piccoli omicidi tra colleghi

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Io ho sempre lavorato in aziende piccole se non piccolissime, dove non c’è bisogno di intervenire con attività di team building perché il team building lo si fa sul campo portando a termine i progetti entro le scadenze. Anni fa poi non c’era nemmeno il tempo, si sgobbava da mane a sera, spesso festivi compresi, la pausa pranzo era un panino davanti al pc, e ci si levigava l’un l’altro un modo da essere alla fine tutti pezzi complementari ancor prima di pensare al bene dell’azienda. Nel senso che se non ti adattavi ti sobbarcavi uno stress aggiuntivo allo stress della produzione, quindi o rimanevi facendo compromessi, o rimanevi con l’esaurimento nervoso, o te ne andavi, o ti licenziavano. Poi c’erano quelli che si plasmavano a seconda dell’ambiente con il sorriso sulle labbra e magari il naso un po’ sporco di polverina magica, che visti da qui alla fine erano anche i più fortunati. Tutte le attività collaterali erano business in meno, compresi i kick off e i week-end nei parchi avventura e la formazione sul nulla. Ci pensavo stamattina mentre ascoltavo di straforo una conversazione tra due colleghi, non miei ma colleghi tra di loro, lui col borsello Calvin Klein e lei con la schiscia in una borsa di tela di quelle che si stampano come gadget per eventi, che si scambiavano confidenze sul fine-settimana aziendale trascorso non so dove a discutere (senza mettere in discussione) di strategie aziendali. Perché probabilmente il bene individuale di queste grandi società che sono anche micro-società è il bene comune, quindi maggiori profitti e quindi il bene che diventa ancora meglio. Almeno in teoria. Io che non ho mai partecipato a queste iniziative pensate per favorire la coesione tra dipendenti e collaboratori sono piuttosto scettico, le differenze tra il capitale umano sono una risorsa e il tentativo di trovare un denominatore comune a tutti i costi è svilente per chi è sufficientemente intelligente da sapere come ci si comporta sul posto di lavoro. Semmai il problema è cercare persone che siano consapevoli di ciò anziché tirare a bordo il primo venuto e cercare di convincerlo che ci sono modi più efficaci dei suoi. Ma, in tempi di crisi, conferire consulenze su cose come la PNL è considerato un investimento, o almeno un modo per spartirsi le briciole. E, detto tra noi, con certi colleghi non ci condividerei nemmeno un mp3. Figurati il mio tempo libero.

un lavoro di squadra

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La prima cosa che mi chiesero fu se fossi doriano o genoano, in perfetta linea con il desiderio primitivo di categorizzare il nuovo membro del branco secondo quella dicotomia calvinista tipica di alcune città divise a metà da un muro ideologico, più che fisico. Io però non seguivo il calcio almeno da quando Berlusconi era entrato a gamba tesa nel campionato italiano e anche quella era stata una parentesi. Mi avevano entusiasmato qualche anno prima alcune prodezze sportive dell’Internazionale che aveva conquistato uno scudetto con un punteggio record in classifica, un’infatuazione durata pochissimo e terminata con la cessione di Diaz che lasciò il posto a Jurgen Klinsmann e la conseguente rottura dell’equilibrio che aveva portato i nerazzurri a un successo così ampio. In tutto una ventina di mesi di tifo. Prima di quello, l’ultimo ricordo che ho di me davanti a un schermo intento a seguire una partita risale ai mondiali del 78, io in lacrime dopo i due gol che Dino Zoff aveva subito contro l’Olanda da due tiri da lontano e mio padre che mi minacciava dicendo che non mi avrebbe più lasciato seguire un incontro se non avessi imparato a dare la giusta gravità a una sconfitta della nazionale.

Così quando in occasione della prima uscita a pranzo con i nuovi colleghi mi venne rivolta questa domanda dall’ingegnere che era anche uno dei due soci dell’azienda con cui avevo da qualche giorno iniziato a collaborare, rimasi sbalordito perché erano quasi dieci anni che saltavo a piè pari le pagine sportive di Repubblica e anzi al lunedì non compravo nemmeno il giornale perché ritenevo la percentuale degli articoli dedicati al campionato indegna per una società sviluppata dell’occidente europeo come la nostra, o almeno come mi illudevo che fosse. Ma dovevo aspettarmelo che iniziando a lavorare per una software house ad alto tasso maschile e ingegneristico le probabilità di essere messo di fronte a domande come quella potessero essere elevate, è che speravo che il momento non arrivasse così presto. Così proprio mentre percorrevamo in linea i portici di Sottoripa direzione Gran Ristoro per raggiungere una tavola calda molto più dozzinale della paninoteca più fricchettona di Genova, il boss mi mise davanti alle mie responsabilità e lo fece a tradimento, dinanzi a tutti i miei nuovi colleghi.

Il primo istinto fu quello di inserire un elemento di discontinuità dichiarando la mia passione per una squadra oggettivamente più forte, un argomento che avrebbe messo a tacere ogni discussione se non su presupposti campanilistici. Ma non mi andava di dire tengo per l’Inter o la Juve o tantomeno il Milan di Forza Italia. In seconda istanza pensai a un outsider, ricordavo un mio compagno di liceo che era un supporter della Fiorentina ed era ligure quanto me e tu non potevi dirgli niente perché era sempre fuori dalle dinamiche competitive, così pensai alla stessa Fiorentina o al Torino o al Brindisi che aveva una divisa che mi piaceva da morire, bianca con una v blu davanti e avevo anche la squadra del Subbuteo. Ma se poi qualcuno fosse andato in profondità con domande tipo che ne pensi di quell’attaccante venduto o di quell’altro terzino più forte della serie B, avrei potuto fare una figura pessima e precludermi la fiducia se non addirittura la carriera futura. Che con il senno di poi forse avrei fatto meglio a finirla prima di incominciarla, ma questa è un’altra storia.

Così decisi di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità e confessai che, in fatto di calcio, mi ritenevo agnostico. Mai termine fu però più fuori luogo perché l’ingegnere capo aggrottò le sopracciglia forse pensando in quale team potessero riconoscersi i tifosi agnostici, d’altronde c’è anche una squadra di Bergamo che si chiama Atalanta, ma non voglio pensare che non conoscesse il significato della metafora che avevo usato per schernirmi in modo così poco virile. Ed è anche probabile che si sia sentito un po’ preso in giro e lui, in quanto maschio alfa designato per la superiorità di grado, abbia visto attentare alla sua autorità con un vile gesto anarchico del primo venuto. Così l’ingegnere capo liquidò la conversazione con un sogghigno e per riconquistare il territorio perduto si rivolse ad alzare la gamba dove sapeva di trovare terreno fertile per uno scambio di battute sul derby imminente, quell’altro ingegnere che come nelle più classiche storie di vita in azienda si lasciava battere a squash per scalare l’organigramma societario. Sentendomi in colpa e con l’obiettivo di sdrammatizzare il confronto, sfidai la sorte ordinando a pranzo lo stesso piatto che aveva scelto l’ingegnere capo, un secondo scaldato da schifo al microonde, e al suo commento di approvazione a suggello di inequivocabili versi di soddisfazione rincarai la dose, esaltandone le qualità organolettiche ma usando una terminologia più alla portata.

aspetto che si libera

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Credimi, ti capisco. Capisco quanto sia alienante stare seduto tutto il giorno in un ufficio in centro davanti a un Macbook Pro a scrivere cose nelle quali non credi perché fare comunicazione è principalmente una finzione. Lo so, nessuno è convinto che tu abbia interiorizzato così tuoi i prodotti dei quali esalti le caratteristiche, non per questo quando il tuo lavoro che ormai è industrializzato quanto la produzione di un’automobile arriva a destinazione, le persone e le aziende che leggono quello che ti sei inventato decidono grazie a te che compreranno quello che consigli tu ed è questo che conta. Ma tra gli addetti ai lavori è chiaro che il tuo ruolo è pari a quello di un attore che a seconda del copione recita la sua parte. Il che, come dici tu, è oltremodo avvilente. Per questo sono convinto che sia ovvio che dopo tutti questi anni tu sia giunto al capolinea, che i clienti e i loro product manager ti abbiano spremuto a sufficienza. E sempre per questo quando mi dici che basta, che vuoi licenziarti da un impiego a tempo indeterminato per metterti in proprio, io sono orgoglioso di te e non posso che ammettere che tu stia facendo la cosa migliore. Davvero. Avrai facoltà di scelta, avrai pieno controllo della tua vita professionale che per un errore che è tutto nostro coincide sempre più con quella personale, potrai dire si o no a quello che i clienti ti proporranno. Finalmente libero. È giusto che sia così: dai le dimissioni, intraprendi la tua strada, sii artefice del tuo futuro. E avvertimi quando lo farai, così potrò inviare il mio curriculum e candidarmi al tuo posto.

mettere in bolla il presente

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Ma quanto è cambiato, se è cambiato, il nostro lavoro da quando abbiamo iniziato? Ne parlo con un amico con cui ho condiviso gli albori per poi intraprendere carriere diverse, e senza considerare la naturale evoluzione del percorso compiuto – ci diciamo – ci sono numerosi segnali da tenere in considerazione. Che poi parlare di naturale evoluzione oggi non ha più senso, non si entra più al piano più basso e si scala la gerarchia fino ai vertici per andare in pensione da manager come si faceva un tempo, questo perché non ci sono piani bassi, spesso non c’è gerarchia e nella maggior parte dei casi non ci sono nemmeno più le aziende, che nel frattempo cambiano nome e ragione sociale fino a farsi acquisire o controllare e poi chissà. Sempre che non vengano smantellate prima. Ma se ti va di culo e sei in una realtà più o meno resistente non c’è più quella tendenza per cui cresci e sgomiti per raggiungere il top. Continua a leggere

poca esperienza

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In ufficio, tra colleghi, ci si dà del tu e le ragioni sono molteplici quanto ovvie. Seconda e terza persona sono di ostacolo alla collaborazione e ai buoni rapporti interpersonali anche verso i vertici, creano barriere alla comunicazione e formano gerarchie verticali che vanno a ridurre la confidenza tra i collaboratori. Non solo: impediscono di portare al lavoro quella parte di noi stessi che altrimenti lasceremmo a casa e di cui le aziende si fanno vanto, e non lo dico come una cosa negativa. D’altronde, non so voi, ma io qui ci passo otto ore e cerco di essere più a mio agio possibile.

Nel mio ambiente, poi, siamo tutti giovani e lo so, ho scritto siamo anche se io sono tra quelli più vecchi, ma anche in aziende più tradizionali e abbottonate non ho mai sentito darsi del lei. Poi si prende esempio dalle aziende americane grazie alla diffusione delle multinazionali in cui l’inglese è la prima lingua e lì, come sapete, tra tu e voi non c’è differenza. Anzi, se mi permettete una battuta un po’ antipatica, nel mio ambiente forse ci si dà più dell’io, nel senso che da queste parti è così florido di personalità egoriferite che trovare qualcuno che si rivolge a qualcun altro è una bella sfida. Comunque se un giorno verrete a lavorare qui, e scriverei spero di no per voi ma solo perché così vi trovereste ad avere me come vicino di scrivania e non lo scrivo perché so di essere letto da persone con cui ho rapporti professionali. Anzi in questo caso sappiate che lo faccio solo per dare un po’ di pepe ai miei post e aumentare il traffico così potete dormire sonni tranquilli, sono la persona giusta per la vostra comunicazione su blog aziendali e social media. Dicevo che se un giorno entrerete qui sappiate che vi si chiederà subito di darci del tu. Continua a leggere

faccio cosa

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Per chi come me vende fumo, non nel senso del fumo quello buono ma nel senso di lavorare nel marketing e nella comunicazione, imbattersi in gente che lavora per davvero genera sempre una grande meraviglia, fa crescere la fiducia verso il prossimo e permette di aumentare la consapevolezza che qualche speranza di salvarsi il mondo in cui viviamo ce l’ha. La mia reazione di fronte alla molteplicità delle professioni esistenti al mondo che non hanno a che fare con quello di cui mi occupo io è poi come quella di un bambino che vede l’oceano per la prima volta, l’infinito imperscrutabile dell’operosità concreta dell’uomo che la dimensione on line spesso ti fa perdere di vista. Abbiamo più volte appurato che a partire dalla presa di rete in poi ci sono ben più di tutti gli universi che ci sforziamo di immaginare, il problema è che a volte sembra che siamo tutti noi che in Internet ci lavoriamo a cantarcela e a suonarcela, a dirci vicendevolmente che è un territorio profittevole solo per convincere chi non si fida ancora del tutto. O forse solo per rassicurarci sul fatto che stiamo lavorando per davvero. Se mettete in fila tutti i job title di una agenzia digitale qualunque trovate di quelle cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. Ma nel mondo al di qua della presa di rete, a scorrere le voci di cui si compone un qualunque elenco di settori professionali ci si perde più che nello spazio incommensurabile di cui sopra, per questo può esser utile fermarsi punto per punto e vedere quali sono i prodotti di ognuna di quelle attività.

Scopro così l’ingegnere biomedico che progetta supporti ortopedici e opera nella ricerca e sviluppo di prodotti sempre più avanzati. Un lavoro così direttamente legato al benessere del genere umano, alla sua evoluzione e al miglioramento della qualità della vita suscita in me grande ammirazione. Oppure progettisti di interni specializzati negli arredi delle biblioteche, un business così verticale che faccio fatica a capire come si possa tirare avanti, voglio dire non è che ogni mese c’è una biblioteca da costruire o da rinnovare, no? Così quando cammino tra le centinaia di persone che ogni giorno i mezzi pubblici riversano nel centro di MIlano provo a pensare a tutte le storie interessanti di cui sono protagoniste, magari lavori veri, quelli che consistono nella costruzione fisica di cose e oggetti, chissà, e mi verrebbe voglia di chiedere a tutti ma voi che lavoro fate, e se è come penso continuate a farlo, perché se tutti stanno seduti come me a raccontare il lavoro degli altri ottimizzato per il web nessuno fa più nulla e così non c’è più nulla da dire, se non parlare in rete della rete in un ripetersi infinito di poco più di niente.

generazione 4000 euro

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Io non so quanto guadagnate voi, voi non sapete quanto guadagno io. E in genere lo stipendio è un argomento tabù tra colleghi del terziario, le aziende lo considerano un dato sensibile e in grado di generare deleteria solidarietà tra dipendenti – questa è una credenza di un certo buonismo di altri tempi perché semmai al contrario genera invidie e astio – e di incrinare i rapporti tra lavoratori e management. Ognuno entra alle proprie condizioni economiche, non esiste il contratto unico e anche quando si parla del più o del meno, e si tocca l’argomento busta paga e retribuzione, tra colleghi si è sempre oltremodo evasivi, si usano lettere da incognita algebrica al posto dei numeri, si danno cifre esemplificative molto poco plausibili. E si tende al ribasso, comunque. Quindi è già difficile avere elementi di paragone interni, figuriamoci fuori. Pecunia olet. Ma un giorno uno come me riceve un modulo da compilare in cui fornire dati personali tra cui l’indicazione del RAL di riferimento e scopre di aver ricevuto una copia di tale modulo con i campi già compilati. Una persona di dodici anni più giovane di me, che quindi si è laureata almeno dodici anni dopo di me e ha iniziato a lavorare almeno dodici anni dopo di me, e che fa il mio stesso lavoro altrove. Ma il dato eclatante è il gap retributivo, più del doppio a mio sfavore. Il che non significa nulla perché magari questo è il Maradona della comunicazione e vale tanto oro quanto pensa che già solo per averlo scritto così mi meriterei un aumento. Così ho avuto la tentazione di contattare questo professionista, tanto c’erano anche e-mail e telefono, chiedergli cosa fa per guadagnare così tanto e, soprattutto, se ha intenzione di cambiare lavoro, così, in modo del tutto disinteressato. A proposito, avete visto tutti il film “Il cacciatore di teste”?

mercato quasi palindromo

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Sembra di essere tornati agli albori dei new media quando si faceva tutto con quel poco che era a disposizione, risorse scarse e materiale umano capace e assai motivato, prima che le aziende del settore diventassero miliardarie e comprassero il meglio della tecnologia e i professionisti più competenti per lavorare. Con il tempo le aziende del settore sono state fiaccate dai ripetuti collassi economici e hanno gettato la spugna e lasciato a casa i professionisti più competenti così sembra di essere tornati agli albori dei new media perché si fa tutto con quel poco che c’è a disposizione, risorse scarse e materiale umano scarsamente capace e assai demotivato.

un piano terra-terra

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Alla fine scopri che quelli che fanno lavori pazzeschi e che possono correre rischi non hanno una famiglia da mantenere, non tutti eh ma nella scala sociale mi guardo sopra metaforicamente parlando e trovo, dall’alto verso il piano terra in cui abito, sempre metaforicamente parlando, chi non ha problemi economici e non ha figli, chi non ha problemi economici e ha figli, e chi si mette in gioco perché non vuole avere problemi economici ma ha responsabilità larghe quanto il suo giro vita e intorno non c’è nulla da mettere a repentaglio. Poi c’è anche il seminterrato e le catacombe ma questo è un altro discorso. Perché io ci andrei anche all’arrembaggio ma poi vedo chi ne potrebbe subire le conseguenze in caso di sconfitta e di pareggio, che comunque sarebbe già un successo, perché il corretto flusso delle azioni da intraprendere è mettersi al sicuro e poi fare la famiglia, che è l’impresa più coraggiosa dei tempi che corrono e che cambierà il tessuto sociale nei prossimi decenni con un decremento demografico, perché la prole sarà sempre più un lusso e nei casi in cui la sequenza giusta darà i suoi frutti ci sarà un scarto di almeno tre decenni tra genitori e figli. Quindi incontro gente che entra e che esce – ancora metaforicamente parlando – davvero figa anche sulla quarantina dal profilo professionale mai sentito che se lo può permettere perché a casa non c’è nessuno e nemmeno a scuola o al parchetto con i nonni o con la baby sitter, gli alfieri del personal branding e gli imprenditori di sé e i guru autodiretti. Qui, al livello della strada, guardiamo già con speranza a un domani da custodi dello stabile. Buongiorno dotto’, ha visto che tempo dotto’.

problemi col personale

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Saper lavorare non significa solo saper fare il proprio mestiere, quello è dato per scontato quando una persona viene scelta in base alle sue competenze anche se sappiamo tutti, guardando le postazioni che abbiamo intorno, che non è sempre così. Voglio dire, ci sono quelli che sono stati assunti perché costano poco e magari non se la cavano così bene ma alcune imprese, tra lavorare così così e non poterlo fare per la penuria di risorse umane, rischiano la propria credibilità e scelgono la prima opzione. Saper lavorare vuol dire anche saper stare al mondo, laddove il mondo è il proprio ufficio e tutto l’ambiente che lo circonda fatto di clienti, fornitori, superiori, persone da gestire, personale addetto alle pulizie, auto aziendali, macchinetta del caffè eccetera eccetera. Un sistema di persone, cose e vegetali che abbiamo intorno e con il quale dobbiamo interagire utilizzando gli strumenti che il nostro background ci ha fornito. Famiglia, scuola, amici, palestra, piscina, sala prove, tutti i luoghi in cui abbiamo appreso come ci si comporta e come gestire noi stessi nei confronti di tutto ciò che si trova oltre la nostra superficie epiteliale.

Perché qualunque cosa tu faccia, anche solo in un singolo momento della filiera produttiva in cui sei impegnato occorre condividere ciò che si è costruito con altri. Anche in una situazione di totale autonomia, in cui si opera completamente isolati da tutto, alla fine la “cosa” la si dovrà proporre o vendere a qualcuno. Si tratta di un caso limite, perché invece nella norma ci si deve relazionare continuamente, ed è qui che alcuni individui, magari anche validi professionisti, mostrano i loro limiti, perché l’attitudine ai rapporti interpersonali è uno skill che non si impara, purtroppo. E mentre a scuola si può lasciare in secondo piano il proprio carattere, tanto viene legittimato dall’età e dalla consuetudine che va bene qualsiasi cosa purché il rendimento sia positivo, da adulti è importante sapersi sforzare un po’, riconoscere i propri limiti e ovviare alle lacune comportamentali con una parvenza di buona educazione e di buon senso.

Ma tali caratteristiche emergono con il tempo, sono difficili da cogliere in un colloquio, ed è un vero peccato, come potete immaginare, perché fanno la differenza. Non è possibile infatti mettere in secondo piano ciò che per alcuni sono solo dettagli ma che invece costituiscono parte integrante del quadro sul quale il lavoratore viene valutato, ed esempi ne potrei fare a bizzeffe. Storpiare i nomi dei clienti, non saper condurre una conversazione telefonica, non aver argomenti comuni per chiacchierare con terzi durante i tempi morti, passare il tempo a controllare l’iphone durante cene di lavoro, sottrarsi a tutte le occasioni in cui sarebbe sufficiente anche solo un sorriso per relazionarsi con il prossimo, saper comporre una e-mail, conoscere le basi della grammatica italiana, mettere insieme due parole in croce. Per non parlare dell’igiene personale e della cura di sé. Il lavoro, quando lo si trova, dev’essere una vita parallela, un sottoinsieme di quella ufficiale in cui, se non si possono indossare i propri panni abituali per manifesta incompatibilità ambientale, è necessario almeno mascherarsi da persona normale.