a loro va il mio più caro augurio di buon anno nuovo

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Hanno la sede in un edificio a forma di parallelepipedo tutto specchi scuri e cemento, che occupano solo loro perché oltre agli uffici c’è anche una specie di magazzino dove tengono gli arredi vecchi e i computer in eccesso. Ci possono arrivare solo in macchina perché si trova in un’area industriale, una di quelle indicate persino da segnali stradali dedicati e se per sbaglio ci finisci e non conosci la zona puoi anche non uscirne più, perché le vie hanno nomi e numeri civici per modo di dire, a malapena registrati nei database dei sistemi satellitari. Figurati a chiedere indicazioni, in giro non trovi anima viva se non alla guida di Tir e autoarticolati con targhe di paesi dell’est che una volta non c’erano nemmeno. A dire la verità ci sono un paio di impiegate che si recano al lavoro con i mezzi, sono le uniche che scendono al capolinea che è comunque a poco meno di un chilometro dall’ingresso, si danno appuntamento la mattina e la sera e percorrono con i tacchi i marciapiedi costruiti solo per convenzione con le norme urbanistiche ma che nessuno ha mai più manutenuto, e in balìa di gelo, radici e incuria si sono involute in una sorta di superficie lunare asfaltata, tutta buche e crepe. Per chi lavora lì è più difficile ritrovarsi dopo le feste, quando gli unici motivi che li riporta a incontrarsi in quegli spazi angusti sono i ricordi dei successi professionali condivisi e la speranza di raggiungerne di nuovi, cose di cui a malapena ci si può vantare su quei social network grigi di cui si parla di nascosto come se contenessero formule segrete di successo ed espansione del business. Tutto questo malgrado il freddo ritrovato dopo giorni di riscaldamento spento, malgrado i neon accesi contro il grigiore fuori a illuminare le certificazioni qualità incorniciate in picoglass economici da zelanti centraliniste tuttofare. Arrivano uno a uno, si sfilano le loro giacche a vento sportive indossate su completi di scarsa qualità, scarpe fintamente eleganti che ricordano il design di calzature sportive per conferire l’impressione della gioventù e della dinamicità come componente essenziale del modo di lavorare e di vivere stesso. Nel bar più vicino, dove comunque occorre prendere l’auto anche per un caffè, si trovano solo le mamme del quartiere dormitorio limitrofo, vanno lì per fare colazione dopo aver accompagnato a scuola i figli e si divertono a chiacchierare con il ragazzo che sta dietro al banco, che fa l’estroverso in eccesso in modo che i clienti ritornino ricordandosi di lui come di uno troppo simpatico, davvero un tipo. Qualcuno poi ricorda che nell’edificio di fronte alla sede aziendale, che è un po’ meno stabilimento e un po’ più centro direzionale ma il management non se lo poteva permettere per via degli affitti, all’ultimo piano c’è un bar con terrazza che nella bella stagione fa persino gli aperitivi con la musica, c’è il gruppo che suona e le cameriere che sbagliavano a portarti il long drink per il volume innaturalmente elevato così hanno dato in dotazione dei tablet con cui è difficile commettere errori. Si può fare tutto il casino che si vuole tanto intorno sono solo aziende e fabbriche e concessionarie di veicoli industriali per cui chi se ne importa. Qualcuno si chiede anche chi abbia voglia di fermarsi lì a fine giornata per una birra, in primavera e in estate, ma è un pensiero che ciascuno trattiene per sé, si potrebbe ferire la sensibilità dei colleghi che poi invece contano di bere qualcosa tutti insieme.

cronache dell’ultima settimana

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In senso lato possiamo ritenerci di passaggio ovunque, c’è chi anche ha intitolato il suo scrittoio virtuale così. Si tratta di una provvisorietà metaforica, come a dire stai qui tutto il tempo che ti serve, che vuoi, che ti è concesso, che c’è scritto sul contratto che hai firmato, e poi lascia tutto come l’hai trovato. Scrolla le briciole dalla tovaglietta, rimetti la sedia sotto il tavolo, se hai consumato qualche provvista lascia comunque qualcosa di utile a chi ti succederà. Allora uno pensa che sia meno traumatizzante il cercare di affezionarsi il meno possibile alle cose, ai luoghi, alle persone. Se ti abitui a non aver bisogno di nulla poi sarà più semplice rinunciarvi. Mi immagino una stanza d’albergo, gli ospiti che consegnano la carta di ingresso al termine della permanenza, gli inservienti che notano se la mattina prima di uscire ti sei preoccupato di rifare il letto perché le lenzuola all’aria danno comunque il senso di sciatteria. Intanto il loro lavoro è quello di cambiarle comunque, poi non credo tengano un registro delle persone più collaborative e meno disordinate da consegnare al direttore della struttura ricettiva, che poi cosa se ne farebbe di un elenco di pignolerie inutili. Senza contare che raramente si è habitué dello stesso posto, ah chi si rivede caro dott. Plus1gmt, lei sì che è un cliente modello che lascia sempre la stanza come l’ha trovata.

E poi non è detto di trovare lo stesso personale alla reception e ai servizi ai piani la volta successiva, sapete come vanno le cose. Anche sul lavoro è bene ritenersi di passaggio, visti i tempi. Ed è per questo che ammiro le persone che lasciano traccia anche per una breve permanenza, per rendere l’ambiente il più confortevole alle loro esigenze. Questo in senso reale e metaforico, s’intende. Quelli che tingono le pareti dell’appartamento in affitto anche se ci staranno solo qualche mese. Spostano mobili e rimuovono quadri orrendi nella casa di campagna in cui soggiorneranno una stagione a malapena. Si impegnano a discutere con la gente conosciuta per caso, pur sapendo che non la rivedranno più. Tutti questi, io un po’ li invidio perché hanno una personalità decisa, vogliono vivere secondo standard ben definiti sotto i quali mai scendere, sono ben ancorati al presente e non perdono tempo ad aspettare sempre il dopo.

Rivisitare ciò che si ha intorno secondo la propria indole è una bella terapia di autostima. Io, per esempio, non ho mai personalizzato il posto in cui lavoro. Il mio ufficio, la mia scrivania, il desktop del mio computer, il salvaschermo. Magari mi viene in mente di farlo. Mettere un portaritratti con la mia famiglia in bella vista. Portare una pianta da curare ogni dì. Ho amici che hanno colleghi che addirittura usano le sciarpe della squadra del cuore come addobbo per il proprio monitor. Mi hanno fatto notare però che spesso la customizzazione dell’ambiente lavorativo (e dell’ambiente in genere) è una caratteristica tipicamente femminile, e in effetti ricordo che gli unici uffici privi di quadri alle pareti in cui ho lavorato erano quelli ad alta densità di ingegneri. Questo significa che se sono così poco attento ai dettagli è perché sono un uomo.

Oltre a questo sul lavoro ci sente sempre meno indispensabili, con la crisi che c’è, quindi forse lì più di altrove è saggio limitare il proprio impatto. Pensate che adesso si sono inventati persino i desktop virtuali e le postazioni libere, negli uffici. Ovvero arrivi, ti siedi nella prima scrivania libera che trovi, accendi il thin client (si chiamano così) che hai a disposizione, inserisci nome utente e password e quello ti ricrea il tuo computer indipendentemente da dove sei  e da quale pc stai utilizzando. Un sistema che sarà anche più facile da gestire per le aziende che quello tradizionale, ma che mai come ora ti fa sentire una nullità. Così, di questi tempi, tra quello che si legge sulla disoccupazione e quello che si sente dire sui pronostici della fine del mondo imminente, ho pensato al mio buon proposito per l’anno a venire. Ho deciso che l’anno prossimo, sulla parete a fianco della mia scrivania in agenzia, mi porterò da casa un poster da appendere. Forse sarà David Bowie, forse una stampa di un dipinto di Boccioni, o una foto di Sandro Pertini, o Jean Seberg coi capelli corti in “À bout de souffle”, non lo so ancora. Ma ho pensato di concedermi un prolungamento di quello che faccio e di quello che sono. Se non altro per ricordarlo a me stesso, nelle più barbose operazioni seriali. Certo di non disturbare nessuno.

compresi gli optional

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Quello che guidava ha chiesto all’altro perché si fosse vestito da matrimonio. Era il caso di indossare un completo antracite con cravatta arancione, camicia azzurrina e soprabito scuro? Per non parlare delle scarpe sportive che comunque, decontestualizzate, non stavano nemmeno così male. Quello vestito da matrimonio ha ripassato mentalmente prima l’elenco dei capi che aveva addosso, che non risalivano a dir la verità al suo, di matrimonio, ma che in effetti facevano parte del completo che utilizzava nelle grandi occasioni il suo matrimonio a parte. Se per grandi occasioni si può considerare le nozze del cugino della moglie o cose simili. Poi ha pensato che risposta dare, ovvero il perché li aveva messi per quell’impegno di lavoro e solo perché era la prima intervista di cui era stato incaricato dalla nuova società. Ma trattandosi di un motivo così ovvio si è rivolto a quello che guidava chiedendogli il motivo per cui, ai primi di dicembre, tenesse l’aria condizionata accesa. Lui ha risposto con un ghigno impeccabile da chi deve svelare un segreto industriale parlando con una persona di lato e senza perdere di vista il traffico in tangenziale delle sette del mattino. Che poi, così pelato e visto di profilo, ricordava altro che una palla da biliardo animata. Ha risposto dicendo che quel modello di automobile lì è uscito con un difetto di fabbricazione per cui il parabrezza da dentro si appanna che è un piacere, e il riscaldamento altro non fa che rincarare la dose di condensa interna. Quindi non c’era altra soluzione che mantenere l’abitacolo freddo. L’altro allora gli ha fatto notare che un viaggio di 150 chilometri in quelle condizioni sarebbe stato ai limiti della sopportabilità e che lui non poteva certo permettersi di ammalarsi, all’inizio di quella nuova avventura professionale. Quello che guidava gli ha suggerito di coprirsi bene, non c’era altra scelta se non quella di viaggiare con i finestrini abbassati e che poteva scegliere anche una combinazione tra i due sistemi. Poi al primo autogrill si sono fermati,  l’altro ha preso un the bollente, quello che guidava ha preso un caffè, e prima di ripartire ha estratto dal portabagagli un sacco a pelo, dicendo all’altro che gli poteva essere utile fino a destinazione.

è a metà dell’opera

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Il primo giorno di un nuovo lavoro che magari è il primo lavoro di una vita o costituisce un cambio radicale di settore professionale, il che è come se si trattasse si un primo lavoro di una vita perché si ricomincia da capo. Oppure l’inizio di una nuova carriera pregna di responsabilità in una grande azienda dopo aver passato anni in una piccola realtà locale superprotetto da una rete di relazioni molto confortevole. E ancora passare da un impiego in una minuscola cittadina di provincia a un posto di massima visibilità in una metropoli, dove il cambio di azienda coincide con una nuova vita ricca di implicazioni personali. Oppure la prima esperienza pratica con mestieri ad alto contenuto di rischio per sé e per gli altri, come il primo giorno in tribunale da avvocato difensore, la prima partita in nazionale A, il primo intervento chirurgico con un paziente addormentato sotto i ferri, il primo volo da Milano a Tokio con la responsabilità di centinaia di persone in classe economica. Insomma, sto raccogliendo un po’ di materiale in questo ambito per poi pubblicarlo qui. Anzi se volete farmi avere la vostra esperienza anche scritta di fretta che tanto poi ci penso io a riscriverla peggio e zeppa di refusi potete inviarmi i vostri elaborati a plus1gmt AT gmail punto com. Questo è il primo.

Il pc era già acceso è quella non è stata una buona idea perché il giorno dopo, che sarebbe stato il secondo giorno, io che dove lavoravo prima avevo un Mac non sono riuscito a trovare su quel tower che sembrava una macchina da rally il pulsantino per avviarlo e ho dovuto chiedere a un collega. Comunque la prima cosa che ho notato sul desktop era una cartella che si chiamava “fuffa varia da desktop” e io non sapevo che fuffa in milanese volesse dire rumenta. Come prima cosa dovevo inserire il codice della licenza di utilizzo di un plug-in in un programma, in modo che poi in modalità stand-alone non comparisse la finestrella che avvertiva l’utente che quella si trattava di una versione trial. Ma il commerciale che mi aveva dato quell’incarico mi aveva fornito informazioni sbagliate, così ho dovuto cercare il numero giusto in una casella di posta di servizio tra migliaia di messaggi automatici e spam. Nel frattempo mi ha chiamato il mio nuovo responsabile per aiutarlo a spostare uno scaffale tra un piano all’altro passando per la scala antincendio, dove tutti andavano a fumare. Sui gradini c’era una ragazza che avevo visto nell’ufficio dei grafici, era seduta e piangeva tenendo un manuale di Flash in mano. Lo scaffale era molto pesante e ci ha dovuto aiutare l’amministratore delegato in persona, che si è un po’ spazientito perché era giugno e lui era in giacca e cravatta. Quando ho ripreso a lavorare c’è stata una riunione per la quale sono stati mobilitati tutti tranne me, probabilmente nessuno sapeva se ero lì provvisoriamente o no. Sono rimasto da solo, l’ufficio era al piano terra, ogni tanto dalla finestra qualcuno guardava dentro attirato dal rumore del condizionatore. E ancora da solo sono andato a pranzo, mi ero portato un contenitore di plastica con dei pomodorini e un pezzo di focaccia, lì vicino c’era un parco. Mi sono seduto su una panchina, poi dopo mangiato mi sono sdraiato e per qualche minuto sono pure riuscito ad addormentarmi.

da cosa nasce cosa

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A vedere bene come le stanno le cose c’è solo un dettaglio che stona tra i partecipanti alla riunione. Il dettaglio sono io perché sono l’unico che tra tutti non ha la cravatta. E meno male che sono lì seduto al tavolo già da un po’ e da prima che arrivassero gli altri, io sono uno di quelli che si presenta con abbondanti quarti d’ora di anticipo senza contare che sono anche quello che guadagna meno – questo in tutti i contesti professionali a cui sono stato invitato a partecipare per fornire il mio apporto – e che ha un’importanza come si suol dire meno business critical o strategica, fatto sta che gli altri che sono professionisti che contano arrivano alle riunioni quando cazzo pare a loro. Ma con la cravatta.

Dicevo che meno male per tutti questi motivi che ero seduto al tavolo quando sono entrati tutti gli altri perché altrimenti si sarebbero notati i miei pantaloni di una marca non-marca acquistati al supermercato e le snickers non-snickers, quelle sì di marca ma che dimostrano tutte le cinque o sei doppie stagioni che hanno trascorso ai miei piedi deformi. Essendo scarpe né troppo calde né troppo fredde rendono il loro onesto servizio nei periodi intermedi, prima dell’estate e prima dell’inverno, quindi in due occasioni per un totale di un paio di mesi l’anno come minimo. Quella che una volta veniva chiamata mezza stagione e che oggi, e non sono l’unico a sostenerlo, non esiste più. Nemmeno qui dove una volta era tutta campagna.

E in quell’ambiente di lavoro che è irrimediabilmente maschile perché dall’amministratore delegato all’ultimo dei commerciali si perpetua una tradizione che vuole nell’ICT quello un po’ babbione, molto b2b e per nulla consumer ma fatto di gestionali e business intelligence soltanto vertici virili e donne relegate al centralino, alla reception, al segretariato e al supporto marketing che è addirittura più segretariato di quello che prevede la prenotazione di voli e alberghi per la trasferta e l’acquisto dei regali di anniversario di nozze per le mogli dei manager. In quel meeting di poteri trasversali il fatto che ci sia un fornitore per giunta vestito da sfigato come me crea una funzionale valvola di sfogo dalla quale far defluire le tensioni in cui si manifestano le prove di forza tra colleghi, la versione incravattata di una rissa da angiporto dove al posto delle testate sul naso ci si colpisce a dati di fatturato per settore aziendale. E meno male che quello che poi io dovrò trasmettere all’esterno in belle parole di quel ginnasio di competizioni è che la società con il nuovo corso è una. Anzi, uan, come dicono loro agli investitori.

Ecco, questo è il quadro ed è descritto così apposta per far sì che le vostre simpatie vadano per l’unico senza cravatta (la camicia però ce l’ho, sia chiaro, in cotone fair trade della Coop comprata al cinquanta per cento nei saldi e pagata dodici euro e rotti) la cui partecipazione al consesso in oggetto è a dir poco superflua. E cioè me. Il vostro beniamino. Ma mentre sono lì e nessuno sembra dare molto peso alla mia casualfridayness penso a come starei conciato così, così come quelli per l’ascolto dei quali percepisco uno stipendio, perché non riesco proprio a trovare tra tutti quelli che vedo lì raccolti uno stile a cui potrei adattarmi. Con il mio fisico poi.

Quello meno peggio – secondo i miei canoni fermi al parka, jeans e anfibi – è seduto di fronte a me, ha uno spezzato con pantalone grigio scuro, giacca di una trama grigio chiaro-bordeaux, cravatta bordeaux su camicia classica azzurra e francesine testa di moro. Ecco, penso, domani vado dove so io e mi compro un abito così, di sicuro non sfigurerei in un ambiente come questo. Perché una volta era così. Da ragazzi ci si vestiva in un modo, da adulti in altro e non c’erano punti in comune e quando c’erano era perché c’era qualcosa che non andava. Ora non è più così, almeno nei posti come questi in cui non c’è nessuno che me lo fa notare.

Poi la riunione finalmente si conclude, e si interrompono le sfide subdole tra chi vuole mantenere il proprio spazio e le provvigioni a cui ha fatto presto ad abituarsi. Tutti si involano perché il loro tempo è più prezioso del mio, la sala resta vuota e posso alzarmi senza vergognarmi di quel campionario del mio guardaroba perché sono rimasto solo. Raccolgo quelle poche cose che ho usato per far finta che le posizioni che gli altri sostenevano erano di mio interesse, mi faccio restituire il documento di identità dalla receptionist e già varcata la porta di uscita capisco che acquistando uno spezzato come quello che ho visto prima non risolverei nulla, perché dovrei averne almeno due, avere un ricambio per quando uno è da portare in tintoria. Già, la tintoria.

ripetere giova

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Dunque chi mi conosce di persona saprà che so essere anche più noioso che qui. Tanto per iniziare mi ripeto, mi ripeto, mi ripeto. Poi ho ricevuto accuse bonarie – ma mica tanto – di leggere libri tutti uguali. Ma non è tutto. Il primo lavoro non da musicista l’ho ottenuto a diciannove anni o giù di lì. Ho frequentato ogni giorno una specie di pub per mesi e mesi sperperando le mie paghette in birre e panini fino a quando il gestore mi ha chiesto se volevo sostituire la cameriera per il suo mese di ferie. Il mio merito è stato solo quello di essere un avventore assiduo. Può rientrare nella stessa casistica il fatto che anni dopo abbia rimorchiato la barista di un locale dove io e qualche amico andavamo tutte le sere in cui era aperto. Chiedevo sempre la stessa consumazione (non ho scritto birra per non ripetermi con quanto dichiarato sopra) e mesi dopo – premiando la mia fiducia, non vedo altre spiegazioni – ci scambiavamo i numeri di telefono. Questo per dire che usare ogni giorno Google più volte da almeno dieci anni non mi ha ancora fruttato nessun vantaggio personale di questo tipo, non ho ricevuto nessuna proposta di collaborazione. Probabilmente in Internet le cose funzionano diversamente.

uomini e pesci rossi

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Fallita l’idea dello stato come ammortizzatore sociale, una debacle in fieri che mostra tutto il suo cinismo proprio in questi tempi di distribuzione trasversale delle nuove povertà, quelle che in un periodo di bagordi sarebbero state salvate in tempo da cassa integrazione e impieghi pubblici di basso profilo, il nostro vivere ha modi sempre più soggetti ai processi del lavoro privato – quando c’è – e dai suoi tempi che dettano uno stile in cui l’uomo ricopre un ruolo tutt’altro che centrale. Il profitto e la pratica del suo salvataggio – non esprimo un giudizio etico, non ne ho le competenze – ci hanno soffiato la parte da protagonista, forse con merito, chissà. Siamo ormai ridotti a comparse marginali e facilmente sostituibili nel nostro compito di “far funzionare la macchina”, che poi alla fine ci sarà un qualcosa di virtuale anche lì che accenderà il tutto nel momento del bisogno e a quel punto, a parte i tecnici e gli aggiustatutto, non ci sarà più necessità di nessuno. Ma, scenari apocalittici a parte, da un lato l’essere sempre meno quello che facciamo perché sempre più spesso non facciamo più nulla ci induce a crisi di identità dovute all’assenza di personalità al di fuori dell’ufficio. Dall’altro, la rincorsa a disporre delle nostre esistenze nei ritagli di tempo che il mercato ci offre e nelle pause caffé ci ha spinto verso passatempi on line di questo genere, coltivabili senza togliere la testa da quella che è la nostra occupazione. Ci divertiamo con l’e-mail sempre accesa e quando riceviamo un nuovo messaggio non ci costa nulla scoprire se è l’ennesimo spam o, peggio, una comunicazione importante che arriva dall’altra parte del mondo dove sì che c’è il vero inferno, altro che weekend di 48 ore e chiusura aziendale. Quelli lavorano sul serio, senza sosta. Hanno un intero continente da far crescere, mica come noi che spostiamo risorse solo nei punti dell’osso in cui è rimasta ancora un po’ di ciccia. Così viene da pensare al grande bluff. Anni di studi universitari dentro e fuori corso in cui – parlo per me – è stato impossibile staccare la spina, spegnere anche solo per qualche settimana un sistema perennemente funzionante e programmato per portare a termine un progetto pluriennale. C’era sempre qualcosa di cui preoccuparsi indipendentemente dalla stagione. L’ultimo esame prima dell’estate, il primo della sessione autunnale. C’era sempre da studiare, volendo. E quando poi, terminato il tutto, si riesce a entrare nel sistema produttivo, la possibilità di godere di momenti più o meno lunghi di respiro, in cui la stanza mentale della propria sfera professionale è davvero chiusa a doppia mandata, è solo un privilegio di pochi. E si tratta di un meccanismo senza tregua che ci è ostile perché ci impedisce di stare vicino a chi vorremmo sia fisicamente che mentalmente e che ci consegna un giorno all’inattività prosciugati di tutto, talvolta anche degli affetti, dimenticati in appartamenti privi di aria condizionata e pronti per sentirci disabituati ad avere una vita double face, dietro e davanti, dentro e fuori.

ti faremo sapere

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Ieri a un colloquio qui in agenzia si è presentato un ragazzo che conoscevo e frequentavo saltuariamente almeno vent’anni fa, ora uomo adulto e poco più giovane di me. Il caso ha voluto che ci fossi io dall’altra parte del tavolo insieme a una collega (più in virtù del fatto che sono tutti in ferie che alla mia seniority), e che ci fosse lui di fronte. Non mi ha riconosciuto, però. Vuoi il tempo, vuoi la barba, vuoi il fatto che concentrarsi troppo su sé stessi – cosa che non biasimo se non nelle conseguenze – impedisce di fare propri molti dei dettagli esterni e quando tra i dettagli trascurabili e trascurati dal prossimo ci siamo noi, un po’ la nostra autostima ne risente. E non è un problema di personalità che impressiona o no la pellicola sentimentale altrui. Sono convinto che catturare l’attenzione dipenda solo in parte dal soggetto, mentre subentri spesso la sensibilità dell’oggetto.

Era da qualche giorno che mi rigiravo in mano il suo curriculum e il nome e la foto, oltre alla città di nascita, mi sembravano famigliari. Così quando me lo sono trovato davanti e lui, senza capire chi fossi, è partito con la presentazione standard in ordine cronologico dal liceo all’altro ieri, ho lentamente riordinato tutti i collegamenti e ricostruito una mappatura di esperienze davvero remote perché provate con un corpo e una mente così differenti da quelli che ho in dotazione ora. Lui e i suoi amici artistoidi tiratardi mantenuti e quel modo di vedere il futuro che si è palesato come presente davanti a me, scorrendo la lista delle sue esperienze professionali e raccontate in diretta con un po’ di incespicamenti, il tutto a decretare un fallimento umano se confrontato con il manifesto artistico di allora fatto di provocazioni del calibro di “se non ho successo mi sveno” per uno statuto di norme più che altro estetiche che si vede che con il tempo è stato soggetto a cambiamenti, vista la sua presenza in carne, ossa e liquidi venosi e arteriosi a un metro da me, tutt’altro che avvolto dall’aura della fama. Anzi, messo piuttosto malino.

E io che invece mi ricordo tutto e nei minimi particolari – cose minuscole come la compagna di corso che avvalendosi delle sue canottiere striminzite mi ha estorto il libro di Storia Medievale per dare un esame senza mai restituirmelo o la quantità di mix dei Depeche Mode che una mia ex ha tenuto immeritatamente per sé al momento della separazione dei beni a conclusione del nostro rapporto, quindi fate attenzione a come vi comportate nei miei confronti – sono stato tentato di svelare la mia identità. E lo avrei fatto se man mano che la sua inadeguatezza al profilo qui ricercato, che si andava confermando parola dopo parola, sguardo dopo sguardo, non avesse reso uno spostamento del piano relazionale su un livello più profondo molto pericoloso. Non volevo introdurre elementi tali da rendere poi difficile l’ammissione dell’incompatibilità che si stava profilando. D’altronde sono fatto così, mi sobbarco il lato umano quando invece è importante non lasciarsi coinvolgere. Per esempio poco prima si era presentato un ragazzone che ha dovuto abbandonare gli studi al Politecnico al primo anno per motivi economici e diceva di essere pronto ad accettare qualunque cosa. Se dipendesse da me l’avrei preso subito perché mi ha fatto tenerezza, ma non è così che si conduce un’azienda, non sta a me dispensare ammortizzatori sociali.

E a fatica ce l’ho fatta: sono giunto indenne al “grazie ti avviseremo anche in caso negativo” senza svelare la mia identità, tutti noi presenti a quell’incontro eravamo consapevoli che nulla era andato bene e che non ci saremo rivisti mai più. Così ho pensato a come si è prima, come si diventa dopo, come si cresce durante. E pur avendo dimostrato che è possibile mettere a tacere questa parte di noi solo perché si sta lavorando e si indossa un abito temporaneo professionale, ho pensato che no, l’addetto alle risorse umane non è proprio un mestiere che fa per me.

io vi tratto pen

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Sulla mia scrivania, qui in ufficio, c’è un portapenne che è in mio possesso da quando frequentavo le scuole medie. Si tratta di un cilindro in plastica bianco dal valore unicamente affettivo e simbolico perché è un gadget di una vecchia campagna pubblicitaria del Tratto Pen, che ad oggi rimane indiscutibilmente il mio strumento di scrittura preferito, soprattutto a inchiostro blu. Il claim, che i meno giovani come me ricorderanno, dice “Io mi tratto pen”, e l’oggetto faceva la coppia con un secondo portapenne della stessa serie, questo sì di valore perché aveva come testimonial addirittura Giulio Andreotti, pensate un po’. Ma l’ultimo trasloco di ufficio, il passaggio dalla precedente agenzia a questa avvenuto ormai dieci anni fa, gli è stato fatale. Lo stavo per dimenticare sulla scrivania fuori dallo scatolone contenente i miei effetti, come succede nei film americani, solo che io ne avevo riempito uno a malapena, e quando me ne accorsi a contenitore sigillato lo misi nella borsa. Quella stessa sera andai a cena in un ristorante eritreo nel più profondo del centro storico di Genova con la persona che da lì a poco sarebbe diventata mia moglie e madre di mia figlia. Ricordo che estrassi con orgoglio quel pezzo di modernariato per mostrare a lei una parte della preziosa dote con cui avrei potuto arricchire la nostra futura famiglia – dote comprendente anche uno spremiagrumi Atlantic cromato comprensivo di confezione originale e di Boomer, una testa di supereroe blu somigliante a Buzz Lightyear in plastica che un tempo conteneva caramelle in una drogheria di provincia, oltre ad altre varie cianfrusaglie da bancarella di rigattiere che col tempo mia moglie mi ha convinto della loro inutilità – e poi destino volle che, vuoi il vino scadente che un commerciante musulmano può venderti o vuoi l’oblio dell’amore profuso quella sera, il portapenne con l’effigie del grande vecchio di sessant’anni di politica italiana rimase lì e fu immeritatamente gettato via da uno zelante cameriere. Se non erro, come strascico della mia sete di vendetta, lo stesso esercizio chiuse pochi mesi dopo, forse le mie maledizioni o forse i primi effetti della crisi economica, chissà.

Per fortuna avevo un portapenne di riserva proveniente della stessa campagna, a casa, riportante la stessa frase pubblicitaria anche se, senza Andreotti, di minor impatto e a più blando effetto commerciale. Li avevo entrambi ricevuti da mio padre, un contabile di un’impresa nei confronti della quale di sicuro il fornitore di cancelleria non lesinava in oggettistica omaggio. Anche se non è più la prima scelta, per così dire, tuttavia quello che mi è rimasto fa la sua figura. E poco fa, notando l’originalità del pezzo e confermandogli la mia inveterata stima, mi sono accorto che in realtà non contiene nemmeno una penna o una matita. Forse per rispetto, non so, ma ho l’abitudine di riporle tutte nell’altro, il più appropriato contenitore in dotazione ufficiale alla mia postazione e dello stesso colore della scrivania, a cui con l’intento di sfregio – lo stesso che condanno nei writer urbani – ho appiccicato un bollino proveniente da una mela della Val Venosta.

Il portapenne “io mi tratto pen” è pieno zeppo di biglietti da visita, carte di identità aziendali altisonanti quanto effimere. Basta esercitare un po’ di forza con le dita e si piegano, basta commettere un errore di troppo e si è fuori dal gioco e quel tagliandino di cartone rigido non ha più nessun valore. Io poi, che sono uno di quelli che se non mi controllo accumulo di tutto e devo stare attento perché come dice mia moglie divento come mio padre, anche sul lavoro ho la tendenza a conservare ogni cosa. E mi sono accorto che in quel portapenne c’è un decennio di persone incontrate, aziende con cui sono entrato in contatto, professionisti che ho intervistato, magari gente che non lavora più lì. Un po’ come certa valuta fuori corso, banconote equiparabili alla carta straccia e, nel mio caso, nemmeno utili da un punto di vista collezionistico. Dovrei fare un po’ di pulizia, approfittando di questi giorni di calma piatta pre-esodo. Ma poi li scorro uno via l’altro e mi scatta quel senso di rispetto per il lavoro altrui, vite trascorse a rappresentare interessi di terzi e, chissà, nemmeno per puro spirito mercenario. Quanti di questi manager dalle cariche roboanti sono già altrove. Sarà subentrata una morte professionale improvvisa, si sarà trattato di un suicidio per passare a miglior carriera, o la persona avrà attraversato una lunga agonia tra tagli, accorpamenti e acquisizioni prima di decretare la parola fine. Nomi conosciuti, altri di cui non ricordo assolutamente nulla, nemmeno l’occasione in cui si è consumato il rito dello scambio del biglietto. Basterebbe un gesto a rovesciare il contenuto di quel gadget che mi segue da trent’anni nel cestino della carta, ma quando sto per farlo – e non è la prima volta – ho come l’impressione di cogliere un richiamo. Lasciaci vivere del nostro lavoro almeno qui, almeno per un altro po’, almeno per la tua memoria. Lo spazio che occupiamo è poco, appena un recipiente che, comunque, non utilizzeresti nemmeno.

la dismissione

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Qui non c’è un impianto industriale da rimuovere pezzo per pezzo e da portare in oriente, c’è solo un capitale intellettuale e professionale che fattori diversi stanno smantellando ma che non verrà ricostruito altrove con le stesse macchine, bensì con apparati e competenze anche meno convenienti di quelle che si trovavano qui. Vaglielo spiegare tu a ‘sti colossi delle multinazionali che mandare il loro personale in Italia dalla loro sede centrale per fare un lavoro da tradurre poi in inglese per poi ritradurlo in italiano costa molto di più che farlo direttamente in italiano con un’agenzia esterna che peraltro conosce meglio le tecnologie, i clienti per non dire il territorio e il mercato in cui la multinazionale opera da quindici anni. Così mentre mi sforzo di non mettere il mio valore aggiunto in un lavoro fatto da altri e che fino a l’anno scorso svolgevo io con un livello di professionalità e di qualità che vi sfido a eguagliare, ripenso a Vincenzo Buonocore, l’operaio che rilegge la sua vita nei brandelli di macchinari che va smontando per l’acquirente cinese nel libro di Ermanno Rea. Pezzo per pezzo, nel mio caso riga per riga, una vita di sforzi per limitare le ripetizioni e refusi nel racconto del lavoro degli altri, pensando che presto sarà un lavoro di altri anche questo.