In certi momenti, due stati d’animo convivono in me malgrado la palese contraddizione. Del resto, se ogni tanto leggete da queste parti, sarete abituati al vero motto del blog che è “tutto e il contrario di tutto”, altro che la prossima vita e il futuro e le puttanate varie che mi invento. No perché da una parte mentre mi reco ai concerti malgrado la mia veneranda età, in cui al massimo dovrei accompagnare i figli per poi aspettare chiuso in macchina la fine dello spettacolo per riportarli a casa, in quei frangenti mi guardo intorno e ho l’impressione che tutti stiano andando verso la mia stessa meta. In auto i fan come me sono facilmente riconoscibili perché quando li supero o mi superano in autostrada vedo le sciarpe e cuscini dei Guns N’ Roses e penso che bello, sto andando a sentire i Soundgarden che casualmente aprono il concerto di quel gruppo di tamarri metallari. O ancora, se siete musicisti o ex come il sottoscritto, vi sarà sicuramente capitato di incrociarvi con altre band agli autogrill. “Dove suoni stasera?” “Ai Murazzi, e voi?”. Ed è anche facile individuare i gruppi sconosciuti che rubacchiano gelati e roba da poco consumandola prima di arrivare in cassa, perché vestono più o meno simile e stanno tutti compatti, poi arrivi nel locale dove ti devi esibire e scopri con sorpresa che sono loro quelli con cui dovrai dividere la serata.
Per i mezzi pubblici, invece, il discorso è differente. Se sono sulla metro come ieri sera, mentre raggiungevo Matt Berninger e la doppia coppia di fratelli che si aggiungono a lui nella formazione dei The National, in concerto all’Ippodromo di San Siro, riconosco nelle facce quelli che si contenderanno con me i posti migliori scoprendo poi, alla fermata di Lotto, che non scende nessuno con me perché sono tutti impiegati che rientrano dall’ufficio, gruppi di ignavi studentelli seguaci di quella roba che i media si ostinano a definire rap italiano, stranieri che a malapena hanno di che sfamare i figli e figuriamoci se spendono sessantasei mila lire per un gruppo tremendamente di nicchia. Che invece non è più così, ed è questo il rovescio della medaglia. E cioè che questa cosa per cui c’è gente che conosce i gruppi che piacciono a me mi urta, e ora “questa gente” sono pure in tanti. Anche se lo spazio per la loro esibizione, ieri sera, era oggettivamente sovradimensionato e dispersivo. Tanto che si vedevano persone spostarsi in libertà da un punto all’altro del prato, che tra me e me pensavo che senso ha camminare durante un concerto quando l’unico motivo per cui uno ci si reca è quello di concentrarsi sull’esibizione, cantare le canzoni, ballare, o al massimo puntare il proprio smartphone in direzione delle migliaia di altri smartphone puntati contro il palco.
Questo per dire che, se pensavate di trovare una recensione del concerto di ieri, siete capitati sul blog sbagliato. I The National poi sono impeccabili, suonano divinamente, sono animali da palco e non è banale esserlo facendo il genere che fanno loro, hanno ormai un repertorio talmente ampio che alla fine sono tutti a dire ah non hanno fatto questa o peccato non hanno suonato quell’altra. Io sono arrivato giusto in tempo per perdermi Colapesce, che mi fa cagarone forte eh, e stava suonando quella cover band degli Smiths al fondatore della quale vorrei ricordare che la sineddoche – la parte per il tutto – è una figura retorica che poco si presta al pop-rock.