Controllo l’ora, sempre quella. Qualche minuto prima programmi e finestre sul desktop iniziano a chiudersi con l’effetto delle luci che si spengono progressivamente in un locale ampio ed esteso, in cui file di neon sul soffitto sono collegate a interruttori diversi e l’effetto è progressivo. Arrestare il sistema è una cosa che mi è sempre piaciuta perché, avulso da Windows, è un modo di dire ribelle e anarchico. Arrestare il sistema potrebbe essere il sogno di adolescenti incappucciati con felpe e zainetto nero pronti a prendere a spranghe ottusi bancomat rei di dare soldi solo a chi ce li ha. Il controllo più importante però è sugli effetti personali. Il portafoglio che è la cosa più importante. Lo smartphone che è la cosa più importante. Le chiavi perché sono la cosa più importante. Sistemato ciascun elemento nel rispettivo spazio dedicato al suo contenimento, meglio fare un secondo check. Per esempio mi ci vorrebbe un paio d’occhiali per trovare gli occhiali da videoterminale (che termine d’antan, vero?) che si mimetizzano con la scrivania. Gli occhiali da videoterminale vanno nell’apposito box che sistemo nella tasca esterna dello zaino, insieme al libro. Le chiavi nella tasca destra della giacca. Lo smartphone in quella sinistra, con gli auricolari che escono e s’infilano nelle orecchie. Il portafoglio a fare il bozzo nella tasca anteriore dei pantaloni. Solo a quel punto la via è libera, e ammetto che invecchiando anche abbandonare l’ufficio a se stesso mi genera quei tre quattro minuti di pensieri malinconici. L’aziendalismo ormai è un fattore anagrafico: con il turn-over causato dalla precarietà e dalla dinamicità imposta ai più giovani, affezionarsi al proprio ambiente lavorativo è pressoché impossibile. Fuori c’è il buio e c’è la nebbia, ci sono le insegne luminose, i fari delle auto che passano e il fumo che esce dal naso di chi cammina con la lena che si richiede quando c’è un tram o la metropolitana da non perdere. In fila alla fermata del passante ferroviario le solite facce. Seduto nella carrozza ancora visi famigliari, la routine è un fattore comune, è il loop grazie al quale sopravviviamo in un sistema lineare che ha un inizio e una fine. Girando su noi stessi ci sembra di rallentare, finché si riesce. O almeno ci illudiamo. Qualche pagina di libro e poi l’oblio, il sonno, la testa che cade, le mani che cedono, il libro che cade sulle ginocchia, gli altri passeggeri che non ridono nemmeno più delle gag involontarie di chi trasforma i mezzi pubblici in dormitori provvisori. Quando il miracolo si avvera – addormentarsi da seduti non è una qualità per tutti – c’è sempre un orologio geolocalizzatore che incrocia la fermata del convoglio con l’ora esatta e mi fa saltare su. Sveglio, ritrovo le voci che mi avevano lasciato prima dell’abbiocco e che con molta probabilità non hanno mai taciuto. Tutti parlano, e il dialogo con altri presenti non è nemmeno il peggiore dei mali. Ancora musica per coprire la distanza tra la stazione e casa ma ormai i giochi sono fatti. Il ritorno si compie con l’ultima mandata della chiave nella serratura, la luce che irrompe nell’ingresso che coincide con il soggiorno che coincide con la cucina a vista. I gatti che percepiscono l’arrivo dell’addetto all’approvvigionamento già dal rumore dell’ascensore, o forse dal portone che si chiude, o magari dai passi in strada, chissà. Il ritorno, in fondo, è il vero inizio. Anzi, il ritorno è la vera partenza.
lavoro
bella non ho mica vent’anni, ne ho molti di più, e questo vuol dire, capirai, responsabilità
StandardLa fregatura si delinea sempre più nitidamente ogni giorno che passa. Una volta c’era infatti il fattore carriera che, con l’aumentare dell’età, ti sollevava gradualmente dalle rotture di maroni dell’operatività, quella più di basso livello. Cresceva cioè l’anzianità – nella vita e nel lavoro, anzi, nel lavoro e nella vita – e man mano si trascorreva sempre più tempo dietro le quinte a progettare, dirigere, demandare, controllare ma senza essere in prima linea, sul campo. Il che non è detto che comportasse responsabilità in numero direttamente proporzionale agli inverni di permanenza in azienda sul gobbone. Anzi, diventavi canuto, ispiravi saggezza, trasmettevi rispetto, fiducia e anche indulgenza: un simpatico vecchietto seduto ancora per poco a una scrivania in grado di dispensare consigli ed esperienza ma prossimo al ritiro in pensione, quindi se si dimentica qualcosa non bisogna arrabbiarsi, è l’età. Per noi invece gli unici valori che crescono sono quelli della pressione in giornate di stress. Osservando i 156 di massima sullo sfigmomanometro siamo sempre più convinti che alle soglie dei cinquanta certe mansioni che più o meno sono le stesse di quando abbiamo iniziato a venticinque anni non fanno proprio più per noi. Non abbiamo la stessa resistenza alla tensione che poi è la componente principale del nostro lavoro sul cliente e di ciò che produciamo se, come me, lavorate nel marketing e comunicazione digitale che poi è altro non è che l’evoluzione di ciò che una volta molto più romanticamente si chiamava pubblicità. Ma poi sappiamo tutti quello che è successo. I soldi sono finiti e lo spazio per fare carriera e per mettere i vecchietti come il sottoscritto a dirigere e controllare gli sbarbati ci è stato usurpato dalla crisi, con il risultato che facciamo le identiche cose di quando abbiamo iniziato. Con strumenti diversi, ma nella sostanza non c’è alcuna differenza. Anzi, mi permetto di osservare che gli strumenti consentono una sempre maggiore efficienza e risultati in minor tempo, e con la scusa che si fa meno fatica ci è richiesta una velocità superiore rispetto a quando abbiamo iniziato. Ma, ripeto, non abbiamo più trent’anni. Io per esempio sono cambiato, e ci mancherebbe. Ci vedo di meno, porto gli occhiali, mi alzo il doppio delle volte per fare la pipì, ho una figlia adolescente che occupa gran parte dei miei pensieri, dormo male perché le preoccupazioni si coricano insieme a me, ho la mamma anziana, sono stressato perché pensavo che a cinquant’anni avrei potuto iniziare a tirare i remi in barca, le continue distrazioni del lavoro digitale hanno trasformato il mio cervello in una specie di flipper e così via. Probabilmente tra tre o quattro stadi evolutivi saremo pronti ad affrontare un mondo del lavoro così strutturato da anziani. Al momento, noi che siamo i primi siamo abbastanza in difficoltà. E se mi leggete dall’alto dei vostri trent’anni o molti di meno, preparatevi perché probabilmente sarà sempre peggio.
un gita domenicale in un posto dall’indiscutibile fascino
StandardSe ci avessero detto, quando consegnavamo brevi manu i curriculum ancora impregnati dell’odore delle foto-copisterie a SMAU negli anni novanta, che saremmo finiti a fare un lavoro così impensabilmente di merda come i socialmediacosi nel duemila e rotti avremmo cambiato strada subito e scelto un destino meno vacuo. A partire da quando poi ci chiamavano per i colloqui nei centri direzionali come il Colleoni di Agrate Brianza in cui non c’era nemmeno un mezzo pubblico da cristiani per raggiungerlo senza la macchina. Ci sono passato di fianco proprio ieri che era domenica, all’imbrunire. Sapete meglio di me l’impatto fisiologico che i luoghi destinati al business vissuti nei giorni festivi hanno sugli esseri umani sensibili. Nausea, mal di pancia, malesseri intestinali.
Una volta avevo letto di un bar ubicato proprio in uno di questi non-luoghi che si era inventato nei fine-settimana estivi delle serate con musica e cocktail. Si tratta di esercizi pubblici che vivono grazie ai ticket restaurant degli impiegati delle aziende che hanno la sede lì dal lunedì al venerdì. A nessuna di queste persone verrebbe mai in mente di recarsi in un posto che puzza di ufficio lontano un miglio nel weekend, e se a questo ci aggiungete che queste aree sono ben isolate dai centri urbani potete immaginare il successo dell’iniziativa. Luci colorate, tavole imbandite per l’apericena, long drink esotici preparati da un barman acrobatico ingaggiato per l’occasione, musica con il meglio della merda latino-americana del momento e il locale vuotissimo all’inverosimile.
Per questo i centri direzionali come il Colleoni di Agrate Brianza a me fanno tenerezza perché, come certe specie animali di allevamento, sono l’ennesimo prodotto della smania di fare soldi dell’uomo. Tonnellate di cemento e di attrezzature Ikea da ufficio sfruttate senza ritegno e poi abbandonate a loro stesse in un tripudio di ipocrisia. Un tempo, quando l’economia girava, probabilmente tutto ciò incuteva timore. Quelle persone che sono state chiamate per un colloquio dopo aver consegnato il loro curriculum a SMAU negli anni novanta e che non avevano mezzi propri per attraversare gli effluvi di brodaglia delle industrie alimentari nelle vicinanze di Agrate sono arrivate all’ingresso del Colleoni che ancora era buio per sfruttare la combinazione di treno + metro + navetta da Cascina Gobba a un costo conveniente.
Oggi invece chi immagina che cosa è rimasto in quartieri di affari nei tempi crisi come quello transita in macchina a fianco, la domenica sera, consapevole che non c’è quasi più nulla da perdere, che uno alla volta qualcuno viene allontanato da lì senza essere più rimpiazzato, e che i giganti edificati per aggiungere ricchezza alla ricchezza oggi sono come vecchie attrazioni da circo a cui faccendieri senza scrupoli, imponendo gli standard della cattività da arrivismo, hanno negato la loro vera natura per sempre. Da lontano, all’imbrunire, nemmeno una luce accesa. Il buio, il vuoto, l’incertezza che lunedì qualcuno, in quelle stanze, disinserisca ancora i codici di allarme. Le aziende oggi si sono spostate quasi tutte a sud di Milano, in altri centri direzionali. Che almeno tutto ‘sto andirivieni di uffici che traslocano da una parte all’altra, in cerca dell’affitto più conveniente e della classe di efficienza energetica più adeguata ai tempi che corrono, abbia portato qualche soldo in tasca a qualcuno.
il re nudo e l’amministratore delegato in boxer
StandardSe non siete ancora rientrati in ufficio chiudete questa pagina immediatamente e godetevi ancora gli ultimi strascichi delle ferie. Troppo tardi? Già, perché solo a leggere la prima riga vi siete attirati un incantesimo che vi condanna a incontrare nel luogo di villeggiatura in cui state soggiornando in questo esatto momento qualcuno con cui avete a che fare per la vostra attività. Un fornitore, il collega dell’ufficio acquisti con cui non condividereste nemmeno la manciata di secondi in cui ci si lavano le mani dopo la pausa pipì delle undici, il vostro responsabile, l’impiegato dell’amministrazione della precedente azienda che avete mandato affanculo prima di cambiare occupazione. Insomma, scegliete voi.
Ma ricordatevi che non è tanto quello che può accadere una volta che avete riconosciuto un volto tristemente noto per ragioni professionali sotto l’ombrellone vicino al vostro, seduto al tavolo a fianco nell’agriturismo in cui avevate pianificato di ubriacarvi come una merda tra il maialino arrosto e una pecora in umido, lungo il sentiero delle Dolomiti in cui anelavate di tornare sin dall’estate precedente. Il problema, almeno per me, è riconoscere questi rompiscatole a loro insaputa in un ambiente e in una veste differente da quella con cui siamo abituati a vederli, un fattore che non è da poco considerando che molto spesso è proprio l’unione tra il luogo fisico in cui ci si frequenta e l’abbigliamento con cui ci si relaziona a determinare alcune delle principali dinamiche che regolano i rapporti sul posto di lavoro. Basta un manager sempre tappato in giacca e cravatta con un fisico flaccido e cadente che si trova in costume di fronte a quello che si occupa della manutenzione dell’edificio, sul posto di lavoro sempre in modalità anti-infortunistica e al mare tutto muscoli e tonicità, ed ecco che l’organigramma naturale è ribaltato.
Sembra una banalità, anzi probabilmente lo è, ma quando vedo seminude e con la loro famiglia persone che la consuetudine me le fa incontrare vestite e dietro a un pc mi ci vuole un po’ a metterne a fuoco l’identità. E poi vogliamo parlare dell’imbarazzo di osservarsi reciprocamente membra di cui normalmente siamo all’oscuro? L’ombelico del vostro capo? Le cosce del direttore generale? I piedi della responsabile del personale? Chissà se è vero che in questi frangenti siamo davvero tutti uguali, come dicono certi seguaci delle religioni che professano la democraticità dell’anima rispetto alla tirannia dei corpi e, al giudizio dell’ipotetico creatore, sostengono che sia richiesta solo la presenza della parte più inconsistente.
Vogliamo parlare poi della convenzione sociale imposta dalle buone maniere di dover presentare i propri parenti ai colleghi creando ponti pericolosi tra ambienti che è bene lasciare il più separato possibile? Insomma, il peggio è facile da immaginarsi: coperti solo da uno slip e da un reggiseno a fascia, in piedi sul bagnasciuga a scambiarsi impressioni di meraviglia per essersi trovati lì con i rispettivi congiunti che collateralmente magari stringono conoscenza mossi da un cameratismo non richiesto (quindi evitate di parlare di lavoro tagliando fuori gli altri) fino a quando, inavvertitamente, qualcuno butta lì un invito a cena, un aperitivo, una camminata fino alla scogliera panoramica. Quindi, cari amici, state sempre all’erta, non soffermatevi su seni generosi o glutei ammiccanti quando passa la gente davanti alla vostra sdraio ma osservate bene le facce delle persone e se vi suona un campanello d’allarme cercate di decontestualizzare i lineamenti che ritenete famigliari componendo identikit nella vostra testa per smascherare, con adeguato anticipo, tutti i possibili rischi potenzialmente dannosi per il vostro destino professionale.
qualche migliaio di euro in più non ti cambia la vita
StandardDa come me l’ha raccontata, la telefonata dell’avvocato di zia Giulia dev’essere stata come uno di quegli eventi inaspettati che cambiano la vita ai protagonisti dei romanzi e dei film, come le trovate degli autori e dei sceneggiatori per giustificare le esistenze condotte senza affanni dei personaggi delle loro storie perché, altrimenti, la narrazione del quotidiano di gente alle prese con ordinari problemi di sussistenza al lettore o allo spettatore rompe i maroni.
Ma prima di mollare il posto da precaria e godersi quei due o tre anni di miglioramento personale che l’eredità della prozia paterna gli consente, Anna ha promesso all’ingegnere di accompagnarlo ad acquistare la pianola con l’arrangiatore automatico, così la chiama il suo diretto responsabile. L’ingegnere e Anna si conoscono dall’azienda precedente in cui lavoravano entrambi sempre con la stessa posizione subalterna nell’organigramma, con lui supervisore di lei. L’ingegnere però ha esercitato la sua autorità con modi poco costruttivi sin da allora; sposato con figli ma palesemente gay non dichiarato ha sempre utilizzato la sua posizione per controllare i riporti generando tensioni tra di loro in una versione di provincia della strategia “dividi et impera”. Anna, che è molto brava nelle cose che fa, si era stufata dell’ambiente ostile e aveva accettato una proposta interessante della principale azienda concorrente a cui però, tempo nemmeno un semestre, come una maledizione era approdato anche l’ingegnere, ancora come senior di Anna.
L’unica cosa diversa ora è che ad Anna è morto il papà e che quindi nella tabaccheria di famiglia ci sarebbe bisogno del suo aiuto, anche se non sembra un problema urgente. Anna vorrebbe continuare con il suo lavoro e magari fare carriera, malgrado l’ingegnere e la sua presenza che lei vive come una persecuzione, ma tutto sommato dare le dimissioni e gestire il negozio con sua mamma e sua sorella costituisce una via d’uscita mica male. La piccola eredità di Zia Giulia poi è stata la ciliegina sulla torta, a volte il lutto lascia liberi degli spazi che con gli affetti nemmeno ci immaginiamo.
Anna mi diceva che a casa bevevano tutti tantissimo latte, una specie di abitudine famigliare. Non so nemmeno se faccia bene alle persone adulte consumarne in quantità eccessive, indipendentemente dalle intolleranze che non sono così poco frequenti. Ma anche l’ingegnere ha una stranezza tutta sua. È appassionato di musica melodica e si diletta a strimpellare quelle tastiere elettroniche dotate di sistemi di accompagnamento programmato per stili che ti consentono di suonare basi musicali complete in tempo reale (con batteria, linee di basso, archi eccetera) e di cantarci sopra con quella sensazione volatile di completezza artificiale che certe sensibilità elementari come la sua confondono con l’estro. Anna ha una certa dimestichezza con quel genere di strumenti semiprofessionali perché suo papà si è divertito con passione per anni a intrattenere amici e parenti dopo i pranzi delle ricorrenze in una specie di karaoke famigliare. L’ingegnere così le ha chiesto una consulenza su un nuovo modello di pianola con l’arrangiatore automatico e Anna, che quella marca di tastiere la conosce molto bene, si è offerta malgrado il rapporto teso con il suo superiore di dare il suo parere all’acquisto.
Così il giorno prima dell’ultimo giorno di lavoro di Anna, che sarà probabilmente il penultimo della sua vita con l’ingegnere come suo diretto responsabile, si trova con lui dopo l’orario di ufficio al negozio di strumenti musicali dove Anna sta per confermare all’ingegnere che sì, quella pianola è un ottimo strumento in grado di rispondere alle sue velleità artistiche. L’ingegnere prima la prova suonando una hit di Madonna, ovviamente non la canta lui ma riproduce con un timbro di sax sintetico una strofa e il ritornello. Il negoziante e un paio di clienti si avvicinano ad ascoltare, e Anna ne approfitta per pensare se esiste al mondo un posto di lavoro, ma anche una città in cui vivere dove ci sia la possibilità di conoscere e frequentare persone meno semplici di così.
quando non centri per l’impiego
StandardA volte lavorare significa presidiare un posto, a volte controllare altri, fare disegni, parlare di cose che non si conoscono a persone che tanto è uguale, mettere i dischi, recuperare alpinisti in difficoltà, dare in affidamento animali abbandonati, dare in affidamento esseri umani ritrovati. Lavorare è anche quando offri possibilità, chiudi porte e finestre, le apri per cambiare l’aria in appartamenti che non sono il tuo, riaccompagni a casa bambini in lacrime, decidi chi fa cosa, consegni progetti, controlli cantieri, impari lingue nuove perché il mercato è cambiato, ti scordi come si scrive tanto poco ti serve. Ma lavorare è anche provare brani di Strauss fino allo stremo per eseguirli a capodanno, fischiare un’invasione in una finale di pallavolo che non c’era, ascoltare tabelline all’infinito, guidare da remoto pattuglie di volo acrobatico, riparare cestelli della lavatrice, trovare i refusi nei libri, pulire di notte i resti negli stabilimenti in cui si fanno prodotti alimentari con la carne. Il filosofo, ecco io vorrei tanto fare il filosofo anche se non so sinceramente da dove si inizi e cosa fa, un filosofo praticamente, tenendo conto che è tutta teoria. O uno di quei mestieri di cui parlano tutti ma non si sa esattamente chi li faccia: chi sta nella stanza dei bottoni, chi mette in pratica strategie di cambiamenti climatici controllati attraverso l’emissione di scie chimiche, un componente chiave del Bildelberg, Elena Ferrante, la mente di una qualsiasi società segreta, il capo della mafia, il gufo che trama contro il governo, il regista della CIA che ha architettato l’11 settembre. Ci sono quindi persone che consegnano e ritirano libri dati in prestito e altre che comprano e vendono qualunque cosa. Il commercio, che passione. Ma vogliamo parlare di chi munge gli animali da latte? E chi coordina l’inseminazione di quelli da allevamento? E i poliziotti? E quelli che vivono sulle piattaforme petrolifere? Non so se esista, sarebbe bello però consultare un annuario delle professioni, tutti i mestieri dalla A alla Z, un’enciclopedia che non sono sicuro che potrebbe risolvere il problema della disoccupazione illustrando a chi non ha un lavoro tutte le possibilità e le combinazioni di attitudine, competenze e iniziativa che esistono al mondo. Di certo troverebbe estimatori come il sottoscritto, gente che passerebbe ore a cercare che cosa fa, altra gente, per vivere.
hanno licenziato Francesca di Infojobs?
StandardMi spiace rovinarvi la festa nel pieno del dibattito sul Jobs Act e proprio oggi in cui i primi due decreti attuativi della riforma del lavoro voluta dal governo Renzi entrano in vigore. Vi sarete accorti anche voi che, come me, siete iscritti alle ennemila newsletter dedicate alle offerte professionali, che le comunicazioni da Infojobs da qualche settimana non arrivano più a nome della nostra cara Francesca, la specialista in risorse umane che selezionava apposta per noi gli annunci più in linea con il nostro expertise. Il suo è stato un addio sottovoce in linea con il suo stile sobrio, io non me ne ero nemmeno accorto tale era il suo modo discreto di ricordarci con una cadenza ben precisa che là fuori c’è tutto un mondo di opportunità che sta solo a noi cogliere. Ora è evidente tutta la freddezza e l’acriticità di un sistema automatico che raccoglie manciate di segnalazioni e le getta a pioggia sulle tonnellate di iscritti che ogni giorno spera che sia la volta buona. Quando c’era Francesca invece, lo sapete meglio di me, era tutto diverso. Francesca di Infojobs per noi era un vero e proprio personal trainer per affrontare la solitudine della precarietà nell’ambiente virtuale dell’Internet, sordo e di gomma in risposta alle nostre preghiere di trovare uno straccio di occupazione più di una divinità qualunque. Francesca di Infojobs era la coscienza duepuntozero che ci ricordava, ogni giorno, ogni settimana, che è un nostro dovere migliorarci, non accontentarci, cambiare le nostre vite, dare il massimo. Mi sono anche chiesto se sia un problema solo mio, magari Francesca è ancora nel team di Infojobs ma ha smesso di scrivere solo a me, c’è un motivo personale che in questo momento mi sfugge. Ho cliccato su troppi annunci di Monster? Mi sono fatto ammaliare da qualcuno di CVEngine? Sono ormai entrato nel loop del sistema delle raccomandazioni a cazzo di Linkedin che danno l’illusione che basta che tizio dica che sai scrivere dei testi per spalancarti le porte del successo? No. Se è così, cara Francesca, ti prego di perdonarmi. E anche se è stata una tua decisione, quella di abbandonare Infojobs, ti prego di farci avere tue notizie. Qui dentro hai davvero decine di migliaia di sostenitori che sono pronti a seguirti ovunque. Anche se andassi su Experteer, che diciamocelo, è veramente un sito per ricerca lavoro di merda. Da questo blog, ancora una volta, lancio un appello solo per te, Francesca di Infojobs. Ti prego, Franci, ritorna.
la primavera del terziario avanzato, a pochi giorni dall’inizio dell’inverno
StandardIl miracolo a Milano che è accaduto questa mattina risulta ben più difficile da credersi di quell’altra arcinota storia neorealista di un gruppo di disadattati che rubano le scope agli operatori ecologici per prendere il volo verso un mondo immaginario. Oggi sembrano essersi verificati decine di episodi di impiegati che sono stati visti uscire di casa tenendosi tutti per mano, un gesto concreto di solidarietà per affrontare il rientro verso un lavoro per il quale si sentono sprecati tutti quanti, dopo almeno una ventina di giorni di chiusura aziendale. Persino qui, al mio paesello, un borgo post-moderno della periferia nord colonizzato da una popolazione di cafoni irriverenti, presuntuosi e poco istruiti a giudicare da quello specchio della società in cui viviamo che è la pagina Facebook “Sei di pincopallo se…”, che appunto nel caso del mio paesello è caratterizzata da commenti vergognosi e indegni per il genere umano tanto che ho provato a sbirciare in altre pagine Facebook omologhe e vi assicuro che nessun’altra è così indecorosa. Dicevo che persino qui, al mio paesello, di catene di auto-aiuto verso la stazione ferroviaria e verso la fermata della metro che è all’altro capo se ne sono viste numerosissime. Tutto sembra essere nato proprio da un esse-o-esse lanciato nel tardo pomeriggio di ieri, quando la morsa della responsabilità del mantenimento dei propri cari con la costrizione alla copertura della propria posizione produttiva si faceva sentire in tutto il suo bruciore allo stomaco a milioni di persone, in quello strascico di piacere sull’orlo del baratro esistenziale che è la festa della befana. Una iper-domenica in cui la sigla della Domenica Sportiva, anche se è solo immaginaria come è stato ieri perché ieri era martedì, squarcia i silenzi della nostra consapevolezza che non abbiamo scampo amplificata all’ennesima potenza, a sancire il termine ultimo della proroga per i migliori propositi di tornare al lavoro con la testa, magari unita alla promessa di una dieta o a un fioretto di non bere più birra almeno per un mese. E stamani tutti gli impiegati poi hanno percorso ancora per mano gli ultimi metri prima dell’ingresso delle aziende che li vedono ricoprire le stesse posizioni da almeno dieci anni accompagnandosi a vicenda, come quella gag dei due ubriachi che prima uno accompagna l’amico a casa, poi l’amico però preferisce tornare indietro con il primo verso casa sua per non lasciarlo solo, e l’altro pensa di riaccompagnare ancora l’amico per tenergli compagnia e così ad libitum. Non so dirvi come è finita, ma questa cosa del tenersi per mano tutti al rientro dalle vacanze di Natale anche se non ci si conosce sta dando il via a una vera e propria rivoluzione, da queste parti. Tenetemi aggiornato su quello che sta succedendo nelle vostre città.
la domotica che non ti aspetti
StandardVoglio acquistare quel numero della Settimana Enigmistica in cui, nella celeberrima rubrica “Strano ma vero”, è pubblicata la notizia secondo cui sembra essere in crescita il numero di adulti tra i 20 e i 40 anni che sono vittime di espressioni di incredulità da terzi nei casi in cui rivelano di essere sposati o avere dei figli. Ho assistito a una specie di ribellione contro un’isterica che è riuscita a parlare con un amico immaginario dall’altra parte del suo auricolare per una quindicina di fermate dall’estremo sud agli antipodi settentrionali della metropoli, e tutto perché ha il vizio di sedersi nel vano superiore dei treni ad alta frequentazione dove all’ora del rientro ci sono tutti i manovali dell’est che, rientrando dai cantieri di Milanofiori, prendono l’aperitivo con la birra quella con il simbolo dell’euro sopra, che dev’essere la non-marca più a buon prezzo del supermercato, e qualche fonzie tarocco acquistato alle macchinette della stazione. Io la capisco, si tratta di una fobia plausibile che ti spinge alla conversazione estrema per avere un testimone in caso di approccio o di molestia, anche se i manovali a metà bottiglia si abbioccano, e come biasimarli. Ne consegue che nel frattempo l’isterica ci prende gusto alla conversazione fantasma – ci sono tutti gli indizi, a partire dai tempi di alternanza delle battute, troppo poco credibili fino al monologo verso il finale con il quale stacca ogni possibile concorrente – e il resto dei passeggeri è costretto a soverchiare il tono con qualunque mezzo, lettura a voce alta della Settimana Enigmistica compresa, ci siamo capiti.
Mi piacerebbe quindi che si trattasse di quella copia finta che avevo stampato con me in copertina, la foto in bianco e nero con la cravatta vintage che qualcuno mi ha scattato al matrimonio di mia cognata, ma poi capisco che non è possibile, e comunque, a parte il fatto che non sfiguravo per nulla nel ruolo di quindici orizzontale, non è uscita dall’ufficio in cui lavoravo allora. Ma il punto è che quella spigolatura che è davvero degna di nota mette a nudo un pregiudizio secondo cui si dà per scontato che alla fascia di età più bistrattata degli ultimi anni, con la scusa dei contratti farlocchi e dei socialcosi, non gliene importi nulla di prendere marito o moglie e, soprattutto, di riempirsi la vita con i figli. Io non la penso così, il mondo è pieno di community manager che schedulato l’ultimo tweet devono ricordarsi di passare in farmacia a prendere l’olio per frizionare le gambe della secondogenita che, in preda ai dolori della crescita – c’è poco da ridere, ne ho sofferto anch’io – ha bisogno di massaggi prima di addormentarsi. E poi perché vi stupite se c’è chi non si omologa al trend di imbarcarsi in quel modo che non ha senso di esistere di acquistare biglietti di voli per mete casuali e in giorni improbabili solo perché costano meno che una pizza margherita. Ne esistono molti, sapete, che non possono prevedere come possono stare le cose nel giorno della partenza. Basta una febbriciattola o un malattia esantematica per far saltare persino un apericena.
E anche in questi nuclei famigliari di giovani che hanno avuto il coraggio di mettersi in gioco, a questi eroi del quotidiano resta il dubbio dei silenzi quando tutti sono addormentati, ciascuno esausto per le proprie fatiche proporzionali all’età e quindi alla propria resistenza, certo. Nel vuoto cosmico della pianificazione delle attività per il giorno successivo – nulla che vada al di fuori dell’economia domestica, sia chiaro – solo il frigo con quel sistema che poi non lo devi più sbrinare emette un sottile codice morse che solo l’assonanza con l’acufene ne consente la percezione, l’elettrodomestico più elettronico di tutta la casa che ancora a mezzanotte cerca di dirci qualcosa, un segnale che facciamo presto a dimenticarci ed è per questo che è sempre utile segnarselo qui. Dovremmo ringraziare il frigo no-frost, quindi, chiudendo un occhio sulla stima dei decibel non rispondenti alla realtà con cui è stato venduto, ma almeno per la fatica da cui ci solleva, ad ogni età, che poi è il vero senso per il quale è stato progettato.
ogni mondo è palese
StandardIl solito elenco della minchia delle 10 cose più eccetera eccetera questa volta inizia con un frase tipo starsene sotto le lenzuola al caldo mentre fuori il rumore della pioggia è coperto a tratti dai vicini che chiudono la porta e vanno al lavoro. Ne deduco che tu sia un benestante, o almeno in quell’interstizio in cui uno prende la residenza quando ha vinto una bella somma a qualche lotteria o ha accumulato facili quattrini con attività illecite. Ma è curioso che a nessuno venga in mente che magari si tratta di uno che fa o si è occupato in passato di qualche mestiere redditizio, o ha imbroccato una hit o il format di un programma tv di successo, non si può mai sapere. Mi piace pensare comunque che ti sei trasferito in questo paesino dell’entroterra dove nessuno sceglierebbe di vivere a meno di non essere un impiegato del municipio o per occuparsi di attività come l’insegnante della scuola media in cui probabilmente c’è un’unica classe, considerando a quanto ammonta la popolazione, dicevo che ti sei trasferito qui per una sorta di performance situazionista, sicuramente consentita dall’agiatezza, una rappresentazione del non fare un cazzo se non sopravvivere. Nessuno può trovare un lavoro in questo posto, perché in questo posto non c’è niente, quindi resta il tempo da trascorrere. Il bianco mosso all’unico bar prima di pranzo. L’approvvigionamento nei due o tre negozietti del paese, che in inverno è freddo e deserto mentre in estate qualche centinaio di amanti della vacanza solitaria vivacizza un po’ l’unica via del centro. Restano i pasti principali e il coricarsi la sera. Basta. Uno stile di vita su cui comunque metterei la firma rispetto a quelli che passano settimane a Francoforte, a Shanghai o a Denver per quelle fiere internazionali di settore in cui tutta la tua vita che è fatta di lavoro ma anche di passioni che coltivi a casa – a partire da qualche legame sentimentale con una moglie e dei figli – si deve trapiantare all’estero in posti dove poi ci sono tessere magnetiche di camere d’albergo da riporre in uno degli slot del portafogli dedicato alle carte e asciugamani che non sono quelli che profumano dell’ammorbidente che si usa a casa, nel buio perpetuo artificiale della notte dietro tende così spesse che altrove avrebbero solo la funzione di paramento per lugubri feretri. Per il resto nemmeno una sillaba, nemmeno l’abbaiare dei cani che ti inseguono se provi a farti una passeggiata al buio nelle poche ore libere ha un che di familiare. Subentrano però tutti i malesseri dell’alimentazione provvisoria, quella della trasferta con i condimenti trasgressivi e le verdure di circostanza, un mix che va ad espandersi nello stomaco gonfiato dall’illusorio ristoro dell’alcool amico per un massa in crescita come unico souvenir che poi ci si riporta di ritorno a casa, fino al rientro dall’aeroporto a casa fatto rischiosamente in terza corsia – quella di sinistra – accelerando forte per lasciarsi tutto il più indietro possibile.