il ciclo di vita delle idee creative

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1. All’orizzonte del nulla si intravede sorgere la luce dell’unicità del proprio pensiero creativo, quello che ci rende superiori rispetto al resto della gente condannata a eseguire e a portare borse al resto dell’umanità che conta, noi in primis.
2. All’idea si dà corpo e forma, colore e sostanza, anzi no prima la sostanza e poi il colore se no non asciuga bene, occhio a maneggiarla che scotta e ricordatevi sempre gli occhiali da sole meglio quelle mascherine per saldatori o al massimo anche quei sistemi fatti in casa per seguire le eclissi senza lasciarci la retina.
3. La potenza diventa atto e nulla sembra così disruptive come dicono gli americani.
4. Si cerca il canale più adatto per la diffusione dell’idea creativa. Può essere visual o un post tagliato su misura per social media più adatto a veicolarlo. Hai deciso Facebook? E Facebook sia.
5. Su Facebook il post in cui ha preso vita l’idea creativa ci farà assurgere a pionieri del futuro della comunicazione.
6. Passa una nuvola sulla nostra autostima che o mette in dubbio il fatto che l’idea creativa in sé sia una roba senza precedenti o che invece ci identifica con la nostra fan base che pensa che la nostra idea non ha proprio niente di speciale.
7. Ma chi cazzo se ne frega di pubblicare sta cagata.
8. Si cancella l’idea creativa, a partire da post come questo che come vedete è partito bene ma alla fine è diventato banalissimo.

Tempo trascorso: meno di un minuto.

già sono nati in un momento di merda, almeno concediamogli di vestirsi come vogliono

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L’equivoco di base è che non sempre inizi a lavorare e hai subito a disposizione dei soldi. Non funziona così. Certo, la latenza tra prestazione d’opera e risarcimento o guadagno varia a seconda di ennemila fattori. Ma lasciate perdere quello più complesso e di cui si parla sempre, e cioè se il lavoro è soggetto a un parere o a una decisione altrui. Sono un artigiano, realizzo un amuleto, l’amuleto fa schifo e nessuno me lo compra, fine della mia carriera di artigiano. Sotto il mio ufficio c’è una filiale di un noto brand di un network immobiliare. Sono in tre: una che mi sembra la responsabile dell’agenzia, almeno per motivi anagrafici, e due ragazzotti di quelli che vanno di moda adesso, quelli che mettono quei pantaloni di felpa che sembrano pigiami che si stringono al fondo lasciando la caviglia nuda, sopra a scarpe da tennis che nel peggiore dei casi sono rosse. Una volta gli agenti immobiliari avevano tutto sommato un loro dress code, non meno inquietante di questo considerando la qualità delle cravatte e la sberluccicanza delle giacche, ma nel complesso riconducibile a un modello a suo modo business. Questi sono eleganti come lo potrebbero essere i partecipanti al grande fratello, quello stile lì che una volta avresti detto da zarro ma che oggi sembra essere più sdoganato che mai. Ma non voglio farvi la solita paternale sull’estetica. Sono sceso ieri a comprare qualcosa da mangiare ed erano fuori dal negozio a serrande chiuse per la pausa pranzo, riuniti in crocchio per accendersi reciprocamente la sigaretta, avete presente come funziona quando in un gruppo di persone solo uno è provvisto di accendino. Il più giovane dei due con i pantaloni del pigiama mi ha trasmesso una rassegnazione da situazione professionale approssimativa. Che già il settore è quello che è, oggi non compra e non vende nessuno a parte chi ha soldi da investire. La vendita poi, in genere, di qualunque cosa intendo, è un’attività che in periodi in cui ci si deve spartire gli acquirenti con i denti non è che ti dia sempre da mangiare. Ecco: il più giovane dei due con i pantaloni del pigiama probabilmente è lì a fare un stage perché, non avendo studiato, quello è l’entry level del settore dei servizi in cui, a differenza dell’edilizia, dell’officina e in senso metaforico dei call center, è già nella confort zone in cui non ci si sporca le mani di terra o di calce. Almeno questa è l’impressione che ho colto da uno sguardo, poi magari era la pizza con i peperoni che lo stava provando sotto un altro punto di vista. Chissà quando vedrà il primo rimborso, se prima i soldi se li mangia la crisi, poi la responsabile che ha appena fatto accendere i due collaboratori e quindi i ragazzi con il pigiama. Hanno forse accettato quel lavoro pensando che di lavoro si trattasse, perché a lavoro corrisponde retribuzione o almeno risarcimento, e invece non c’è l’ombra di un quattrino. Almeno credo io, eh, lasciatemi quest’idea un po’ deprimente della realtà. Anzi, lasciate che vi dica una cosa: essi rientreranno a casa dai genitori un altro giorno con la consolazione di avere comunque qualcuno che bada a loro, si fa intestare l’utenza telefonica per wazzappare durante le ore in ufficio quando non entra nessuno a vendere e a comprare abitazioni, gli dà i soldi per comprarsi i pantaloni modello pantaloni del pigiama. D’altronde, già sono nati in un momento di merda, almeno concediamogli di vestirsi come vogliono.