Per dare un contentino agli individui che soffrono di esuberanza di personalità e che stanno stretti nelle regole, nella tecnica, nelle linee guida e nell’esecuzione degli ordini, la società moderna si è inventata intanto quel tipo di solidarietà grazie al quale organizzazioni pubbliche e private non battono ciglio a sobbarcarsi sulle proprie spalle certi costi fissi – a cui magari uno rinuncerebbe pure – di gente che altrimenti (e questo avveniva in civiltà primitive, prendete ad esempio quegli illuminati di Sparta o anche alcuni regimi di matrice totalitaria) morirebbe di fame. In seconda battuta sono stati istituzionalizzati i cosiddetti lavori creativi, quelli in cui è ammesso che uno ci metta del suo nei processi e soprattutto nel modo di fare le cose. Siamo tutti d’accordo che nel compilare le fatture c’è ben poco da menare il torrone, come direbbe mia suocera. In altri contesti però il creativo porta in ufficio alcuni aspetti della sua vita privata, come la personalità, e la mette al servizio dell’imprenditoria. La creatività non si impara a scuola. Ci sono certi corsi di studi che ti insegnano la storia della creatività, le tecniche, le pratiche, le figure ispiratrici. Ma poi, conseguito un (inutile) diploma, il creativo è allo sbaraglio e se dentro di sé non ha davvero quello strumento che spruzza la cosa giusta al momento giusto in grado di fare la differenza, l’imprenditoria tornerà a investire nei ragionieri che sanno compilare le fatture e il creativo a godere dei benefici della solidarietà, un concetto esistente ai tempi dello stato sociale e oggi presente in certa letteratura fantasy o solo nel cinema italiano. Il creativo quindi mette se stesso nel lavoro che fa. Ciò significa – per farvi un esempio – che se il creativo è un appassionato di vinili, può proporre come gadget a conclusione di un’iniziativa di marketing un fac simile 33 giri a scopo pubblicitario. Se invece il creativo è un nazifascista che va ai raduni delle teste rasate può proporre una svastica in peltro con incisa in caratteri gotici una citazione da un libro di Michel Houellebecq come ricordo di un evento corporate. Ora, sta alle aziende scegliere quindi la matrice di personalità individuale della quale avvalersi, non so se mi seguite in questo ragionamento. Le riflessioni che vi propongo sono molteplici: quanto monetizzare poi cose come queste; se uno cambia organizzazione porta se stesso di là quindi la nuova organizzazione corre il rischio di esprimersi come la vecchia, un po’ come gli atleti che, lavorando con il proprio corpo, giocano nella nuova squadra come giocavano in quella precedente; infine, punto cruciale, se ha senso tutto ciò, se cioè la creatività invece debba essere come tutte le altre discipline una tecnica standard di trasformazione della materia prima e il creativo un manovale (con tutto il rispetto per i manovali) che si comporta come un saldatore qualunque.
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