il post fisso

Standard

Quando l’argomento di discussione diventa unico e inevitabile e inevitabilmente se ne parla con quei toni aspri tanto che bruciano poi lo stomaco con tutto quello che mangi di contorno, allora è bene l’isolamento, qualche pagina di libro, il giornale online magari no perché poi leggi dell’articolo 18 e visto che l’argomento è attinente allora tanto vale accettare l’invito per la pausa pranzo con i colleghi. Le cuffie e qualche canzone primaverile, la playlist per i momenti di fuga, tanto il telefono non squilla e le email non arrivano? No, meglio ancora un panino e una mela a spasso per i dintorni, quel po’ di verde che c’è fuori con tutti quelli che cambiano l’aria come te e che lasciano squagliare al sole le placche che l’istinto di sopravvivenza ti fa solidificare sulla pelle. L’immagine è un po’ trash ma il momento giustifica gli anticorpi. E magari ci si addormenta pure sulla panchina.

passare in vantaggio competitivo

Standard

Certo che, una partita iva dopo l’altra, le aziende possono scalare la classifica del loro mercato e raggiungere il primato tagliando tutti i costi del lavoro per il profitto. Che poi uno gli dice che va bene, posso anche considerare di trasformarmi in un libero professionista a patto che io sia libero veramente, libero di scegliere come e quando e dove lavorare e con la flessibilità di orari che dico io, avere più clienti contemporaneamente perché altrimenti a che serve la partita iva. E poi è questo il bello del procedere a obiettivi, no? Eh, apriti cielo. In campo occupazionale, nessuno è arbitro del proprio destino. Ma non si può pretendere che uno faccia parte di una squadra in esclusiva quando l’esclusiva non è biunivoca, le sostituzioni prima della fine della partita fanno parte addirittura della strategia di gioco.

modestamente

Standard

Nel settore in cui lavoro uno dei paradigmi è il “sì, sempre, subito” con cui ci si relaziona ai clienti, il che può anche risultare una strategia vincente. A rendersi disponibili con continuità sicuramente ci si guadagna la cieca fiducia di chi commissiona i lavori, che avrà la certezza di contare incondizionatamente su di voi, e su questo siamo d’accordo. Il problema è il subito. Lavorare di fretta è una condizione piuttosto normale nel mio ambiente, è la prima cosa a cui devi essere disposto quando vieni ingaggiato e te lo chiedono persino ai colloqui. La capacità di resistenza allo stress, che bene o male coincide proprio con l’attitudine a questi ritmi, vale più di qualsiasi skill, e lo stress consiste proprio nella predisposizione a gestire progetti con consegna dall’oggi al domani, dalla mattina alla sera stessa, da un’ora all’altra. Che non è una questione di fatica fisica, perché non è che ci venga richiesto di trasportare a mano centinaia di sacchi di cemento su per cinque piani di scale a tempo record.

Le lavorazioni svolte in un pomeriggio anziché in un paio di giorni, quello che si considera il tempo sufficientemente adeguato per trovare con la dovuta concentrazione la forma più adatta, scriverla, rileggerla a freddo almeno ventiquattr’ore dopo con la possibilità di apportare qualche modifica per limare i passaggi meno fluidi, mostrano comunque i loro limiti. Può succedere che lo standard si abbassi e i risultati, anche se si raggiungono, siano di qualità inferiore a causa della mediocrità o, peggio, della banalità del prodotto, come una maglia di lana che costa poco e che alla terza volta in cui la indossi si riempie di pallini e si sforma. Certo, può capitare che l’illuminazione ti giunga all’improvviso e questo improvviso sia qualche minuto dopo l’inizio dei lavori. Ma anche no. Ma sempre più mi si fa notare che questo tassello della filiera produttiva ha impatto pari a zero sul progetto complessivo, sia che si tratti di una figata o no. Qui non siamo l’Armando Testa, sento dire, e guardandomi intorno ci se ne rende conto. Ma se alla fine non cambia nulla, non c’è nessun valore aggiunto, nessuna ricaduta sull’economia, allora tanto vale fare le cose con più calma, almeno così mi risparmio l’esaurimento nervoso.

alla ricerca del tempo perduto

Standard

Poveri perditempo, mi metto nei loro panni anche se non faccio grande fatica in giornate come questa, è venerdì e c’è il sole, e penso a quanta astinenza debbano praticare nella loro vita quotidiana e a quanto ostracismo abbiano subito nella storia dell’umanità e del mercato globale visto che a loro è dedicata una delle più celebri locuzioni intimidatorie. Una di quelle diciture standard che non attirano più l’attenzione perché siamo troppo abituati a leggerla o ascoltarla in un particolare contesto, quello degli annunci di lavoro o collaborazione, e non dubitiamo che il testo si concluda proprio con quella formula tanto che gli spazi dedicati alla ricerca di personale dovrebbero inserirlo di default in calce e offrirlo gratuitamente agli utenti, ammesso che applichino un costo a parola. E poi nessuno si è mai spiegato perché un perditempo dovrebbe candidarsi per una posizione in un’azienda che cerca collaboratori. Quale obiettivo spinga un pelandrone a cercare di fare fesso un datore di lavoro facendosi assumere per poi batter la fiacca impunemente. D’altronde c’è da chiedersi come si riconosca un perditempo a un colloquio. Portato al cazzeggio è una voce che nessuno scriverebbe mai sul suo profilo. Oppure, tra gli hobby e interessi, cose tipo “sviluppo di attività di social networking personale durante le ore di lavoro”, o dipingersi come “costretto a pause sigaretta ogni quarto d’ora causa dipendenza dalla nicotina”, “disponibile all’imboscamento nel lavoro in team”, “dotato di attività cerebrale rallentata”. Ora, immagino le vostre reazioni, tutti quanti starete pensando al vostro collega che lavora a bpm ridotti tanto che voi dovete sgobbare il doppio o a quante volte avete invocato Brunetta come deus ex-machina contro i dipendenti pubblici come voi ma che a differenza vostra si impegnano al minimo. Insomma, in tempi di messa in discussione dei diritti dei lavoratori e di disoccupazione ai massimi storici, pensare che chi cerca lavoro lo faccia per oziare da stipendiato e senza essere scoperto è oltremodo anacronistico, mettere i bastoni tra le ruote di una macchina già difettosa di per sé è un atto scellerato. C’è una vecchia battuta da musicisti, sapete, i musicisti sono persone con un senso dell’humour tutto particolare. Una band mette un annuncio: cercasi batterista, astenersi perditempo. Vabbè, torno al lavoro.

più di là che di qua

Standard

Si passava da una festa all’altra, a quanto pare c’era sempre qualche cosa da festeggiare. Un compleanno o una laurea, il vernissage di una nuova casa o la dismissione di quella precedente, la festa d’addio di qualcuno. Eventi organizzati da privati che poi alla fine diventavano pubblici tanto che in certi appartamenti c’era paura che il pavimento crollasse, case antiche i cui costruttori non avevano minimamente pensato alla portata massima in peso, con l’aggravante del ballo che non so se peggiori la situazione, ma suppongo di sì. Una sera proprio per una casualiltà di questo tipo aveva avuto origine una sorta di leggenda metropolitana, il piano su cui si affacciavano i due appartamenti i cui proprietari avevano unito gli sforzi organizzativi si era crepato, stiamo parlando di una abitazione medioevale che forse aveva resistito ai saraceni ma non al centinaio di giovani adulti ospiti dell’artista tedesco e della sua vicina.

Ma il bello di quella trovata era che si poteva passare da una casa all’altra. Da una parte c’era la musica, l’appartamento A comprendeva una sala abbastanza grande per un party danzante, e malgrado la penombra riconoscevi le solite facce, quello altissimo biondo amico di non ricordo chi, l’architetta con i capelli corti e gli occhiali da nerd che si metteva a piedi nudi per ballare quando era ubriaca, ma non pensate a balli sfrenati o a chissà cosa. La musica era molto sofisticata, da club, poco rock e più sul versante dub e elettronico, fino alla lounge che era per palati fini.

Dall’altra, l’appartamento B, si poteva mangiare e bere, i meno danzerecci restavano in pianta stabile lì a spettegolare su tutto, danzerecci compresi. Immancabili i due proprietari del negozio di abbigliamento femminile del centro, oramai con i capelli bianchi ma elegantissimi nei loro dolcevita attillati, due molto raffinati che malgrado le vite sentimentali disastrose non avevano mai ammesso la loro attrazione reciproca o forse si ma la cosa non era di dominio pubblico. Stazionavano nei pressi di un catino pieno di un cocktail colorato che sconsigliavano apostrofandolo come sciacquatura di coglioni. Poco invitante, decisamente.

Poi così come ci si sentiva straordinariamente a proprio agio e pervasi da un divertimento mai provato sino ad allora, così a un certo punto ci si ritrovava fuori, in più di quelli con cui la serata era cominciata, e pronti a tirar tardi in un locale o in un’altra festa. Non era facile per gli outsider venirne a conoscenza, si trattava di un ambiente piuttosto esclusivo e ristretto, ma gli inserti di nuova linfa umana, quasi sempre maschile, erano tuttavia percepiti come un segnale positivo.

E non era nemmeno il caso di portare nulla, in caso di invito, chi metteva a disposizione la propria casa aveva tutto e un gesto di cortesia, un paio di bottiglie o una torta salata, sarebbe passato inosservato. Gente come il gemello insopportabile della coppia di omozigoti praticamente indistinguibili a malapena si accorgeva della tua presenza in casa sua, quel gigantesco labirinto strappato a un prezzo di affitto irrisorio alla curia con cui aveva forti agganci di famiglia. Portare un vino pregiato significava versarlo direttamente nel cesso, troppa superficialità. E anche quando te ne andavi oramai erano tutti troppo sbronzi per notarlo, non aveva senso nemmeno ringraziare il padrone di casa. Fare conversazione era comunque estremamente semplice, era sufficiente non lesinare in complimenti a chiunque ti rivolgesse la parola. A meno che non si decidesse di sparlare su qualcosa o qualcuno, ma occorreva aver ben chiaro chi fosse in buoni rapporti con chi.

Poi, e probabilmente è successo nell’ultima festa di quella stagione di spensieratezza, ci smascherammo a vicenda, eravamo entrambi così stremati dalla vita professionale che lasciavamo con serenità che nel weekend ci fosse qualcuno – il nostro partner di allora – che guidasse per noi. Ci incrociavamo agli stessi orari due volte la settimana, ogni lunedì mattina e ogni venerdì sera, e c’era già abbastanza materiale da unirci in cameratismo. Il fatto che qualcuno mi avesse riconosciuto pur conoscendomi di meno di tanti altri mi fece sorridere amaramente, sapete quel sorrisetto che si fa quando ci si trova a imitare gli attori cool dei film. C’erano un paio di birre nel frigo, forse le ultime ma sarebbe troppo scontato per un finale della storia, tutto da trascorrere giù in strada a progettare di mettere su una agenzia new media a Milano.

riavvia il sistema

Standard

L’ultima volta che mi è successo mi sono messo a dormire, erano le tre del pomeriggio ma mi sono coricato lo stesso e ho dormito tutto il giorno e la notte fino alla mattina successiva, non mi sono svegliato nemmeno per la cena. Avevo diciassette anni in meno di ora. Ogni tanto aprivo gli occhi ma capivo di non aver avuto sufficiente ristoro, quindi li chiudevo e incredibilmente mi addormentavo di nuovo, come se fossi in grado di comandare perfettamente il fisico. In quel periodo però soffrivo di incubi perché passavo le giornate a macinare codice e di notte sognavo di risolvere i miei problemi personali con le funzioni e le routine, se stai per perdere il lavoro fai un ciclo for(i = 1; i <= myChances; i++) in cui la variabile myChances contiene il valore di quanto hai seminato e quello che puoi raccogliere come ti insegnano i grandi saggi, quelli che ti danno i consigli perché non sono nella tua situazione. L’affitto del monolocale e le rate del PowerPC erano il rimando alla realtà, ogni volta in cui in quel loop onirico si ripartiva con una volta in più c’era una minima consapevolezza che essere un programmatore non retribuito non ti risolve nulla. Questo per dire che aspettare immobile non era tanto una forma di protesta contro gli eventi, ma un modo per ricominciare almeno con le pile cariche. Ma avrei continuato così se non mi fosse capitata nel giro di qualche giorno una nuova occasione, quella che stavo aspettando, perché è incredibile ma a un certo punto succede qualcosa di bello e ti stupisci che agli altri invece no, era squillato il telefono, ero stato convincente con un nuovo datore di lavoro, e da allora fortunatamente non mi sono più fermato. Ora non ho un affitto perché nel tempo sono riuscito ad acquistare una casa, non ho rate perché il Mac costa troppo e mi sono convertito ai più economici PC, e soprattutto posso affrontare un periodo di ricerca di un nuovo impiego non più da solo. Tenere famiglia, come si usa dire, è una preoccupazione in più, ma in questi casi è anche un bel genere di conforto.

l’astronauta

Standard

Mia figlia e la sua compagna di classe/amichetta del cuore non riescono a parlare e camminare allo stesso tempo, finisce che loro sono davanti e le sento chiacchierare mentre imbocchiamo il vialetto pedonale che porta verso l’ingresso della scuola e se rallentano perché entrano nel vivo di una conversazione mi spiace dover ricordare loro che la prima campanella sta per suonare, perché corro il rischio di distrarle dall’argomento che stanno dibattendo. Stamattina si discorre di grandi progetti. “Mio padre dice che le donne non dovrebbero fare lavori come guidare i camion della spazzatura, proprio non ce le vede”, dice l’amica. “Perché? Non ci sono lavori da maschi o da femmina, ognuno può fare il lavoro che vuole”. Poi mia figlia si gira verso di me, e mi svela il segreto. “Lei vorrebbe fare la stilista di moda”, riferendosi all’amica.
Mica male, penso ad alta voce, e le chiedo se sia vero. “Sì, mi piace disegnare e cucire, una brava stilista deve sapere anche disegnare molto bene. La Matilda invece vuole fare la pasticciera”. Mia figlia le fa notare che il sogno della comune compagna di classe non è semplice da attuare, perché magari prepari i bon-bon, così li chiama, e poi ti cadono tutti mentre li sforni e devi rifarli da capo. Non capisco da chi abbia preso questo velato pessimismo cosmico. Quindi ci mette al corrente dei suoi piani. “Io ho tre possibilità: l’attrice, la maestra o la dentista. Così potresti venire da me a farti curare, e io con il trapano TRRRRRRRRR un dentino! TRRRRRRRRR un altro dentino! TRRRRRRRRR ancora un altro dentino!”. Le lascio intente in questa drammatizzazione di non so quale cartone animato, e mentre mi allontano resta il tempo per togliere un dubbio. “Ma tu hai scelto il lavoro che fai o volevi farlo davvero?” mi chiede la sua compagna di classe, e mi scappa da ridere perché formulata così la domanda lascia una finta alternativa di risposta. Ma forse la bambina ha ragione, non ci sarebbe stata via d’uscita. Non a caso ora, in cui la situazione è quella che è, sempre più precipitevole e apparentemente senza futuro, tento una proiezione ma non saprei proprio da dove ricominciare. Anche solo per raccogliere aneddoti, un minimo di prospettiva ci vuole, no?

tutto io

Standard

Il mio istinto sarebbe quello di coprirmi le orecchie a intermittenza e lasciar defluire il tuo fiume di inutilità cantando una canzoncina come fanno gli adulti che imitano i bambini, ma la costanza con cui cerco di far prevalere la componente razionale di me, che mi vuole accondiscendente e benevolo verso il prossimo, in un’ottica commerciale s’intende, è mirata solo all’obiettivo di trovare un punto per fare breccia nel tuo egocentrismo e colpirti con una domanda, una di quelle a cui non sei più abituato almeno da quando eserciti immeritatamente il tuo potere. Solo una domanda, che agirà come un cavallo di Troia nel tuo essere egoriferito separandosi in particelle programmate per diffondersi come un virus informatico a tutti i livelli, decine centinaia e migliaia di stralci di codice che ti indurranno a cercare una risposta che non troverai da nessuna parte. Non nella tua memoria, che ha conservato solo le informazioni in uscita. Non nelle tue mani, abituate a stringere nodi di cravatta allo specchio. Non nel resto del tuo corpo, allenatissimo a muoversi innaturalmente sotto macchine da palestra sovraccariche di pesi. Così, esaurito il tempo regolamentare per elaborare una reazione verbale degna di te e di tutto quello che rappresenti, che non arriverà mai, tutte le particelle si ricomporranno al centro della tua scatola cranica tutt’altro che irsuta come componenti tecnologici di un robot in un cartone giapponese. A quel punto si attiverà una forza centripeta tale da indurre la parte superiore del tuo corpo, quella che dovrebbe essere stata progettata per guidare il resto, a un fenomeno raccapricciante di implosione degno di un b-movie splatter, dal quale si librerà nell’aria una nube di vapore a forma di punto interrogativo, quello che avresti potuto mettere al termine di una banalissima richiesta di chiarimento anziché cercare, come sempre, la soluzione nelle tue sovrumane capacità professionali.

dopolavoro

Standard

Sarà stato l’effetto della scossa sismica di ieri se ti si è rovesciato tutto il lavoro addosso e adesso, anche oltre l’orario di ufficio, ce l’hai appiccicato sui vestiti, puzzi di riunione e di brief e si vede che non vedi l’ora di cambiarti, tornare a casa e metterti qualcosa di pulito e di comodo nel tuo appartamento che condividi con altri ragazzi come te che si chiederanno cosa è successo. Ma la giornata lavorativa non finisce con il suono di una sirena o un cartellino timbrato, queste cose si vedono oramai solo più nei film in bianco e nero, e quello strumento di comunicazione che ti segue ovunque, personale perché di tua proprietà anche se te lo hanno regalato mamma e papà per festeggiare il tuo primo impiego pardon, la tua prima collaborazione continuativa, quella mattonella con la plastica touch screen che ora tieni inclinata tra bocca a orecchio e alla quale stai rivolgendo una serie di giustificazioni in risposta all’accusa di un invio di formati di file sbagliati, è solo uno dei numerosi link che rimandano la tua vita privata a quella postazione che hai lasciato vuota poc’anzi, con il monitor in stand-by.

Ora, mentre dirigi parole a un dispositivo sproporzionato per la semplice funzionalità di trasferimento voce che dovrebbe assicurare, scruti il vuoto che hai davanti ma che vuoto non è, perché ci sono io e c’è un sacco di altra gente, ma tu hai eretto una barriera artificiale che vedi solo tu e che osservi sbigottito come se fosse un desktop virtuale sul quel stai cercando convulsamente la risposta giusta da dare a quell’interlocutore che è in grado di raggiungerti ovunque. Qui, tra un’ora a casa, magari stanotte mentre stai dormendo ti telefonerà per chiederti di risolvere il suo problema e tu dovrai riferire tutto domani al tuo responsabile, che c’è stato un problema di formati e di estensioni e di versioni differenti di programmi, ma se a malapena la chiamata personale ti sarà rimborsata dall’azienda che già ti sottopaga tutto il resto, il tuo essere quello che fai 24*7 giorni festivi inclusi non ti verrà mai restituito da nessuno, e l’aver consumato l’esistenza giorno per giorno a piccole ma sostanziali porzioni per colmare le difficoltà di bilancio altrui non diverrà mai una competenza riconosciuta ufficialmente in grado di fare curriculum, e al prossimo head hunter che ti esaminerà apparirà solo come una normale menomazione fisica di gravità insufficiente per autocertificarsi appartenente a una categoria protetta riconosciuta.

comunicazione d’impresa

Standard

Un addetto alla distribuzione di volantini pubblicitari si aggirava questa mattina tra i condomini per esercitare la sua mansione, giovane e insufficientemente attrezzato per il clima polare di questi giorni. Lo ho notato solo perché stava approfittando della presenza, fuori sul marciapiede, dei contenitori per la raccolta differenziata della carta, essendo oggi giorno di presa. Il collega – in molti siti di offerte di lavoro tale profilo viene fatto rientrare nella mia stessa categoria di operatore marketing, giustamente – afferrava corpose manciate di depliant di un noto megastore di elettronica della zona e li riponeva direttamente lì, alla fine del ciclo di vita di quei prodotti pubblicitari, accorciandone la durata già di per sé molto breve. La sua intenzione era probabilmente quella di liquidare il più in fretta possibile il compito quotidiano, viste le condizioni climatiche. O forse, ingannato dalla presenza in quei contenitori di altri volantini dei principali competitor del suo datore di lavoro, magari era il suo primo giorno e non aveva ricevuto sufficiente affiancamento, ha pensato che quello fosse il posto giusto in cui riporli. Tutti gli abitanti della zona, ogni sera, aprono quel bidone e scelgono i suggerimenti per gli acquisti, in effetti è un processo che non fa una grinza. E sicuramente meglio lì dentro che nei cestini in cui si getta la spazzatura indifferenziata. Ma, in un caso o nell’altro, e anche considerando che il gesto ha anticipato solo di qualche ora il mio e quello dei miei vicini di casa, tutto ciò è la dimostrazione che c’è qualcosa che non va nell’economia mondiale, da qualunque parte la si osservi.