Nei numerosi open day a cui ho partecipato lungo i mesi che hanno preceduto la scelta della scuola superiore di mia figlia, uno degli argomenti su cui il consesso dei genitori ha chiesto meno approfondimenti è stato quello dei progetti di alternanza scuola-lavoro previsti. Il motivo secondo me va individuato nel fatto che per un papà o una mamma che accompagna un ragazzino di tredici anni nel sopralluogo di una struttura che lo fagociterà poco più che bambino per poi spararlo fuori dopo cinque anni quasi uomo, un’attività programmata al terzo o al quarto anno sembra remota tanto quanto la possibilità di diventare nonni. In più, lo sapete, le questioni sulla scuola cambiano ogni due per tre, se non a ogni legislatura: voti, esami, proposte, riforme, e chissà da qui ai sedici anni dei nostri figli quanta acqua passerà sotto i ponti. Ma ci sono anche le persone che sanno sovrapporre correttamente il presente sul futuro e, in non più di due casi, qualcuno ha alzato la mano e rivolto la domanda al preside o a chi conduceva la presentazione della scuola per chiedere dettagli. Anche in agenzia da me capitano spesso studenti che scelgono il settore della comunicazione tra i possibili sbocchi del loro corso di studi. Non so poi cosa portino a casa dell’esperienza: non è semplice coinvolgerli in progetti a meno che non ci sia del personale dedicato a questo tipo di attività, e qui da me dipende molto da quanto abbiamo da fare. Probabilmente nelle grandi aziende è diverso e gli studenti impegnati nelle ore di alternanza sono seguiti sul serio da dipendenti che non fanno altro. Quando capita di trovarmi a spiegare ciò di cui mi occupo ai ragazzi, penso alla percezione che si ha da giovanissimi del mondo del lavoro e a come sono cambiate le cose. Noi avevamo più contatti con il mondo del lavoro intanto perché non erano pochi quelli che smettevano di studiare dopo la terza media. Il mio amico e coetaneo Marco a quattordici anni è entrato come apprendista in una carrozzeria e oggi si trova già quasi quarant’anni di contributi sul groppone. Poi era frequente trovare lavoretti, spesso poco regolari, per tirare su i soldi delle vacanze che sicuramente è un altro paio di maniche ma la cosa si prendeva seriamente. Nelle scuole superiori di taglio più tecnico e pratico venivano addirittura a selezionare ancora prima della maturità per assicurarsi i migliori talenti.
Oggi, l’abbiamo ripetuto in lungo e in largo, purtroppo la situazione è completamente diversa, e siamo noi adulti in primis a vivere così male il mondo del lavoro da peggiorare l’opinione già pessima che ne hanno i ragazzi. Il lavoro è quella cosa che ci tiene separati da loro, dalle cose che ci piace fare, dalle persone che ci piace frequentare, è quell’attività che detestiamo svolgere perché la situazione economica non ci dà possibilità di fare altro, è quell’ambiente che ci sottovaluta e per il quale siamo sprecati, è quel sistema così provvisorio per cui per un nonnulla lo perdiamo e che ci paga una miseria o comunque sempre troppo poco per il regime di consumi imposti dal nostro status sociale, che ci sposta quotidianamente di tot km da casa o definitivamente in una città lontana se non in un paese in cui si parla una lingua che abbiamo dovuto imparare, è quel posto dove ci sono cattivi che mobbizzano, dinamiche contrarie ai principi a cui siamo stati educati, giochi di potere e di raccomandazioni o anche solo di simpatie inspiegabili che sbarrano strade a chi merita e spalancano porte ai più scaltri.
Così mi chiedo cosa vedono nelle aziende che visitano le nuove generazioni che, come gruppi sociali di riferimento, hanno a malapena la famiglia, la classe scolastica, una squadra sportiva, un crocchio di amici. Ci sono aziende poi – ma questa è un’altra cosa – che organizzano iniziative che trovo aberranti. Ci sono aziende che organizzano nei fine settimana giornate in cui spingono i propri dipendenti a portare i loro figli in visita alla sede. L’obiettivo è mostrare e far conoscere alle famiglie i luoghi, le persone, i processi che tengono papà e mamma così impegnati durante la settimana, che a volte dalla preoccupazione non li fanno dormire di notte, che li vogliono sempre pronti a scattare in caso di imprevisti, di urgenze, di necessità, che li valutano sulla base di quanto servono, di quanto producono, di quanto ci sanno fare, di quanto riescono a sopportare. Non so voi ma io mia figlia in ufficio non la porterei mai. Mi darebbe l’impressione di metterla a rischio a non saprei dire quale contaminazione. Forse la contaminazione della vita stessa, della società che è diversa da quella che avevo pensato per lei, che tutti avevamo immaginato di be altro tipo seguendo quanto, a loro volta, ci avevano insegnato i nostri genitori. Mia mamma, per dire, lavorava nella segreteria di una scuola, e per me era un onore quando mi portava con sé in ufficio da bambino, se non aveva alternative. Ora, non so voi, ma tutta quella purezza non c’è più, o magari è solo un problema mio.