caso di Desmond cinquantaquattro – non hai ancora scritto il libro con le capacità che hai, tenendo conto che non c’è nessun motivo per cui uno dovrebbe mettersi fare lo scrittore perché in giro si dice che hai tutte le carte in regola. Rido perché il correttore mi aveva cambiato il testo in tutte le carie in regola, che – non so se avete mai visto una foto di Desmond – potrebbe essere ancora più veritiero.

Comunque questa cosa degli stili narrativi che cambiano non è male perché ti mette alla prova. Se vi affacciate alla finestra del villaggio globale (oggi sono in vena di locuzioni desuete) noterete che il pubblico che legge è composto per lo più da ragazzini che vogliono immergersi nella distopia fantasy più della nutella, per non dire del sesso. La narrativa per giovani adulti è più redditizia della narrativa per adulti che fanno i giovani, considerando che gli adulti che fanno i giovani sono tutti su Facebook a darsi il buongiornissimo. Il problema è che morire di saghe (bella questa, eh?) è un destino a cui gli autori non sempre sono pronti a immolarsi. Perché poi scervellarsi con queste epopee nel futuro anteriore che durano decine di volumi intrisi di sangue, vampiri, gente con poteri soprannaturali, licantropi e in generale realtà aumentata quando quella che viviamo ogni giorno è già abbastanza extralarge? Comunque lasciate perdere i noir: se volete vivere delle vostre parole scritte buttatevi negli epigoni di Divergent, Hunger Games e roba emo del genere.

Io invece – lo dice il mio blog stesso – sento l’influenza tendente al plagio degli scrittori americani che divoro e se non fosse che ci sono i traduttori di mezzo vorrei davvero mettermi alla prova tanto quanto Desmond Reel che, se avete provato a cercare in rete, è un autore inventato di sana pianta ma sapete, il confine tra la vita e la fiction su Internet e sui blog è sempre aleatorio. Per scrivere – anche sciocchezze come quelle che scrivo io – purtroppo non è sufficiente leggere in maniera compulsiva in modo da esser talmente pieni di parole da avere il rigurgito e riempire le pagine con quello.

intervieni numeroso

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Organizzare un reading in orario mattutino è un’idea vincente perché quando il pubblico è sveglio da poco tutti hanno quella faccia come se fossero sorpresi di essere ancora vivi e lo manifestano nei modi più disperati, avete letto bene e non è un refuso. Disparati è una parola che uso raramente, piuttosto scrivo diversi, mentre lo sconforto ha tutta una sua gamma di condivisione con il prossimo. Uno scrittore può decidere quindi l’uso strumentale di questo stato d’animo pre-lavorativo altrui a proprio piacimento perché c’è chi si alza e va a correre con il buio facendo lo slalom tra i mezzi per la pulizia delle strade e i camion della rumenta, chi si cimenta nel soffritto all’alba per portarsi una schiscetta dignitosa e su misura con i gatti che tentano gli assalti ai fornelli completamente frastornati dall’odore anomalo per le sei del mattino, e chi – guarda un po’ – si immola alla cultura e accetta i miei eccentrici inviti.

[A questo punto lo scrittore pensa di adattare il post a cui sta lavorando in forma di sceneggiatura di soap opera, quindi aggiungendo i dettagli di ogni scena in modo che, oltre ai dialoghi e ai pensieri dei protagonisti, anche un’eventuale regia possa comprendere al meglio le riprese da utilizzare contestualmente.]

Lo scrittore scende dal palco improvvisato con due tavolacci di compensato su un pallet e si avvia a confrontarsi e a ringraziare i tre o quattro lettori fidelizzati che sono intervenuti al reading, dimostrando un’abnegazione addirittura superflua se non fuori luogo che, in parte, lo mette a disagio. Sugli altri spiccano Katia che è arrivata con un treno locale da un paese dell’Emilia, Miss Fletcher, una nota blogger che con il suo lavoro di ricerca sta mettendo a lustro Genova, e persino l’amico scrittore Speakermuto, di cui si erano perse le tracce. L’autore cerca di dare almeno a loro una giustificazione attendibile su alcune scelte discutibili riguardo alla conduzione del reading appena concluso.

– Spero almeno abbiate apprezzato la formula: leggere tante volte lo stesso racconto è meglio che sceglierne tanti se non troppi che poi nessuno se li ricorda.

[Da qui invece, consapevole che sta facendo casino, riprende a scrivere come sempre]

Il pezzo scelto dall’autore è il vecchio post dell’Alberto che è fuori come un balcone e va ad attendere l’arrivo dei suoi genitori nello stesso punto dove li aspettava da piccolo, un racconto che ha una sua morale che è che bisogna fare i figli solo se uno è pronto a cedere il primato nella sua vita a loro. Passare il testimone. Che poi è anche uno dei miei paradigmi genitoriali anche se dubito che queste cose che scrivo lo trasmettano. Per il prossimo reading pensavo a quest’altro, leggetelo anche voi così verrete belli preparati.

La manciata di spettatori rimasti a congratularsi con l’autore si avvia a cominciare la propria giornata produttiva. Ci sono le solite due impiegate che lavorano nel palazzo di fronte al mio ufficio, non so come abbiano fatto a sapere dell’iniziativa ma comunque meglio così, sento che discutono su qualcosa inerente la perdita della propria libertà in un contesto in cui poi ti chiudi otto ore a svolgere il lavoro di contabile o anche un mestiere apparentemente più creativo, come il grafico pubblicitario, un nome altisonante per una professione che forse non esiste nemmeno più.

l'importanza della lettura

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Passare il tempo a leggere non è fruttuoso e non favorisce il business, mentre ascoltare gli altri parlare può generare opportunità di profitto anche sotto il profilo personale e sentimentale, perché no, ma il fatto che non leggiate mi interessa solo perché se leggete almeno state zitti e non vi sento dire stupidaggini. Ciao.

A

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D’altronde perché la gente dovrebbe leggere i blog se non legge più né i quotidiani tantomeno i libri? Secondo le conversazioni intercettate sui mezzi o in ambienti pubblici o comunque dove le persone hanno occasione di incontrarsi e interagire, oggi la lettura che va per la maggiore è quella degli status altrui di Facebook, delle freddure con cui si commentano eventi e notizie del giorno e dei tweet di questo o quel personaggio famoso. Il dramma è che su questi contenuti si fanno appunto anche i dibattiti e le discussioni, se ne parla insomma, come un tempo si faceva sull’ultimo film visto o l’ultimo libro pubblicato. “Hai mai letto qualcosa di @Flaviaventosole?” sentiamo chiedere. “No, ma ti consiglio l’aggiornamento di status di #GianniMorandi dell’altro ieri, mi ha piacevolmente sorpreso”, sentiamo rispondere. Oppure “Cosa posso regalare a mia moglie per Natale?”, sentiamo domandare. “Prova a vedere se sulla pagina Facebook del Milanese Imbruttito c’è qualcosa di carino”, sentiamo suggerire. Con questo non voglio dire che i flussi di coscienza di emeriti sconosciuti come il sottoscritto possano compararsi in termini di tempo speso bene con l’ultimo romanzo di un DeLillo, per dire, ma avrete capito anche voi che l’analfabetismo di ritorno del genere umano e la crescente diffusione dell’incapacità di comprendere testi di senso compiuto si sposa perfettamente con la tendenza a preferire contenuti sempre più brevi, in cui l’attenzione si può mantenere facilmente dall’inizio alla fine. Verrà il giorno, quindi, in cui semplificheremo sempre di più il nostro codice comunicativo perché avremo sempre meno esigenze di dettagliare il nostro pensiero e, all’altro capo del messaggio, ci sarà sempre meno capacità di comprensione, per non dire intelligenza ma è un termine che non ho usato apposta perché, come sapete, di intelligenza ce ne sono vari tipi e non è detto che in futuro l’accezione che intendiamo sia ancora utile a qualcosa. Accorceremo sempre di più il numero di caratteri nelle conversazioni e nelle letture fino quando per lettere, davvero, anziché intendere la letteratura e gli studi umanistici, si intenderanno solo le lettere dell’alfabeto e ci esprimerà così. B. Z. F. Q. Pensate quindi a come è stato profetico Francesco Salvi, un vero intellettuale di altri tempi, che ha saputo non solo trovare la sintesi ma ridurre tutto ai minimi termini, concentrando un’intera canzone in una sola lettera dell’alfabeto, la prima, fin troppo capiente per contenere un significato così complesso.

il peso della narrativa e la leggerezza dell’essere

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A differenza dei nativi digitali e degli invecchiati analogici, io che sono uno zoticone ignorante degno rappresentante dei cresciuti catodici ho avuto poca dimestichezza da ragazzo con la lettura, trascurata rispetto a media tiepidi come i fumetti, più caldi come dischi e musicassette, se non roventi come, appunto, la tv. Quindi almeno fino ai venti anni abbondanti mi sono dedicato più che altro alla narrativa che il palinsesto educativo imponeva, mi riferisco doveri scolastici che portavo a compimento solo per meri fini valutativi. Così uno dei primi libri che ho letto di mia volontà è stato “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, ma solo perché era un best seller, una moda molto anni ottanta, insomma. L’antesignano di tanti successi letterari paragonabili alle code per l’iPhone 6 e, come sovente accade, ampiamente sopravvalutato e obbrobriosamente commerciale.

Ma, giudizi sommari a parte, lego solo al libro di Milan Kundera la prima sensazione provata di una sterile trama che si consuma muovendo il peso del supporto cartaceo non rilegato dalla parte destra, pagina dopo pagina, verso la parte sinistra. Gli spessori dell’una e dell’altra che variano in misura inversamente proporzionale man mano che si avvicina la fine e la lettura, in tutto questo, come una cosa a sé, un ambiente in cui uno abituato a ben altre più pigre esperienze – come ero io ai tempi – riesce a muoversi solo tenendosi ben stretto a una balaustra a ridosso della narrazione, un supporto utile a darsi lo slancio per fuggire, alla minima distrazione, da questa parte del libro.

Ma la cosa sorprendente consiste nella sorpresa finale, la quarta di copertina che mi ha indotto a una riflessione a grandi linee riassumibile in una sola domanda: e ora che me ne faccio? Perché la finalità dei Pavese, dei Pirandello e di un Manzoni stesso appresi perché parte di un programma di studi fornivano comunque una serie di crediti fittizi per ottenere il pass finale al futuro, una sorta di raccolta di bollini per un’offerta speciale di opportunità professionali successive. Ma quell’Adelphi azzurro acquistato e passato in rassegna perché “usava”, che cosa ha lasciato a parte lo sforzo di portarlo a termine e l’illustrazione della nudità femminile in copertina? E voi, qual è stato il primo libro – narrativa per ragazzi a parte, perché ha avuto più influenza “I ragazzi della via Pal” nella mia vita che qualsiasi altra opera letteraria – che avete scelto di leggere in autonomia, al di fuori dalla lista dei suggerimenti della prof. di Italiano? E che cosa vi ha lasciato?

e voi, quali preferite?

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Ci sono le storie che terminano almeno dieci pagine prima della fine del libro, a cui segue un capitolo conclusivo che fa un po’ il punto della situazione, qualche anticipazione su quello che potrà succedere, magari un co-protagonista descritto nella sua vita dieci anni dopo, cose così. Questo finale diluito serve ad attutire il trauma del silenzio che segue quando dai l’ultima occhiata alla quarta di copertina e trai le tue, di conclusioni, ti senti scendere la vicenda giù come una bevanda calda quando fa freddo o viceversa, insomma senti tutto quel bolo di sensazioni che attecchiscono al tuo corpo come le sostanze che ti fanno ingrassare di più, solo che qui questo processo di assimilazione è in generale più piacevole anche se gli stati d’animo sono contraddittori. Perché, per esempio, passare il tempo a sentire le voci di altri su tematiche che già ci capovolgono con la loro carica deflagrante. Un po’ masochistico, ma siamo fatti così, che ci vuoi fare. E non è molto diverso quando il romanzo si chiude proprio con l’ultima parola, quella semi-coperta dal timbro della biblioteca, ma è troppo destabilizzante per i soggetti che soffrono di vertigine. Perché è un po’ come accompagnare il lettore su per le scale di uno di quei grattacieli in costruzione che si vedevano nelle comiche e nei cartoni. L’autore ti fa salire su, più su, più su ancora fino quando resta solo l’anima in ferro dell’edificio, gli ultimi piani da terminare, e proprio sulla soglia del punto più alto e più sporgente ti fa ciao ciao con la manina e si butta giù perché tanto ha un paracadute e poi comunque si tratta di una metafora quella lì, quindi tutto il resto non esiste se non la tua stabilità su quel pennone sporgente sul vuoto ed è un’impresa tornare indietro e salvarsi. Mica siamo tutti come gli operai carpentieri acrobati di quella celebre foto che fanno colazione sul niente. Se ne deduce che le migliori sono le trame che non si concludono, quei segmenti di vita altrui tagliati da un momento A a un momento B ed estratti dal loro contesto per la gioia di chi legge alla stregua di aprire la finestra e vedere quel che accade in strada. Personaggi che non sai da dove vengono né dove finiranno i loro giorni, perché terminato il tuo contributo voyeuristico rimetti quel blocco di materia narrativa al suo posto, in modo che la pagina uno e l’ultima coincidano perfettamente con un qualcosa prima e un qualcosa dopo che noi non potremo mai sapere. Proprio come riporre il libro al suo posto in un cofanetto immaginario di cui è disponibile però solamente un volume, quello lì che hai appena letto, tutti gli altri appena li prendi e li apri si trasformano in una risma di pagine bianche.

si prega di fare silenzio

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La voce nella testa che legge i libri è l’unica in grado di sovrastare il coro greco che si muove lungo il proscenio interiore, chiamiamolo così, e che ci ricorda incombenze e dispiaceri, se non altro perché le storie della narrativa sono di gran lunga più interessanti delle proprie e non è difficile perdercisi dietro. Beh, a pensarci bene, non tutte. Nel senso che non tutti i libri riescono bene, ma malgrado ciò succede che a volte si prende il volo da una frase e mentre gli occhi scorrono le righe una dopo l’altra, la trama del romanzo confluisce nella maggiore preoccupazione che si sta vivendo e ci si ritrova alla pagina dopo senza ricordare nulla, confusi dell’improvviso colpo di scena o della comparsa di un personaggio nuovo. Quando si perde l’orientamento è perché qualcosa dentro di noi ci ha distratto, meglio seguire il percorso a ritroso e cercare l’ultimo punto che ci si ricorda di aver attraversato, prima del buio. Ma a parte questi incidenti di percorso, è facile che il libro e la testa funzionino un po’ come vasi comunicanti. Se la storia ha una sua gravità c’è un principio, che non ho scoperto io eh, secondo cui il contenuto più o meno fluido passa dall’altra parte che generalmente è molto più vuota e la riempie fino a far coincidere i due livelli, quello del libro e quello della testa. Se la storia poi ci prende, si adatta perfettamente alla forma del nuovo contenitore proprio come il liquido con cui si fa l’esperimento nei laboratori delle scuole medie. Non fidatevi di chi preferisce tenere il proprio cervello a secco, quindi. Lì dentro le voci interiori rimbombano, c’è un’acustica pessima come in una piscina vuota ed è facile spaccarsi i timpani con i larsen.

leggersi dentro

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E comunque ieri mattina sono uscito di casa per recarmi in ufficio e ho dimenticato di mettere in borsa il libro che sto leggendo. Era troppo tardi quando me ne sono accorto, avrei perso il treno se fossi tornato indietro dopo aver accompagnato a scuola mia figlia, quindi mi sono arreso all’ennesimo disagio da lunedì mattina. In stazione ho scelto di non comprare Repubblica, non avevo voglia di leggere le analisi sui fatti di sabato, e poi non compro mai il quotidiano al lunedì, una forma di protesta contro l’eccesso di pagine sui risultati delle partite di calcio e tutta la letteratura inutile che contengono. Insomma, ho deciso di affrontare i venticinque minuti di viaggio come fanno tanti, senza fare nulla. Mi sono seduto in treno e ho cominciato a passare in rassegna le cose che avrei dovuto approcciare di lì a poco, in ufficio. Qualche idea creativa sulla campagna a cui sto lavorando. Che peccato però sprecare il tempo libero pensando al lavoro, perché non riflettere sull’ennesimo disastro del finesettimana trascorso tra i drammi della mia famiglia d’origine? No grazie. Ho provato a ragionare su come avrei potuto scrivere un post a proposito, che poi non ho scritto. Mi sono guardato in giro, ma non c’era niente di particolare o di diverso dagli altri giorni. Pochissimi con libri o giornali, il resto dei viaggiatori come me, a guardarsi nel vuoto e a pensare. Pensa un po’. Poi il treno è entrato sottoterra, ne ho approfittato per guardarmi riflesso nel finestrino. Perbacco che sciatteria, mi sono detto, e sono certo che qualcuno mi ha pure sentito. Ho scrutato in giro in cerca di qualche viso interessante, qualche faccia intelligente. Ma se guardi troppo gli altri poi gli altri pensano che sei a caccia, o che sei un po’ suonato. A quel punto mi sono chiesto come fanno e cosa fanno quelli che non fanno nulla, guardano nel vuoto, ammiccano a se stessi nel vetro quando il treno è fermo in galleria. Ogni giorno, tutti i giorni, andata e ritorno. Ho acceso il lettore mp3, c’era “Real To Real Cacophony” già pronto da venerdì scorso, e per non lasciarmi vincere dall’imbarazzo ho chiuso gli occhi facendo finta di dormire fino a destinazione. Mai uscire dimenticandosi il libro, piuttosto le chiavi di casa.

che disse alla sua serva raccontami una storia la storia incominciò

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Ci sono state interminabili sfide a tennis da camera, con le racchette da badminton e la palla di gommapiuma. Il gioco era: battuta completamente fuori traettoria, io che mi chinavo a raccogliere la palla, quindi battuta più o meno calibrata e risposta sparata sul soffitto, quindi palla da recuperare, carponi, sotto l’armadio. Questo ripetuto per intere mattinate casalinghe d’inverno, a non più di 2 scambi per volta. La variante estiva era sul bagnasciuga con i racchettoni e la palla di gomma sparata ovunque, e io avanti e indietro a cercarla. Mai più di una manciata di secondi di azione di fila.

Ci sono state feste di compleanno da preparare, con la fantasia, nella grotta di Yoghi, in cui tu eri sempre la festeggiata e io il resto del mondo a imitare le voci dei tuoi personaggi preferiti. Poi, per fortuna, da Hanna & Barbera sei passata alla fase Peanuts, in cui era tutto più facile perché le voci di Charlie Brown e amici, non essendo così caratterizzanti come quella, per esempio, di Svicolone, potevo farle senza inflessioni dialettali.

Poi le storie da inventare, perché ti eri appassionata alle malefatte del professor Augenthaler che ne studiava sempre di nuove per soverchiare con angherie di ogni genere una intera classe di una scuola materna ma che, essendo composta da bambini dall’intelligenza acuta e sopraffina, alla fine capitolava sempre ma senza mai farsi arrestare, così che si potesse ricominciare da capo la volta successiva. La difficoltà aumentava se la storia era da inventare rientrando a casa, alle sette di sera, dopo otto ore in cui mi ero già abbondantemente spremuto il cervello per scrivere storie meno interessanti per la comunicazione aziendale.

E sono stato anche un mezzo di trasporto, perché il passeggino non l’hai mai usato se non come carriola da spingere contro le persone a spasso. Hai camminato ovunque sulle mie spalle, e giocavamo a fare Rospù in groppa di Azur che si finge cieco per non svelare i suoi occhi azzurri durante la ricerca di Asmar. Con questa tecnica abbiamo macinato chilometri ovunque, e se non lo facciamo più è solo per i due dischi che mi si sono schiacciati a forza di essere le tue gambe, con mio immenso dispiacere. Anche se ora, alla tua età e con la tua altezza, avremmo comunque dovuto smettere. Tante altre cose fatte insieme, indovinelli e serpenti con le mani, disegni da colorare e battaglie tra formiche e cavallette e chissà che altro faremo ancora.

Ma, più di tutto, abbiamo letto centinaia di libri. Ho iniziato io a farlo per te, perché tu non avevi ancora imparato; libri di tutti i tipi, più o meno adatti ai bambini, i primi con tante illustrazioni e poche parole, poi pian piano sempre meno disegni e sempre più storie da interpretare, fare le voci diverse nei discorsi diretti. Tanto che hai imparato molto presto, e hai iniziato farlo per conto tuo. Così è bello stare tutti e tre insieme, ognuno il proprio libro, la mamma spesso con il quotidiano.

Ma sappi che se posso, se vuoi, mi piace ancora leggere per te. Oggi eravamo coricati sul tuo lettino, eravamo alle prese con la storia della vita di Paperone, un’edizione supereconomica con i fumetti talmente piccoli da essere al limite della riconoscibilità. Mi dimentico sempre di buttarlo via, non so nemmeno come sia finito sui tuoi scaffali. Comunque, tenendo l’albo a pochi centimentri dagli occhi, appena oltre i parametri della presbiopia, cercavo di dare un senso alla narrazione. Ma avevamo finito da poco il pranzo e a fatica finivo le frasi senza assopirmi. Così mi hai preso di mano il libro e mi hai detto che lo avresti letto tu, per me, per farmi addormentare. Ed è stato bellissimo, peccato essere crollato così in fretta.