un altro posto

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I colleghi che poi diventano ex, per loro o altrui volontà, quando li incontri sanno di fresco e non di stantio come quelli che ancora lavorano con te, che hanno il sedere e la schiena a forma degli arredi del tuo ufficio, i riflessi dei colori della intranet sulla faccia e sui capelli, persino il puzzo delle lavorazioni che seguite insieme sulle dita e sugli abiti invernali. I colleghi che sono diventati ex li baci sulla guancia che è bella fresca e non perché fuori fa freddo, ma perché nei mesi in cui non li hai più visti sono rinati in un’altra agenzia, si sono ricostruiti una vita. L’entusiasmo – che può essere di facciata, sia chiaro, ho preso una decisione importante e me la sto facendo piacere – sembra fatto di goccioline vaporizzate sulla pelle.

O meglio, i colleghi che poi diventano ex sembrano automobili appena uscite da una riverniciatura, fuori sono proprio belle e scintillanti, chissà se c’è stato bisogno anche di qualche intervento di manutenzione, una controllatina ai freni, o la cinghia addirittura per chi è oltre i centoventimila chilometri. Hanno a loro volta nuovi colleghi, si incazzano con nuovi responsabili, ma si sa che dall’altra parte, quella che oggi l’ex-collega rappresenta, è tutto diverso, è la novità, è lui/lei a stare sotto il riflettore. L’argomento di cui parlare. La vetrina.

Perché io cosa potrei dirti se non cose che sai già. C’è quella che ha preso il tuo posto, sì è simpatica ma devo dirti per forza mai come te, altrimenti che ex collega sarei. Se ci rivediamo a pranzo è perché sono stato tuo complice dei tuoi piani di fuga, l’evasione premeditata con la notizia di sottobanco sugli annunci visti in giro, qualcuno te l’ho anche inoltrato io quando ho saputo che eri stufa. Poi il segreto del colloquio, le ore di permesso e l’esito che hai condiviso prima con me e poi con tutti. E mentre mi racconti capisco perché i colleghi non sono amici, o meglio lo sono ma è un po’ diverso perché quello che ci accomuna è la busta paga o i suoi surrogati, non ci siamo scelti, non ci siamo conosciuti volontariamente. Ciò non significa che non fossimo legati, le pause pranzo e la macchinetta del caffè, le lacrime nei momenti difficili, sì ci sono state anche quelle.

Ma non parliamo più del passato dai. Sicuramente lì è tutto diverso, ci sono le scrivanie e il tavolo della sala riunioni in tinta con i colori dei muri che sono in tinta con il brand aziendale, tutto sa di anguria. Così quando entri la mattina è come tuffarsi in un frappè di lavoro, sputi qualche nocciolo e ti rimbocchi le maniche, e forse è questo il profumo nuovo che hai. Sai di quel brand lì, quello che ti ha fatto un bel contratto a progetto, spero per te sia un profumo di quelli che non vanno più via.

indisposizione

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Una volta ho bucato in pieno un incontro importante di lavoro. L’appuntamento era Torino, nella sede di un importante cliente di un mio cliente un po’ meno importante. Il mio cliente un po’ meno importante aveva promesso al suo importante cliente che avrebbe portato con sé un giornalista per un’intervista, quei marchettoni edulcorati che vanno spalmarsi su pagine a pagamento mascherate da informazioni, note agli operatori del settore e non come publiredazionali o pubbliredazionali (ci sono due correnti di pensiero sull’uso della doppia, io preferisco la seconda). Era programmato da più di due settimane, troppo per la mia capacità organizzativa, in un ambiente in cui ci vengono chieste cose dalla mattina per la sera, al massimo per il giorno successivo. Una volta stabilito giorno e ora, non so il perché e il percome ma ho dimenticato di annotare l’appuntamento in agenda e mi sono tuffato nuovamente nella sala macchine della produzione fatta di urgenze, imprevisti, tecnologia che si ribella e lotte contro il tempo. Ah, e io sono tutto tantomeno un giornalista.

E quella mattina è arrivata, come tutte le altre. L’incontro era fissato per il dopo pranzo. Il mio cliente, che comunicava con me tramite una collega pierre di sicuro perché più carina e comunque del sesso giusto per giustificare un rapporto epistolare professionale quotidiano e un fee all’agenzia, per scrupolo le chiede se era tutto confermato, e che mi avrebbe atteso all’ora stabilita all’ingresso della sede del loro cliente. La collega mi inoltra l’aggiornamento, e dentro di me scende il gelo, come quando apri gli occhi e ti accorgi di aver spento la sveglia chissà quante ore prima e avevi un treno da prendere che ha fatto a meno di te. Realizzo che non ce la farei a precipitarmi a Torino e arrivare in tempo.

Chiamo il mio cliente e gli dico la verità. Ma gli propongo anche la soluzione, una banale intervista telefonica. Loro stanno lì e io, facciamo pure finta che sono malato, da qui. Accetta, inequivocabilmente scazzato, ma capisce che non c’è altro sistema per porre rimedio. Rimaniamo che mi chiama lui alle 14. E puntualmente squilla il telefono, quindi le presentazioni di rito, insieme a lui ci sono i vertici dei sistemi informativi di questa grande azienda italiana, una società molto importante. Ma il più “vertice” dei due chiede al mio cliente che cosa stiamo per fare. Lui, sommessamente, spiega la finalità del meeting, l’intervista telefonica, quello che previa loro approvazione ne conseguirà. Al che ottiene in risposta che non se ne parla, ogni intervista per una società del loro livello può essere rilasciata solo tramite l’ufficio stampa (concordo) e quindi gli dispiace ma non si può fare. Il mio cliente chiude la conversazione visibilmente (anche se non lo vedo) amareggiato. Ma il cliente, in questo caso il suo, ha sempre ragione, no?

E niente, una volta ho bucato in pieno un incontro importante di lavoro, ma l’incontro stesso era un buco, e non ci sono finito dentro per puro caso.

train man

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In agenzia qui da me è arrivata da poco una ragazza nuova, una grafica che ha preso il posto della precedente, dimissionaria. La nuova grafica viene da Bologna, nel senso che abita tutt’ora lì e, a parte qualche volta in cui approfitta di amici milanesi, ogni giorno copre la distanza tra casa sua, nel capoluogo emiliano-romagnolo, e l’ufficio, a Milano in zona Porta Venezia. Che non sono proprio due passi, come potete immaginare. Si tratta di una scelta che comporta alcuni sacrifici; intanto la spesa, un abbonamento ferroviario per quella tratta suppongo costi almeno un paio di centinaia di euro, alta velocità esclusa.

Ma è il proprio tempo la principale ricchezza a cui occorre essere pronti a rinunciare, in totale un minimo di quattro ore al giorno. E, aggiungo, desistere a ogni velleità di rivalsa nei confronti del trasporto pubblico di fronte a ritardi e disservizi derivanti, perché moltiplicano il disagio in modo esponenziale. Oltre ai soldi e al tempo perso, meglio mantenere il sangue freddo e non rovinarsi l’umore ogni giorno.

Io ne so qualcosa: per anni ho coperto la distanza tra Genova e il mio precedente posto di lavoro milanese ogni santo giorno in treno, quattro ore tonde tonde quotidiane regalate alla causa. A mio vantaggio c’era il tempo da dedicare alla lettura, così tanto non ne avevo mai avuto in vita mia. Ed è stata un’esperienza positiva anche dal punto di vista dei rapporti sociali. Su una carrozza frequentata da pendolari ho conosciuto uno dei miei migliori amici, e malgrado io abbia poi interrotto il pendolarismo trasferendomi qui, è ancora oggi un riferimento stabile della mia vita. Ma per il resto ho dovuto imparare a vincere ogni giorno una piccola battaglia contro l’inefficienza con una dose extra di pazienza, una bella scuola di sopravvivenza.

Ricordo però un mio compagno di viaggio, ingegnere, che nella sua metodicità annotava ogni mattina e ogni sera su un taccuino l’esatto numero di minuti di ritardo portati dal treno su cui si trovava. Aveva scelto di non trasferirsi mai a Milano e di continuare a viaggiare ogni giorno per il resto della sua vita professionale. Con un obiettivo: presentare il conto alle Ferrovie dello Stato, una volta in pensione, per riavere indietro tutta quella parte sostanziosa della sua esistenza gettata dal finestrino.

servo muto

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Quello che mi pesa di più del mio lavoro è che si parla poco. Mi pesa perché ormai, dopo oltre quindici anni di attività, ho smarrito una delle mie qualità grazie alle quali, giusto per tirarmela un po’, me la sono cavata piuttosto bene alla maturità e, soprattutto, all’università. Ma anche dopo, quando dovevo convincere qualcuno di qualcosa. Avevo pure una buona dialettica, motivavo e dimostravo, raccontavo a voce senza sforzo, chiacchieravo anche fin troppo, me la cavavo piuttosto bene di fronte a tante persone, mi è capitato di tenere corsi anni fa e, insomma, non è andata poi così male. Ma la facondia, che per certi versi è un dono, non è solo un’arte, è anche una disciplina che va coltivata, nutrita e, soprattutto, esercitata.

Così da quando ho acceso il mio primo strumento di lavoro, che è stato un Mac, da allora la parabola è iniziata a decrescere. E all’inizio facevo fatica a tenere la bocca chiusa, cercavo di chiedere, chiacchieravo al limite del disturbo, ma vedevo che i colleghi senior, gente che veniva dai dueottosei e già chini sui terminali mentre io cercavo di realizzare i miei sogni facendo il musicista, a malapena tolleravano le distrazioni dai loro monitor a 256 colori.

Così per sopravvivenza mi sono adattato, è stato un processo naturale quello di iniziare a relazionarsi solo con il proprio elaboratore. C’erano le pause sigaretta, i caffè, il pranzo, qualche battuta, ma ormai avevo imboccato anche io la strada della granularizzazione totale, che è poi anche la morte sua del lavoro postfordista, ognun per sé e si fotta l’unione dei lavoratori, tanto c’è il pc e i colleghi si fanno tendenzialmente gli affari propri. E mi accorgevo che, pur leggendo come un forsennato, tenere i pensieri in gola per otto ore alla fine arrugginiva quel meraviglioso impianto di diffusione audio di cui l’individuo è dotato.

Ma se fai il programmatore, a parte chiedere quando hai bisogno, non serve scambiare battute con il dirimpettaio, anzi ti distrai e perdi il segno e devi rifare il flusso tutto da capo. Il grafico si blinda in cuffia e vola nel suo mondo della Suite Adobe, e ci si vede a fine progetto, ognuno con i suoi pezzi, chi ha scritto le parole, chi ha disegnato l’interfaccia, chi ha costruito il motore, si assembra il tutto, sempre sul computer, e poi bon. Per non parlare poi dell’avvento dei socialcosi, insomma avete capito dove voglio andare a parare, è comodo comunicare scrivendo perché rileggi tutto, cancelli i refusi (se li vedi), metti due faccine e schiacci enter.

Ed eccoci qui, soli con il ronzio del condizionatore, a scrivere testi e idee e progetti giorno dopo giorno nel silenzio assoluto, le dita su tastiere sempre meno rumorose, i più audaci le cuffie isolanti da cui non trapela nulla, non esistono quasi più nemmeno le stampanti con il loro rumore da telefilm di fantascienza. Alla riunione aspetti il report finale, se ci sono domande fai un reply to all, ogni tanto qualche squillo del telefono o la vibrazione di un cellulare di vecchia generazione, addirittura si percepisce lo sciacquone di chi è in bagno.

E se per caso devi parlare, la voce esce dopo un eh ehm di rito, la sensazione è quella di far passare un mobile ingombrante da una porta troppo piccola, provi a girarlo e rigirarlo ma non c’è verso, devi fare forza fino a quando esce tutto malconcio. Già, perché le cose in testa ci sono, magari un po’ impolverate, metti in ordine i sostantivi, il lessico fortunatamente aumenta giorno dopo giorno, libro dopo libro. Ma le casse gracchiano, forse i cavi non sono collegati correttamente, subentra l’imbarazzo, persino un po’ di rossore sulle guance, l’interlocutore che ti scruta perché ha fretta di sapere, ecco mannaggia quel dato da dire ha lasciato posto al panico da prestazione, la consecutio va in tilt come un qualsiasi programma che necessita di troppa memoria quindi meglio non usarla, tanto se devi dare risposte brevi e mirate chi nota se il congiuntivo è presente o passato. È passato? Mah. Poi ripiomba il nulla. Ciao, a domani, buona serata. Questo almeno è facile da dire.

quando è in gioco il futuro

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Sostenere colloqui non è un’attività che mi faccia impazzire. Nel senso di tenere il coltello dalla parte del manico, ovvero selezionare personale, scremare le papabili risorse umane per l’agenzia in cui lavoro. I motivi sono molteplici e anche facilmente intuibili. Intanto non è il mio mestiere, non ho studiato per analizzare profili e sintetizzare risultati conto terzi su personalità che potrebbero anche rivelarsi controproducenti verso il mio lavoro, una responsabilità che preferisco non accollarmi. Voglio dire, il mio metro di giudizio sul prossimo è personalissimo, non riesco a rappresentare il pensiero di una collettività come questa in cui le metriche e le variabili che applico nella scelta delle relazioni interpersonali da mantenere, o un banale tu mi sei simpatico e tu no, non hanno il valore oggettivo, determinante e utile allo scopo. Penso che ci siano caratteristiche che vanno oltre l’impatto a pelle che porti a casa da un incontro, no?

In seconda istanza, mi sento in imbarazzo, qui i criteri selettivi hanno alla base il “basta che costa poco”, congiuntivo mancato incluso, vige l’imperativo di lesinare proprio sull’aspetto più importante di una organizzazione impegnata esclusivamente nello svolgimento di un lavoro fatto con la testa, con la fantasia, con la precisione e il metodo, intendo il personale più adatto. Non invidio chi deve prendere una decisione così importante con così pochi elementi e in così poco tempo, comunque accorgersi di aver sbagliato profilo dopo un periodo di prova più o meno lungo può essere frustrante per tutti, a meno di non identificare subito lacune vistose sul lato esecutivo e pratico, quelle le noti in poco tempo e ti consentono un arrivederci e grazie anche nel giro di una giornata.

Ma per alcune mansioni, quelle creative, per esempio, è oltremodo complesso. E mi imbarazza anche il fatto di dover proporre stage, so che là fuori c’è la fila di ragazzi disposti anche a questo tipo di abnegazione, ma non ho i peli sullo stomaco sufficientemente folti e lunghi da mettere sui piatti della bilancia curriculum di studi e di esperienza, investimenti e sacrifici pagati con il lavoro dei genitori, aspettative e sogni da una parte versus un contratto di parcheggio durante il quale il prescelto non imparerà nulla di più di quello che sa, se non come lavorare in questa realtà che, come ogni azienda, è diversa dalle altre e quindi, quando lo stage finirà, dovrà ricominciare da capo in una nuova organizzazione con altre procedure, altre dinamiche, altri colleghi e, speriamo, altri trattamenti economici. Quando noto un eccessivo squilibrio tra la posizione ricercata e la persona che ho di fronte, cerco di mettere al corrente della situazione, sai ti troveresti a fare bassa manovalanza pagato male per poi non ottenere nulla, non mi sembra il caso.

E poi, indipendentemente dalla posizione ricercata, mi viene da fare domande che con il lavoro non c’entrano nulla. Ma mi immagino il trascorrere insieme tante ore al giorno per ogni giorno, la seconda vita che si vive parallelamente alla prima qui in ufficio, penso sempre che sia bello lavorare con persone con cui si va d’accordo. Che libri leggi, quali sono i tuoi registi preferiti, che musica ascolti, quali sono i tuoi interessi. Insomma, se devi lavorare con le parole, digitali o no, è importante comunque avere qualche punto di riferimento. E solo dopo aver sentito le risposte mi rendo conto di quanto sia inutile cercare se stessi negli altri, capisco che è sempre più nutrita la schiera di quelli più giovani di me e più giovani tout court, è un processo incontrovertibile, scambiare qualche battuta sullo scrittore in comune probabilmente non è così importante. Non lo è nemmeno sapere che tra le passioni di un candidato c’è giocare con la PS, anche se l’immediata associazione è con i compagni di classe di mia figlia, terza elementare, chiusi nella cameretta a sfogarsi sui videogame, sudati, nemmeno una pausa per un bicchiere di succo o un morso al pane con la nutella. A quel punto il colloquio è finito, cambio canale perché l’empatia si interrompe così, fine delle trasmissioni, grazie ti facciamo sapere. Game over.

mi sento fortunato

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È abbastanza facile lasciarsi prendere dalla disperazione, per chi fa un mestiere come il mio. Voglio dire, hai voglia a convincere aziende e imprese che i socialcosi sono utili anche per i loro affari, che il business corre sul duepuntozero, che è importante avere una strategia per spremere anche questa faccia oscura di Internet, in cui tutto è gratis, tutto è dovuto, non si capisce bene dove e come si possa guadagnare qualcosa, e allora bisogna contargliela su condita con tutti i neologismi del caso per confondere le carte, se siete online dovete esserci sempre, e come fate a esserci mentre state a costruire il vostro prodotto, chi gli risponde ai vostri amichetti su Facebook che si infervorano a mezzanotte e gli uffici sono chiusi e in quattro e quattr’otto la vostra reputazione è così inzaccherata che sembra Pig Pen dopo un match di baseball perché tutti i blogger della blogosfera, con o senza estintore in mano, hanno linkato la notizia urbi et orbi e siete belli che fottuti e ora mettiamo un punto che è meglio. Eh, troppo facile, nessuno ci crede più, non abbiamo nemmeno gli occhi per piangere, figurati se ci avanza qualche centinaio di euro per mettere per iscritto i nostri pensierini e farli sapere a un pubblico fatto di addetti ai lavori, che troverebbero comunque le notizie, e non addetti che comunque non le troveranno mai perché gli bastano le risposte di Yahoo. L’anno fiscale nuovo quindi comincia così, con un grosso punto interrogativo che non posso scrivere perché non trovo in nessuna combinazione di tasti, con un elenco di parole chiave che non finisce più ma così vago che nemmeno guggol è in grado di restituire una manciata di risultati utili, neppure in copia cache.

mille euro

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Un piccolo passatempo per i vostri momenti di relax sulla spiaggia, sempre che abbiate un dispositivo per leggere pagine elettroniche come queste. Vale anche per i pomeriggi di riposo all’ombra di un melo, in campagna (attenti alle vespe) o sdraiati su un’amaca nel vostro giardino, in qualsiasi località vi troviate a godervi le meritate ferie. Il gioco è il seguente: indovinate che cosa hanno in comune i seguenti personaggi misteriosi:

– una web developer talmente chiusa che non parla, e se deve parlare non ti guarda, e in ogni caso a fatica si capisce che cosa vuole dire, tanto rivolge la sua voce solo a se stessa, e se gli chiedi un report via mail ti manda una riga di testo, per di più incomprensibile
– un programmatore che somatizza il proprio stress in psoriasi, perdendo così tanta pelle da rendere necessaria la pulizia quotidiana del suo pc
– un addetto al montaggio video che, pur avendo un diploma di master sul curriculum, chiede sempre al suo responsabile come deve fare ogni cosa, dicendo che non ha idee e non sa come fare, tantomeno che musiche scegliere o che grafica utilizzare
– una grafica che impiega almeno venti minuti per salvare un file in pdf e mandartelo via mail, quindi torni da lei e le chiedi se non te lo ha ancora mandato, e lei ti dice che sì, te lo stava proprio mandando il quel momento
– una coppia di webmaster metallari che usano calzature invernali anche in estate, diminuendo la qualità della vita della comunità
– personale appartenente alla categoria junior che si vergogna a chiamare al telefono clienti e fornitori, se deve comunicare qualcosa anche di urgente usa la e-mail, ma in fondo è meglio così perché, fatta eccezione per l’argomento videogiochi, non è in grado di articolare discorsi di senso compiuto e comunemente comprensibili
– personale appartenente alla categoria junior che, anche dopo anni di attività, necessita di essere seguito otto ore al giorno, la sedia vicino e il fiato sul collo, proverbialmente e non, e controllare le cose che fa, suggerire come farle, controllare i testi in caso di modifiche dettate a voce
– un nutrito numero di collaboratori appartenenti alla categoria junior che non conosce l’abc del comportarsi sul posto di lavoro
– un nutrito numero di collaboratori appartenenti alla categoria junior che non conosce l’abc del comportarsi in meeting con clienti, per esempio giocherellando con l’iphone a tavola durante una cena di lavoro
– un collaboratore appartenente alla categoria junior che si fa la piastra ai capelli, si depila braccia e gambe, preferisce sperperare il proprio stipendio in tecnologia consumer anziché, per esempio, rendersi indipendente dai genitori, e sogna di possedere un SUV bianco
– personale appartenente alla categoria junior che non sa quantificare tempi e fattibilità di ogni lavoro rientrante nelle sue competenze
– un art director che, dopo un brief che comprende indicazioni su come impostare la creatività e le stesse headline su cui lavorare per la grafica, dopo tre giorni non è riuscito a pensare ad alcuna idea; quindi occorre mettersi lì e con calma impostare insieme il tutto, lasciando all’art director alla fine, vista la scadenza dietro l’angolo, solo il ruolo di braccio operativo.

Ecco, provate a indovinare. Potreste vincere una giornata in compagnia del vostro team di lavoro preferito.

al corriere cercano un photo editor

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in bilico

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Sono usciti tutti insieme, in pausa pranzo. Una decina, a esagerare non più di ottomila euro al mese netti in tutto e nessun contratto più lungimirante dell’inverno prossimo, una buona metà con accenti del centro e del sud, tra i venticinque e i trent’anni, vestiti nel modo fintamente trasandato in cui ci vestiamo tutti noi. La busta di tabacco che spunta dai pantaloni, le tasche sotto il culo, all star colorate ed eccezionalmente un paio di birkenstock, t-shirt, tagli di capelli che usavano quando facevo il liceo io, ma ora mescolati a barbe di qualche giorno e innesti giustamente contemporanei, e che diamine, sono passati trent’anni e in trent’anni qualcosa sarà rimasto. La collega più intraprendente ha buttato lì l’idea di andare tutti insieme a mangiare in quel posto carino che ha visto l’altro giorno, ma non è ancora praticissima della zona e quindi ha paura di non trovarlo. Non vuole prendersi la responsabilità di far sprecare il tempo della pausa pranzo al resto della compagnia. Ride e scuote il ciuffo bicolore, non importa se non lo troviamo, al limite se si fa tardi va bene il primo bar che incontriamo e ci infiliamo dentro. Mi sembra che sia in questa direzione. Siamo usciti dal portone insieme, anche io mangio a quell’ora, fuori c’è un po’ d’aria, mi arriva in faccia il fumo delle loro sigarette. In questa estate che non sembra nemmeno quasi più estate e dovete ancora fare le ferie, penso chissà come sarà agosto, chissà se avete prenotato, se l’agenzia in cui lavorate chiude o fate i turni, tornate a casa o siete riusciti a organizzarvi un viaggio, che tempo troverete. O no, mi direte, i soldi sono pochi, chissà poi se ci prolungano il contratto a progetto, meglio stare schisci. E se avete trovato il bar tavola calda e fredda dove la vostra guida oggi ha insistito affinché andaste, a pranzo magari avrete parlato di questo, chiedo io. O forse no, mi direte, ormai la precarietà è un dato di fatto, ci siamo cresciuti, abbiamo imparato a convivere, non ci facciamo più caso, è una parte di noi, è la quotidianità, è la notte e il concerto e la colazione e il finesettimana. La precarietà è un’amica, anzi, è una collega, viene pure a pranzo con noi, siede a tavola e ordina la sua piadina e l’acqua a temperatura ambiente e il marocchino per chiudere. Poi torniamo tutti insieme in ufficio, che la pausa pranzo sta per finire, carino il posto in cui ci hai portato, sì si spende poco e non è male la qualità. Sì, risponde la precarietà, davvero, mi fai rollare una sigaretta con il tuo tabacco?

non mi avrete mai

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E un giorno capita che ti chiamano da un’agenzia a cui hai inviato il curriculum un po’ frettolosamente, senza informarti prima o fare un giro sul loro sito, controllarne la web reputation, capire chi sono, che progetti fanno, chi sono i loro clienti. Un approccio grossolano che ha avuto la peggiore delle conseguenze. Dietro quell’annuncio si celava l’agenzia del nemico, quella che ha ideato un sito dedicato alla personalità del tuo principale avversario politico di cui si sono burlati tutti, che si è fatta sgamare altre ultime amministrative per un sistema improvvisato di aumento visite e traffico nelle pagine dei siti social. E ti valuta lui, l’Amministratore Delegato, con le iniziali sulla camicia, e in quel momento lì ti trovi a solo un grado di separazione dal tuo incubo. No way man, come si dice nei film americani non doppiati. Nemmeno per tutto l’oro del mondo. No way. Scusi, quanto ha detto? Xxxx euro al mese a tempo indeterminato? Ehm…