vacanze alla pari

Standard

R. ed io ci diamo appuntamento per il giorno dopo, alle 11, in studio di postproduzione. R. è il cliente e la sua presenza, in fase di montaggio delle riprese e assemblaggio contenuti vari, non è indispensabile, ma mi piace coinvolgerlo perché è una delle persone più intelligenti che conosca e, visto che mi è sembrato entusiasta all’idea di partecipare alla produzione, è una buona occasione per fare un po’ di pi-erre. Ma, al telefono, aggiunge che porterà con sé all’appuntamento la sua assistente. R. è un manager, ma non mi risulta che abbia una assistente, il che mi incuriosisce. Può essere un segno che la sua azienda sta andando bene e che, grazie alla ripresa, il suo ottimo lavoro è stato ricompensato con un aiuto in grado di occuparsi delle attività di routine? Vedremo. Io poi mi bevo tutto, sono il perfetto target per scherzi e canzonature, perché penso che la gente parli sempre sul serio, sia onesta, dica la verità. Infatti, il mattino seguente, R. si presenta in studio con sua figlia per mano, una bimba di 8 anni. Già, è luglio, le scuole sono chiuse, e si presenta l’annoso problema comune del periodo estivo che precede le ferie, quelle ufficiali di tutta la famiglia.

E, se vi fermate a pensarci su, c’è davvero qualcosa che non va. Mia figlia ha finito la scuola venerdì 11 giugno e la riprenderà lunedì 12 settembre: i sacrosanti 3 mesi di vacanza, uno dei principali motivi per cui l’infanzia è un momento irripetibile, e ogni volta che mia figlia anela sospirando al suo futuro, o invidia mamma e papà per il fatto che non devono subire angherie dalle maestre mica tanto uniche, la liquido con un “goditela finché sei in tempo”, commento piuttosto grossolano ma efficace. Mamma e papà non possono fare più di 3 settimane di ferie, per via dell’agenzia in cui lavora papà, sostanzialmente, periodo che è bene passare tutti e 3 insieme, visto che per la maggior parte dell’anno ci si vede sì e no 4 ore al giorno svegli. E, più o meno, questa è la media. Restano ben 2 mesi e una settimana in cui occorre trovare un parchegg… ehm, una o più attività per far trascorrere il resto delle vacanze. E un sistema così scombinato è paradossale, ammetto sia ovvio ribadirlo, ma così è.

Molti uffici, anche quelli qui intorno, si riempiono di bambini che accompagnano i genitori al lavoro. Li vedi per mano, con un mini-zainetto Decathlon sulle spalle che contiene, sono pronto a scommetterci, i pennarelli, il pupazzo preferito, i più tecnologici il DS, qualche libro e tutto il necessaire per trascorrere una giornata, direi noiosa, seduti alla scrivania a fianco di mamma o papà, con i colleghi – non tutti – che si alternano a intrattenerli un po’ e rendere la permanenza più sopportabile. L’unica volta in cui ho dovuto far provare tale esperienza a mia figlia, lo stesso giorno sono iniziati alcuni lavori con 2 operai dotati di trapano e lei, era piccolina, si è spaventata. Ciò mi ha fornito un’ottima scusa per rientrare a casa nel giro di due ore. Esperienza finita. Valutazione: negativa.

Ma non esistono solo impiegati. C’è una ragazza addetta alle pulizie, nel palazzo, a furia di incontrarla almeno 3 volte alla settimana abbiamo preso – per mia iniziativa – a salutarci e, da qualche mese, a scambiare qualche parola, il tempo e il più e il meno, niente di che. Ho scritto ragazza perché mi sembrava molto giovane, tuttavia ho scoperto da poco essere già mamma di una bimba di 10 anni. E l’ho scoperto perché, ogni tanto, forse pure lei non ha i nonni sempre disponibili, è costretta a portare la figlia sul posto di lavoro. E così S., la bimba, sta lì in piedi con le braccia conserte ma con il sorriso pronto ad esplodere al mio saluto a osservare la madre che, con grande dignità, come è giusto che sia, lava il cortile interno. Le prime volte, ammetto, mi sono trovato un po’ a disagio. Vorrei dirvi non so perché, ma so di saperlo. Allora, un giorno ho fatto mia la battuta di R., il mio cliente, e da allora quando le incrocio, madre e figlia – e so di essere ripetitivo ma con i bambini esserlo dà molta soddisfazione, perché tutte le volte ridono anche se hanno sentito la stessa battuta o hanno visto lo stesso film centinaia di volte – se l’occasione è propizia, dico “Hey, anche oggi vedo che hai portato la tua assistente”. S. sorride, e la mamma ricambia il saluto, fa un sorriso che dura di meno e riprende il suo lavoro.

linked out

Standard

Resto del mondo

Italia

adozioni a distanza di sicurezza

Standard

Giorno di staff meeting. Si chiama così la riunione interna tra account, project manager (che poi sono le stesse persone che fanno entrambe le cose) e il capo. Ci si aggiorna sulle lavorazioni in corso e si ha un quadro di quello che fanno gli altri. La nostra agenzia non è grande, il turn over è ampiamente nella media, non siamo mai più di sei barra sette persone a partecipare a questi incontri in cui si fa il punto della situazione.

La lavagna divisa in altrettante colonne nominali, da aggiornare di volta in volta con i progetti in corso, vira sempre di più verso il bianco, nel senso che è sempre meno popolata dai nomi delle attività in fieri. Già, per la prima volta da quando sono qui, ormai quasi 10 anni, la flessione del mercato, una perifrasi che mi ricorda la ginnastica delle medie e che sta a indicare la crisi, ha fatto prepotentemente breccia nella nostra routine. La temevamo, chiaro. Ma nel 2009 l’abbiamo scampata, addirittura c’è stato un picco di lavorazione nel 2010. A dirla tutta ho lavorato come una bestia, l’anno scorso. Ricordo di aver spento il computer, alle 19.30 dell’ultimo giorno utile prima delle vacanze di natale, dopo aver chiuso e archiviato l’ultimo progetto dell’anno. E mi sono detto che ero proprio bravo, nel 2011 sarei potuto ripartire con tanti nuovi lavori senza avere nulla in pending.

Poi gennaio, ma gennaio si sa che è un mese un po’ assopito, non ci siamo accorti dello stato di coma. Febbraio ha meno giorni, ci sta che vada così così. Marzo è quando si deve decollare, invece siamo rimasti chiusi nell’hangar. Aprile: non pervenuto.

Così ci inventiamo cose da fare, cerchiamo di allungare i lavori che i nostri clienti ci assegnano provando ad assottigliarli un po’ come si fa con la pasta per la pizza. Li schiacciamo per farli aderire a tutta la superficie della teglia, per farli arrivare ai bordi in modo che ce ne sia per tutti. Chiediamo di aggiungere un po’ di ingredienti, arricchire la ricetta, renderla più gustosa. Ma quasi mai si va oltre il pomodoro e la mozzarella, quando non ci si limita alla focaccia semplice, senza rosmarino grazie. Mi si perdoni la metafora, influenzata dalla mia cena di ieri.

I junior iniziano a tremare. Uno di loro avrà il contratto ridotto a tempo parziale fino a settembre, data di scadenza, dopo la quale se continua così non gli verrà rinnovato. Poi c’è C., che è junior solo perché è qui da poco ma ha pochi anni meno di me. Anche a lei è stato imposto una sorta di part time ma che part time non è, nel senso che d’ora in poi a metà stipendio sarà in ufficio quattro ore al giorno, sempre a progetto. A detta di tutti una scelta discutibile: se già hai pochi introiti, rinunciare alla verve e alla propositività diminuendo le risorse equivale a una zappata sull’alluce.

C. ed io, uscendo fianco a fianco dalla stanza dei bottoni, passiamo davanti alle foto dei bambini indiani che, tramite un’associazione attiva in questo campo, l’agenzia ha adottato a distanza. Ha un sorriso di quelli a metà, che meglio impersonificano il sarcasmo, a seconda del punto da cui la stai osservando. “Basta privilegiare gli indiani“, mi scrive poco dopo in chat. “Mi accontenterei di essere adottata, così mettono la mia foto lì vicino all’ingresso, a fianco delle mie letterine in cui scrivo quello che faccio con i loro soldi, ringraziandoli per il fatto che mi mantengono in vita“.

riscatti di anzianità

Standard

Vi ci vedete voi, a 65 anni, a smanettare con Dreamweaver (o con quello che si userà allora) e progettare pagine Internet (o quello che ci sarà allora)? Ipotizziamo che il mondo non finisca nel 2012 e che i miei colleghi arrivino alla fatidica età della pensione facendo più o meno le stesse cose che fanno ora. Io scrivo testi pubblicitari, ho già 43 anni, e mi tiro fuori, almeno per scaramanzia visti i tempi che corrono. In gioco restano A. che costruisce pagine per siti web, D. che fa il grafico, I. che si occupa di montaggi video, i primi tre che mi vengono in mente a mo’ di esempio. Tutti mestieri che l’opinione comune associa a giovanotti dal profilo precario, ma che, come tutti, precari e statali, invecchieranno. Prendiamo invece i mestieri più tradizionali. Chi di voi non conosce un commerciante anziano? Un meccanico alle soglie della pensione, con le mani indelebilmente macchiate di nero? Un ingegnere con i capelli bianchi? Un ex-geometra che gioca alle bocce, cura l’orto e porta a spasso i nipotini? Un copywriter di mezza età? Si, quello sono io. Ma è l’eccezione che conferma la regola. Mi spiego meglio (ci provo).

I lavori che iniziano per “e trattino” e tutto ciò che ha a che fare con i new media è per precari highlander, i sempreverdi, gente che non solo non invecchierà mai ma che non oltrepasserà nemmeno le soglie dell’età adulta. Complice anche il turn over che c’è nel settore. I suddetti A. D. ed I. lavorano qui da un paio d’anni, chi più chi meno, e prima o poi se ne andranno, perché nessuno investe davvero in questa tipologia di figure. La rottamazione è più conveniente, si possono risparmiare i costi di una crescita professionale per stage sempre meno retribuiti. Tra poco arriveranno i nuovi A., D. e I. a sostituire gli originali, anche se originali non sono, perché sono qui già al posto di qualcuno. Ma, per fare punto a capo, consideriamoli pedine archetipo di questo perpetuo gioco dell’oca. In ogni casella c’è il logo di un’agenzia e un numero crescente, a rappresentare l’età. Dicevo, altre 3 pedine a progetto, sempre di 30 anni, ripartono da capo e si spostano lungo le caselle, così l’agenzia si può permettere di non invecchiare. Ma i tre archetipi, le tre pedine da cui siamo partiti, dove vanno a finire? Avanti di enne caselle, in un’altra agenzia a re-iniziare da capo come junior, sempre junior. L’ultimo tiro di dadi e si arriva a 65 (è una variante del gioco dell’oca vero e proprio, che invece arriva a 90), la casella della pensione, ancora da junior. Ma vediamo da vicino le ultime 10 caselle, quelle che ci interessano di più: non cambia nulla. A. è alle prese con i css, D. è prono su Illustrator e I. è in giro a portarsi in spalla la miniDV, magari in una conferenza stampa a sgomitare con i cameraman delle tv che si fanno molti meno scrupoli. Tutto questo intorno ai 60 anni, diciamo. Strano, vero?

Questo perché un anziano creativo, un nerd con i capelli bianchi o un videomaker digitale con le rughe esula dal nostro immaginario. Eppure, nel 2060, ci saranno anche loro. Quasi sicuramente con problemi di vista, per aver speso notti e giornate appiccicati ai monitor, in barba alla normativa sulla sicurezza sul lavoro in ufficio. Tutti curvi e scogliotici, per le numerose sedie low-cost che hanno ospitato le loro parti posteriori e per le posture assunte durante i briefing. Semisordi, per via della musica electro-indie a tutto volume che gli ha consentito di isolarsi meglio dal resto del mondo. E analfabeti di ritorno, incapaci di scrivere se non con la tastiera o con il touch screen, di leggere il corsivo, di comprendere un testo privo di abbreviazioni e più lungo di 160 caratteri. Anaffettivi, se non tramite faccine animate.

E io, a 93 anni, sarò ancora lì, a sistemare i testi dei miei clienti, a togliere la doppia elle da “accelerare”, a cancellare apostrofi tra “qual” e “è”, a correggere l’accento chiedendomi il “perché” (la rima non era voluta).

storie di un impiegato

Standard

La formula del reality in azienda è un’idea che mi frulla in testa da tempo, che molto probabilmente (come, d’altronde, spesso accade) uno 007 esperto di spionaggio industriale al soldo de La7 mi deve aver rubato, intercettando le mie elucubrazioni attraverso una cimice infraneuronale. E se non ho mai visto una puntata de Il contratto, non è per lo scorno di non essermi arricchito vendendo per primo un episodio pilota del format in questione, ma perché, in generale, ho poco tempo per la tv, tantomeno per i reality.

Leggendone poi su Sempre un po a disagio, che ha sottolineato il fastidio del veder banalizzata la tematica del lavoro – o, meglio, della difficoltà di averlo -, ho colto la discutibilità dell’operazione, anche se in effetti fosse il reality che mancava: dopo la coabitazione e la sopravvivenza, telecamere accese sul lavoro, che è un po’ entrambe. Storie da raccontare ce ne sono a bizzeffe, potrebbero essere confezionati tanti Jpod quanti sono gli essere umani occupati, a tempo determinato e non.

Le aziende sono fatte di persone, il successo dei brand deriva non perché l’organigramma comprende una casella per una determinata funzione, ma perché a ricoprire quella funzione e quella casella c’è una persona, che ha una sua identità professionale unica al mondo. E tutte insieme, queste persone, in azienda, costituiscono una micro-società parallela, con dinamiche, tensioni, divisioni e rapporti importanti tanto quanto (purtroppo) quelli della vita privata. Oggi ci sono persino i social network interni, con gli status da cambiare a seconda dell’umore, i commenti e i like sulle battute dei colleghi. Pensate invece ai nostri genitori, nell’era del Posto Fisso, che hanno occupato per quaranta anni circa la stessa sedia nella stessa organizzazione, magari con gli stessi colleghi con cui hanno iniziato. Noi, per i motivi che conosciamo, ovvero la flessibilità imposta, i contratti farlocchi, le società che appaiono e scompaiono, siamo più abituati al cambiamento. Il turn over però continua ad essere considerato un difetto, perché è indice di operatività rallentata e di non soddisfacenti condizioni lavorative. Chissà.

Ma oggi, e torno a ricordarlo, avere un posto e una paga è già un aspetto positivo; siamo tornati a un livello “ground zero” di giudizio, non ci si può più permettere di scegliere, di rifiutare, di snobbare una proposta, a meno di non essere miliardari. Così mi arrabbio il doppio quando vedo nuove leve entrare in azienda da me e non riuscire a calibrare in tempo il raggio dell’ambizione. Vorremmo tutti fare gli spot della Bmw, lo so anche io. Ma vista la fila che c’è là fuori, ci dobbiamo accontentare di fare gli spot per il Lidl. Non mi sembra un concetto difficile da afferrare, eppure ho avuto e ho giovanissimi colleghi che non se ne fanno una ragione. Senza contare chi lavora con un terzo dell’impegno giustificandolo con il terzo di uno stipendio vero che riceve. O chi, come si faceva in caserma muniti di ramazza e paletta, cerca di passare sempre per ipe-roccupato, per non dare nell’occhio.

Allora ho pensato che più che un reality, l’ambiente di lavoro possa essere rappresentato meglio dalla fiction. Con i protagonisti a impersonare gli stereotipi della vita quotidiana davanti al pc, le cuffiette, i cellulari che vibrano, le occhiatacce a chi invece non li imposta sul silenzioso e squarcia il silenzio con la hit del momento, le tazze di tisana fumante, gli effluvi della schiscetta dei più organizzati, gli staff meeting superflui, i sales che fanno i commerciali anche con se stessi e così via. La ripresa in real time di tutto quello che c’è sotto sarebbe troppo cruda.

un moderno post-weekend

Standard

Se c’è un episodio che mi piacerebbe vedere reso su pellicola, o per essere più realistici su youtube, anche perché nel primo caso sarebbe difficile trovare attori credibili per renderlo credibile a sua volta, è un qualsiasi viaggio di ritorno a Milano di T. e dei suoi fedelissimi compagni di abitacolo, nonché colleghi, B. e A. A bordo della Punto del babbo di B. fanno tutta una tirata da Questo Posto (così chiamerò, per motivi di rispetto della privacy, la cittadina ligure da cui provengono i tre giovani) a Quest’altro Posto (così chiamerò, per motivi di rispetto della privacy, la cittadina alla periferia est di Milano dove condividono un miniappartamento. Spero abbiate colto la citazione, sebbene annacquata tra gli incisi nelle parentesi tonde. Vi darò un indizio: continua con “non è la stessa cosa, gli americani ci fregano con la lingua, non è la stessa cosa. Un, du, tri, quater…” a cui segue una canzone blues). Ma torniamo al viaggio, 200 chilometri di autostrada tra Liguria, Piemonte e Lombardia nella formula pendolarismo quindicinale e non di più, per non gravare sul bilancio di questo nucleo familiare anomalo e mettere in difficoltà tre amici (due maschi, T. e B. e una femmina, A.) che come me e come mettetevoilacifra altri ex-giovani liguri si sono trasferiti qui. Il forte legame con le radici che non si spezza, nemmeno a colpi di Navigli. Parlo per loro, of course. Non tornerei indietro nemmeno sotto tortura.

Ecco: più che un film potrebbe essere un format televisivo, se già non esistesse. T. è un ex-promettente cantante, promettente sempre nell’ambito dei gruppi sconosciuti dell’underground locale, dove la promessa non è mai mantenuta, se non da qualche add in più su myspace, oggi (anzi, fino a qualche mese fa, visto l’inarrestabile caduta del principale concorrente di FB), e da qualche distratto applauso nelle birrerie di periferia, ai tempi. T. però si è mantenuto interlocutore fantastico, nel senso che lui parla mentre A. e B. per lo più ascoltano, poi mi riferiscono e io prendo appunti. Poche domande, qualche espediente da programmazione neurolinguistica da tanto-al-tocc per dirottare la conversazione su temi che sanno stare a cuore di T., e una valanga di spunti che consentirebbero a chiunque di approfondire i più appassionanti argomenti antropologici in monologhi pour parler come questo.

T. è un maestro di storytelling. Sa quali tasti schiacciare, quale corde pizzicare. Ed è “solo” un vocalist, pensate se suonasse uno strumento polifonico. L’azienda in cui nostri tre frequent driver lavorano – T. come montatore video, A. e B. come… boh.. grafici? Web designer? – risente di una pessima gestione, così mi dicono. Ma, si sa, chi lavora talvolta coglie solo marginalmente le strategie aziendali del management. “Non dire str*****e, chiunque coglierebbe la limitatezza di C.” C. è l’amministratore unico che, in una azienda di marketing, si occupa anche di filtrare tutto ciò che deve uscire verso i clienti adattandolo a sua immagine e somiglianza. Il che ha senso. Voglio dire, l’azienda è tua, puoi farci quel che vuoi. “Sì, ma hai idea di quanto tempo perdiamo? E perché diamine mi hai assunto se non ti fidi di me e pensi che delegandomi responsabilità creative il prodotto non sia sufficientemente in linea con l’azienda“. Vabbè, non voglio approfondire temi e dinamiche già trattate altrove, soprattutto giudicare aziende altrui. Ma non è solo questo che li mette fortemente a disagio.

Sono le persone a dare un tono inappropriato all’ambiente. T. mi fa l’esempio di S., lavora nella selezione e gestione del personale. “Ho superato un test per entrare qui. Lì ho conosciuto S.,  proprio con lei ho fatto il primo colloquio“. T. mi racconta che S. si sposta sfrecciando in monopattino lungo il corridoio su cui si affacciano le varie cellette. “Non la biasimo, il lato lungo dell’ufficio è almeno 500 metri“. Non si tratta di un’esagerazione, nella Lambrate che sta crescendo sormontata dalle gru. Siamo in piena archeologia industriale, stabili nuovi che si alternano a spazi ristrutturati in ex stabilimenti di chissà che cosa. Uffici ricavati dalla polverizzazione degli open space in minuscole celle operative occupate da 4 massimo 5 postazioni di lavoro.

Dicevo del test.
Q. Elenca le 5 cose che sai fare meglio.
A. Mi sono sincerato della effettiva atmosfera da web 2.0 e mi sono lasciato andare:
#scrivere
#comporre e arrangiare musica
#avere pazienza
#ascoltare
#superare i test come questo.
Q. Con quale nome ti vorresti chiamare se non ti chiamassi con il tuo vero nome?
A. S. ,che ho scritto per accattivarmi le simpatie della selezionatrice.
Q. In 10 righe insegnami ad allacciare le scarpe, non una riga di più“.
A quel punto T. prende l’iphone e mi fa vedere una foto. Un foglio con la seguente lista:
Faccio notare a T. che mi sembra un modo originale di affrontare i test. Soprattutto visto che è stato assunto, anche se con contratto a progetto. “Dopo qualche settimana mi hanno chiamato e sono salito a quota 6 aziende in 10 anni. Ancora una volta con un co.co., un contratto comico“. Ancora una volta accontentarsi. “Fortuna che il posto è davvero trendy. Entri e c’è la reception. Poi un muro fatto di cubi di cartone, la rappresentazione delle success story aziendali“. Penso che non c’è altro modo per materializzare i prodotti virtuali se non mettendoli in scatole che, pur vuote, solo così diventano tangibili e riconoscibili in un packaging con tanto di etichetta. Stavo per scrivere brandizzate ma mi sono fermato in tempo. Ops. “Lì di fronte c’è uno schermo LCD, che trasmette una successione di quote a sintetizzare la vision aziendale. Cheppalle, ho pensato appena l’ho visto, alla fine ci cascano tutti, anche i meno convenzionali. E giù pillole di Martin Luther King alternate a Goethe e Groucho Marx, Gandhi a Thomas Millian, Kennedy a Naomi Klein, Terzani al Cluetrain Manifesto“. Anche qui, mi viene da pensare. il cluetrain già arrivato in ritardo è bello che perso.

T. non lesina nei particolari sull’organizzazione degli spazi. “Entri nell’open space frazionato in cellette, ognuna costituisce una Practice. C’è la Practice Visual, la Practice R&D, la Practice ADV, la Practice ADM, la Practice PM, la Practice VM. Ecco, lì nella Practice vuemm, Video&Multimedia, ci sono io. Taglio e monto riprese, alternandole a grafica 2D e 3D“.  T. si isola ascoltando musica, quando non è necessario indossare le cuffie per l’audio del montaggio. “Alla fine di ogni pezzo è come se mi svegliassi e penso: di nuovo all’inferno“. Il guaio di essere, come T., molto nuvoloso tendente al peggioramento, dentro.

Usiamo la chat, per comunicare tra colleghi. Magari distanti qualche minuto di monopattino. Messaggistica istantanea, non mi avrai mai. Quando uno ti scrive ‘che cosa??’, ‘che cosa volevi che ti dicessi??’, e altre domande che passano alla storia per il doppio punto interrogativo, fa domande incalzanti? Anzi, incalzanti?? Per non parlare allora dell’alzare la voce con l’uso delle MAIUSCOLE, reale o frainteso perché magari hai lasciato premuto un tasto di troppo“. Ecco, inevitabilmente T. svela a B. e A., a fine giornata, cosa lo spinga a chiudersi in playlist a tinte scure e uscire dall’ufficio per tornare a casa. “Sfido chiunque a riconoscermi. Non è tanto la nebbia, è perdersi, anzi perdermi, in una città che non è più la mia, mentre fuori di qui, cioè di me, tutto precipita. Occhi chiusi, orecchie coperte da cuffie, passi a caso“. In auto, coperti dal rumore del motore, si cerca di sdrammatizzare, allora. “Via da questo trailer tra l’hollywoodiano e Moccia. Torniamo a un sano minimalismo, please“. Troppo tardi. Il film va avanti.

Tra di loro hanno passato giornate intere in chat, ed è come se lsi ritrovassero sempre dentro ai loro mac, a riascoltarsi e a rileggersi, per poi riparlarne durante i viaggi. “Tra noi basta una sola parola, al massimo due, che descrivono tutto il resto. E allora occorre comprendere l’intenzione, il significante, il significato, il tempo impiegato da ogni verbo per giungere a destinazione. A quel punto i giochi sono fatti“. Stare soli in tre è meglio che stare soli punto. “Parlare, in auto, è un’oasi di ristoro e leggersi, in chat, leggere qualsiasi cosa, è scoprire altre forme di vita su un pianeta sconosciuto. Ma i pericoli, in giornate come questa, ritornano. Minacciosi no, solo un po’ cattivelli. Pronti a far rovesciare la birra sui pantaloni altrui. O a farci inciampare sulle scale della Feltrinelli“.

Tutto questo perché A. presto cambierà lavoro, una deflagrazione nelle loro dinamiche. “Che dire? Così, tra suoni ovattati e pavè nell’ora di punta, la malinconica beatitudine di una Menabrea è un sottoinsieme dell’averla vista uscire alla fine del primo tempo della nostra vita. Spero che la sua soddisfazione assuma le sembianze di un accordo. Minore, naturalmente“.

il lavoro rende liberi di aspettare

Standard

Sotto l’ufficio di S., al piano terra, c’è una di quelle agenzie duepuntozero molto gheddaun e hipster, peraltro in attività da una decina d’anni, questo a prova che l’essere gheddaun e hipster nel mondo della creatività e della comunicazione digitale è comunque un sistema di sopravvivenza. E molto probabilmente non si tratta di gheddaunness e hipstership (dio mio, ma come sto scrivendo?) omologate, ma di una vera e propria alternativa al mood alternativo. Sapete, comunque, di cosa S. sta parlando. Open space, distesa di mele con il computer intorno, cataste di Wired in abbonamento all’ingresso e via dicendo. Caratteristiche estetiche che, spesso, nella sostanza distraggono il prospect dall’alto turn over e dai contratti stilati con inchiostro simpatico a gggiovani collaboratori e stagisti, con lauree brevissime in tutto quanto fa comunicazione.

L’organigramma, sono parole di S., è una cascata di geek e indie e indie/geek con qualche rara voce fuori dal coro: il rasta che non fa pausa sigaretta perché fa pausa canna, il nerd programmatore che appena può si sistema in Accenture e via dicendo. In questo scenario, S. mi racconta di una ragazza di cui non conosce il nome – chiamiamola E. – con cui si incrocia ogni mattina nell’androne. E., da qualche mese, è in forza all’agenzia gheddaun e hipster. S. entra infreddolito (siamo in inverno) e chiama l’ascensore, la cui porta si trova a fianco dell’ingresso dell’agenzia gheddaun e hipster. Canticchia, fischietta o, è lui a confessarmelo, a volte borbotta da solo (questo è il risultato di 15 anni di esperienza nel campo dei new media, trecentosessantacinque giorni l’anno a confrontarsi solo e unicamente con intelligenze artificiali. Parlare da soli è una delle più comuni conseguenze: è profondamente ingiusto biasimare i creativi).

Poi avverte la presenza e si gira. Sdraiata sul muretto, sotto la finestrona che dà sul cortile, c’è lei: E. Un concentrato di tutto quello a cui puoi associare il concetto di agenzie geddaun, ovvero (dall’alto verso il basso): taglio a caschetto con ciuffone tendente all’emo, auricolari conficcati nelle orecchie tra lobi ricolmi di anellini i cui cavi portano a i-phone di ordinanza tra pollici in continuo fermento (skippare brani dalla playlist, rispondere a messaggi e commentare commenti degli amici su FB) e che talvolta lascia il posto a un libro, giacca blu scuro con spillette di gruppi inesistenti, foulard, pantalone stretto sulle caviglie e all-star pelose e nere. Età: tra i venti e trenta.

Cosa ci fa la nostra indie-girl alle otto e quarantacinque del mattino, in un portone della city? Aspetta che l’agenzia gheddaun e hipster apra i battenti, non prima delle nove se non nove e trenta. Si, avete letto bene. I soci dell’agenzia, probabilmente gli unici ad avere a disposizione le chiavi e il codice dell’allarme, entrano con la dovuta calma. Magari stanno facendo colazione al bar delle modelle, all’angolo, e se ne fottono. La nostra E., proveniendo da chissà dove con chissà quale treno a chissà quale ora in chissà quale stazione, non ha scampo: quella è l’unica ora utile a cui arrivare per non rischiare il ritardo. E, in modo intelligente, anziché guardare nel vuoto, consumare il proprio rimborso spese nei bar del centro o respirare smog fresco di giornata passeggiando in circonvallazione, ha fatto dell’androne il suo riparo temporaneo prima di immolarsi al marketing digitale.

Il pippotto di S., spropositamente lungo, lascia trapelare un po’ di tenerezza verso quella giovane adulta costretta a prolungare la propria adolescenza oltre i livelli di guardia a causa della peggiore situazione economica del dopoguerra, che ha lasciato l’imprenditoria in mano a una generazione di fanfaroni. Perché S. è certo che tra qualche mese, quando ineluttabile sorgerà il sole sul giorno della scadenza del suo contratto farlocco firmato da ambe le parti con l’inchiostro simpatico di cui sopra, E. tornerà nel suo cyberspazio fatto di newsletter di offerte di lavoro, lavorifighipuntocom e così via. A nulla sarà valso quel sacrificio, il dedicare quotidianamente ore della sua vita in quell’anticamera della produttività senza un mazzo di chiavi utile ad anticipare la sua giornata lavorativa, di conseguenza la fine della stessa, di conseguenza il ritorno a casa, di conseguenza a vivere la sua vita privata decorosamente.

Ho suggerito a S. così di costituire un club di solidarietà, tutti i creativi e i web designer e i flash developer e gli art director e gli online strategist e i video producer e i social media content manager uniti, se occorre mi rendo disponibile in prima persona per un dj set visto che i copy sono più che ridondanti, alle otto e quaranticinque con tè caldo e biscotti nell’androne di quel palazzo anni cinquanta, ad aspettare i soci proprietari dell’agenzia hipster-gheddaun. Una sorta di flash mob contro chi, dei flash mob, si riempe la bocca e i powerpoint e cerca di venderli alle multinazionali. E dàtele un mazzo di chiavi, che diamine. Barboni.

il cacciatore di cacciatori di teste

Standard

Proprio questa mattina, in uno dei numerosi studi di comunicazione digitale dell’area milanese, S. ha fatto l’ennesimo colloquio. Lo ho saputo per caso, e senza perdere un istante mi sono fatto raccontare tutto. E sapete perché? S. è un maniaco dei colloqui di lavoro. Non so se esista un nome per questa sorta di patologia, uno strano incrocio tra egotismo, smania di apparire, desiderio di raccontarsi, mitomania. Fatto sta che S. cerca di emergere e di colpire le aziende che assumono tramite lettere di presentazione e riassunti del suo profilo professionale per inanellare più colloqui possibili. Ma, in un momento in cui trovare un lavoro è estremamente complicato, soddisfare questa ossessione può diventare un problema. Non è facile trovare un’inserzione interessante, non è facile superare il primo screening ed è oltremodo difficile, in caso di convocazione, far conciliare le proprie richieste con le proposte del possibile futuro datore di lavoro.

Attenzione, però. S. non cerca una nuova occupazione. Macché. S. è felicemente impiegato a tempo indeterminato come art director in una storica società di design e comunicazione visiva di Milano. Ma non c’è verso di farlo smettere. Sentite dalle sue parole qual è la sua strategia, ammesso che così si possa definire.”Sono iscritto a tutte le mailing list di annunci di lavoro, nel mio settore c’è sempre richiesta, perché il turn over è all’ordine del giorno. Chi lavora con la grafica dopo un po’ si stufa di fare sempre le stesse cose e cerca nuovi stimoli. Quindi, un po’ come a pallavolo, si ruota. Così mi candido a tutto ciò in cui sono candidabile, dalla computer graphic alle posizioni di esecutivista, web design e impaginazione. Qualsiasi cosa“.

Un po’ per la sua esperienza, un po’ per il portfolio che comunque è di tutto rispetto, la media con cui S. viene convocato da aziende, agenzie di lavoro e head hunter è impressionante. “Guarda, non saprei fare una media, ma un buon 25% di mail inviate ha un seguito. Mi chiamano, cerco di fare una piccola scrematura in quella fase, quindi se vedo che l’occasione è ghiotta non so resistere e vado“. E qual è l’occasione ghiotta? “A priori, cioè senza sapere nulla dell’azienda che mi ha contattato, mi ispirano le agenzie di lavoro. Molto spesso i selezionatori sono giovanissimi che non hanno una visione dettagliata di quello che è il mio profilo professionale. Ma non voglio mettere in difficoltà nessuno, cerco solo di trovare un sfogo alla voglia che ho di raccontarmi al prossimo“. Chissà. Forse S. soffre di solitudine, nella vita privata, e considera la vita pubblica sul posto di lavoro la sua principale arena di rapporti interpersonali.

S. prende le ore di permesso necessarie – anzi, mi ha confidato che talvolta confessa senza problemi dove è diretto, la sua perversione non è un segreto per nessuno, ormai, tra le persone a cui riporta – e poi va in scena. Il mattino sceglie l’abbigliamento più adatto, a seconda dell’occasione si prepara anche una versione ad hoc del suo percorso professionale. Quindi si reca sul posto, a volte anche con difficoltà. “Ricordo un colloquio presso un head hunter in zona Molino Dorino, in un quartiere residenziale. Aveva l’ufficio nel suo appartamento in un palazzo senza portinaio, non ti dico la fatica per trovarlo, tra pensionati a spasso con i cani e massaie di ritorno dalla Coop“.

E, almeno così dice lui, molto spesso i colloqui vanno bene. Sempre secondo il suo discutibile punto di vista. “Non mi importa, ovviamente, ottenere una proposta, anche perché mi metterebbe in difficoltà Sono soddisfatto del mio lavoro. Ma se mi sento a mio agio con il selezionatore, la mia performance può toccare vette di perfezione. Riesco a dare il massimo, a raccontarmi esattamente  come si aspetta l’esperto in Risorse Umane“. E l’esito può anche essere totalmente negativo, già in questa fase. “Talvolta sono altrettanto soddisfatto se riesco a far spazientire l’intervistatore, oppure quando spingo sulla presunzione. Mi è capitato anche, interpretando il professionista che non ha nulla da perdere, di abbandonare a metà il colloquio dichiarando seccato il mio disappunto: non siete stati abbastanza dettagliati nell’annuncio, odio perdere tempo, perbacco!“.

Insomma, S. ha fatto del colloquio una sorta di performance artistica, uno spettacolo di se stesso volto a mettere in luce l’estetica della disoccupazione, una specie di living theathre a sfondo psicoattitudinale. Intendiamoci: cercare lavoro per finta può sembrare fuori luogo, il mercato è quello che è, il tema della precarietà è delicato e scherzarci su non è lecito. Ma non c’è da preoccuparsi: si tratta di un vizio innocuo, solo un po’ di tempo sottratto agli uffici del personale, per sentirsi risorsa umana fino in fondo.