l’iPhone alla mia unica condizione

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Che te lo compri con i tuoi risparmi e solo quando hai 18 anni. Tanto sono certo che per quell’età avrai acquisito tutti gli strumenti per comprenderne la superfluità.

Con amore,
tuo papà.

approposito e appsproposito

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Un paio di anni fa lavorava qui un ragazzo, che in altri tempi avresti definito un signore, vista l’età, che non mi sarei stupito un giorno veder entrare in ufficio imbracciando uno Savage-Springfield a pompa e fare una strage. Cioè, non mi sarei stupito dopo, perché probabilmente non sarei sopravvissuto nemmeno io. Questo perché aveva tutta una serie di hobby e interessi, diciamo così, che comunemente vengono associati a pratiche violente. E sapete, la saggezza popolare a volte non va distante dalla realtà, anche se l’intelligenza che ci ha concesso di evolverci dovrebbe consentirci di frenare gli istinti, trattenere la pancia, non generalizzare e non giungere a conclusioni affrettate. Il ragazzo che lavorava qui ascoltava musica metal, passava ore a giocare ai giochi elettronici, votava un partito di destra ed era particolarmente incline a farsi prendere dal fascino della tecnologia. Forse leggeva anche Tolkien ma su questo non ne sono sicuro. Tutti sospetti che non sono certo nati oggi. I giochi elettronici sono stati posizionati nei bar sin dai primissimi anni 80, il metal intamarrisce i nostri usi e costumi ormai da qualche decennio, sui movimenti nazifascisti sappiamo tutti come è andata la storia, la tecnologia è un diversivo nerd al sesso puberale fai da te sin dai tempi delle radioline smontate e rimontate in cantina di nascosto dai genitori. Prima di tutto questo i ragazzini sfogavano gli impulsi repressi colpendo con la fionda i piccioni per strada, il che se ci pensate non è molto diverso, forse solo un po’ più primitivo.

Ma tutto questo, ed è lì che voglio arrivare e questa volta l’ho presa addirittura più alla lontana del mio solito, ora ha un denominatore comune che è proprio quello che avete davanti. Non il mio blog, ma lo strumento che vi consente di leggerlo. L’Internet, che è come un infinito videogame, non ha solo messo in evidenza la componente ciarlatana e cazzona che è dentro di tutti noi. Non a caso i socialcosi e molti degli spazi virtuali a cui abbiamo accesso con sempre più dispositivi pullulano di eterni adolescenti che, a furia di azioni di insert coin e press player one applicate a ogni ambiente più o meno temporaneamente occupato, demandano a una espansione deresponsabilizzata del sé tutto l’irrisolto e l’irrisolvibile delle proprie esistenze in carne e ossa. Un fattore che ci fa sembrare indispensabile il bisogno a consumo di digitalizzare sempre più aspetti e momenti della nostra vita per stringerci armoniosamente con questa dimensione che conserva ancora tutto il fascino dei nuovi mondi inesplorati. Prova ne è il fatto che mentre mettevo giù questi appunti a penna su una vecchia agenda promossa a ruolo di diario segreto, mi aspettavo di veder sottolinearsi in rosso le parole scritte erroneamente, con il correttore automatico di Word.

Tutto ciò genera alcuni comportamenti di larga diffusione favoriti soprattutto da quel fenomeno altrove definito come consumerizzazione dei commutatori analogico – digitale. Entro in un luogo e posso essere posizionato da coordinate geografiche. Ascolto una canzone di cui ignoro l’autore e consulto un database di rappresentazioni grafiche di forme d’onda per cercare quella che vi somiglia di più, una volta campionata, per soddisfare all’istante la mia sete di curiosità. Insomma avete capito a cosa mi riferisco. Il passo successivo è condividere queste informazioni con altre persone così, per fare comunella. Questo per dire che anche in questo caso l’Internet ha portato a un estremo, la cui estremità ovviamente è soggettiva come qualsiasi altro comportamento, che è lo sfruttamento di un mercato che sta cercando di raschiare il barile creando bisogni in ogni spazio disponibile. Leggevo per esempio questo reportage su una cosa semplice e naturale come l’attività fisica, che in alcuni casi sembra non poter più esimersi dall’utilizzo di strumenti di supporto come il sistema che traccia il percorso che fai, quello che ti sceglie la musica a seconda della velocità che devi tenere eccetera eccetera. L’unica fortuna in tutto ciò è che l’insieme di queste utility può essere contenuto in un telefono portatile, altrimenti noto come smartcoso. Tutti i dati salvati poi possono essere condivisi per far sapere che da qualche parte, nell’infinito videogame di cui sopra, ci siamo anche noi e siamo addirittura così prestanti da portare a termine delle prodezze atletiche. Ed è proprio l’esasperazione che mi mette a disagio. Così mi è venuta in mente l’idea di sviluppare una app che misuri in automatico le dimensioni dei pesci pescati, per confrontarle con gli amici. Un posto nell’Internet dove dici che hai preso un pesce grosso così. Ma probabilmente esiste già.

si prega di non spegnere i cellulari durante l’esibizione

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Ora immagino che anche le reazioni ai primi modelli di campionatori o di sequencer siano state più dalla parte degli apocalittici che degli integrati, mi riferisco agli addetti ai lavori, non necessariamente ai puristi. Ma se date un’occhiata al video qui sotto, la chitarra con lo slot per l’iPhone non è proprio una chitarra ma è più una specie di passatempo, benché si tratti di un progetto finanziato con centomila dollari. E la descrizione che accompagna l’innovativo prodotto, gTar – la chitarra che chiunque può suonare regardless of experience – conferma la regola per la quale dare una chitarra in mano al primo che passa non è mai una buona idea, che sia un giocattolino come questa che una Telecaster. Al primo che passa meglio lasciargli l’iPhone, di certo avrà maggiore dimestichezza.

i principii dei poveri

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Non guardo la tv perché non mi va di essere bombardato di spot. Per lo stesso motivo impongo, quasi sempre senza essere ascoltato, il diktat ai miei congiunti. Con mia figlia, che ha accesso solo a un paio di canali per bambini del digitale terrestre, il compromesso è che a ogni interruzione per i consigli per gli acquisti deve cambiare canale. Perché è più facile essere poveri se non si guarda la pubblicità, in un momento in cui i parametri di scarsa agiatezza sono piuttosto flessibili, ultimamente sempre più aleatori. Le code in cui ci si imbatte in ogni fine settimana da e verso Milano danno una scarsa percezione del potere d’acquisto della classe media. Stesso discorso per l’elevata percentuale, non vorrei esagerare ma almeno uno su due, di persone che si trastullano con cellulari da centinaia di euro in mano al mio fianco sul treno dei pendolari. E mentre stavo acquistando il mio nuovo telefonino, un innovativo modello che oltre a telefonare consente di inviare messaggi sms ad altri, del costo di 5 euro – unico motivo che mi ha convinto a cambiare il mio vecchio Nokia solo perché a seconda di come lo posizionavo si spostava la SIM e dovevo intervenire manualmente – la coppia servita al mio fianco da un altro commesso del negozio contemplava in fibrillazione la procedura di attivazione dei loro iPhone nuovi fiammanti, uno a testa, che si stavano regalando per l’anniversario di fidanzamento. Entrambi sulla trentina, italiano lui (ha scelto il modello nero) e caraibica lei (ha scelto il modello bianco), mezzo titolo di studio in due, con in mano un rotolone di pezzi da cinquecento (euro) per portare a termine quell’accordo commerciale, ansiosi di inaugurare la multicanalità delle loro conversazioni a distanza con chissà quali contenuti, multimediali e non. Ammetto che è ancora più facile essere poveri se non si esce di casa.

pump app the volume

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Io sono uno di quelli che con la musica accesa non riesce a fare niente altro. Per dirla in un italiano meno approssimativo, ho seri problemi di attenzione, qualunque attività stia svolgendo, quando in sottofondo ascolto musica. Un po’ perché ascoltare musica è un’esperienza che mi assorbe in modo sinestesico (wow): ascolto il pezzo nel suo insieme, sviscero le singole tracce degli strumenti, me le canto, me le ballo, approccio improbabili armonizzazioni e cerco di afferrare il testo. Un po’ perché, sfortunatamente, appartengo al genere maschile, e non sono stato provvisto di quella vantaggiosa funzionalità denominata multitasking, ovvero fare più cose contemporaneamente. A stento provo la combinazione alt+tab, ma la mia attenzione resta sempre lì, ferma sul programma in quel momento in esecuzione. Così non mi era possibile studiare con i Police perché c’erano i soli sghimbesci di Summers da tenere a bada. E ancora oggi, quando in autostrada mi avvicino al casello, le azioni in sequenza che devo eseguire sono: spegnere l’autoradio, scalare le marce fino alla prima, abbassare il finestrino, ritirare il biglietto (o pagare), alzare il finestrino, accelerare fino alla quinta, riaccendere l’autoradio.

Ma il genere umano è in continua evoluzione. Presto la scrittura a mano cadrà in disuso, non ci importerà di accumulare informazioni perché avremo perennemente un dispositivo connesso in una banca dati sempre online, il potere ovunque sarà detenuto da una oligarchia di tecnici ICT. Nel mio piccolo, ho già compiuto un piccolo passo in avanti per scongiurare l’estinzione della mia specie. Ho imparato a leggere un romanzo ascoltando musica in cuffia, seguire cioè una trama senza necessariamente mettermi a mio agio nelle geometriche strutture standard intro – strofa – ritornello – strofa – ritornello – cambio – assolo – ritornello – ritornello (un tono sopra) – finale del pop ma anche nei tempi dispari della musica più colta. Si tratta di una evoluzione dettata da spirito di sopravvivenza nei miei viaggi da pendolare verso l’ufficio (tema più volte sviscerato da queste parti). E non mi riferisco solamente all’autodifesa da discussioni avvincenti come quella che ho subito ieri, 20 minuti abbondanti di teoria e tecnica del french manicure captata a causa del mio ipod scarico. Nemmeno alle univoche conversazioni uomo-cellulare, per esempio quell’altra di qualche giorno fa, un avvocato al telefono con il suo cliente in barba ad ogni accorgimento sulla privacy (devo ricordarmi di girare armato di registratore, mannaggia).

C’è un pericolo ancora più subdolo: le cuffiette di scarsa qualità (la maggior parte) con cui il viaggiatore abituale – e non – bombarda il proprio apparato uditivo con flussi sonori provenienti da dispositivi di audiodiffusione vari: dal telefono al classico lettore mp3 alle console portatili. Il problema è insito proprio nelle sottomarche più diffuse. Si tratta di auricolari non isolanti e tanto meno isolati che lasciano filtrare un fastidioso ronzio facilmente percepibile nel raggio di qualche metro. E se sei sprovvisto di analoghi dispositivi, sei costretto ad ascoltare la musica del vicino di posto.

Ora, converrete con me che in 9 casi su 10, quando qualcuno ascolta musica percepibile da altri, per esempio le auto con la radio a palla, o quelli che fanno le pulizie il sabato mattina con le finestre aperte, in questi 9 casi su 10 la musica è piuttosto di m***a. E i ronzii delle cuffie altrui non sono da meno. Per uno come me è pure fastidioso non riuscire a capire di che pezzo si tratti, se quello che emerge in qualche modo suona familiare.

E di nuovo a proposito di evoluzione, non mi era mai capitato un dirimpettaio sul treno come il ragazzo che, poche ore fa, ha rovinato ancora una volta i miei 30 minuti di lettura con il suo iphone. Appena seduto, inforcate le cuffie, pollici in assetto da combattimento sul display touch screen, ha iniziato a giocherellare con una app che simulava la console, piatti e mixer, da dee-jay. Ora, la gravità del pericolo di dare powerpoint in mano a un ingegnere è seconda solo a dotare di un qualsiasi strumento musicale o pseudo-tale a chi non ha il senso del ritmo. E pensare che mettere in fila 2 pezzi sullo stesso un-tz un-tz con un software che ti stretcha automaticamente allo stesso bpm i brani che vuoi suonare in sequenza non è particolarmente difficile. Non riuscendoci, il nostro turntablist delle Nord continuava a scratchare alla c***o di cane emettendo una serie di rumori fuori luogo e, soprattutto, ed è la cosa che mi distraeva di più, fuori tempo. A quel punto è arrivata una chiamata provvidenziale a interrompere il set, da cui è scaturita una lunga discussione sull’affidabilità dei server di Aruba. Grazie a Dio, che probabilmente è davvero un dj.

forse non siamo così in bolletta

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Sono da due giorni su un treno, avanti e indietro per la penisola. Mi capita spesso. Ma in queste ultime ore mi pare si sia superato ogni record.
Tutti, ma proprio tutti, al telefono.
Anche quelli che non hanno nessuno da chiamare, fanno finta, per non essere da meno.

Civati fa una caricatura dell’utenza del Frecciarossa, che è stata una vera rivoluzione per me: non trovandomi così a mio agio sospeso in aria, mi ha permesso di cambiare le abitudini di viaggio nei frequenti spostamenti Milano-Roma. L’unico pro che ha l’aereo, rispetto al treno, è che lassù, almeno per ora e finché continua così, i telefoni devono rimanere spenti. Mentre l’alta velocità (ma anche il passante ferroviario che prendo quotidianamente per raggiungere l’ufficio nel centro di Milano) è ad oggi una specie di “meta meeting-room”, dove ognuno si fa bellamente i ca§§i propri con l’interlocutore al telefono. Una conference call per ogni passaggero, per un totale da babele.

Ma non è solo un problema di buone maniere. La cosa sconcertante, al di là dei contenuti che, grazie alle mie nuove cuffie Akg ultraisolanti e con i bassi potenziati, restano a livello di labiale fuori dalla mia vita, è che nell’Italia dei precari e dei disoccupati, l’Italia che non arriva a fine mese, l’Italia delle figure professionali pagate meno che nel resto d’Europa, nove di quei telefoni su dieci sono i-phone da centinaia di euro.