è proprio bravo a scrivere, ve lo stra-consiglio

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Cerco di evitare di fermarmi a parlare con Arianna quando la incontro perché Arianna parla sempre di sé come se fosse una terza persona ed è un modo di fare che proprio non condivido. È come se un componente di una band scendesse dal palco su cui il suo gruppo si sta esibendo per spiegare a qualcuno del pubblico i testi dei pezzi che suonano e, quindi, non risalisse più per godersi da sotto il proprio concerto. Ciascuno di voi ha molta intimità con se stesso, io pure, quindi perché considerarsi sdoppiati? Le due Arianne poi spesso interpretano i cliché delle coppie antitetiche che si vedono al cinema o in tv come il poliziotto buono e quello cattivo, Starsky e Hutch, la mano che può essere ferro e può essere piuma, Batman e Robin, George e Mildred. Probabilmente è una figura retorica applicata alla personalità il cui nome, in questo momento, mi sfugge.

Arianna dice cose come “lo sai che poi io vado dritto al punto e ti dico le cose come stanno” raccontando all’amica al telefono di una situazione che si sta verificando con Valerio, il suo datore di lavoro, come se in quel momento ci fosse un apripista nella relazione che si incammina prima del fuoriclasse della discesa libera, uno scagnozzo che se non fai come dice lui poi ti manda il vero boss della malavita. Il problema è che Valerio, approfittando di un giorno in cui Arianna era in cantiere, ha convocato una riunione plenaria con tutti i progettisti per comunicare che Arianna aveva fatto causa a tutti loro, come se rivendicare i propri diritti contrattuali con una società comportasse, di conseguenza, un’azione mirata a danneggiare l’insieme dei dipendenti. Se la società deve sborsare tutti questi soldi, ha detto Valerio, è chiaro che i primi a rimetterci sarete voi che lavorate qui, quindi considerate Arianna il vero nemico. Roba da matti.

Come se non bastasse, l’aggravante che ha ulteriormente causato attriti con lo studio in cui lavora è che Arianna un giorno praticamente si è svegliata di colpo anglofona. Una mattina ha iniziato a parlare solo inglese fluentemente e mothertongue e a pensare, pure, inglese, tanto che è stata costretta a sottoporsi a una terapia di recupero con tanto di logopedisti e psichiatri. Le avevo detto, ovviamente in inglese anche se il mio è piuttosto bizzarro o, come dicono loro, weird, che secondo me essere anglofoni madrelingua è un vantaggio perché riesci a capire all’istante tutti i testi di tutte le canzoni che ti piacciono. Te lo immagini ascoltare i Radiohead o qualcun’altra delle band più in voga tra chi ama deprimersi con la musica comprendendone addirittura le parole? Magari poi scopri che vanno in direzione opposta rispetto alle sensazioni che ti dava cantarle facendo i versi che simulano la lingua inglese, come Celentano ai tempi del rock. Il guaio è che per ristrutturare complessi residenziali e avere a che fare con le imprese, i geometri, i muratori e gli idraulici è sempre meglio l’italiano. In cantiere sapere l’inglese non serve a nulla.

dall'altra parte della manica

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Ogni giorno, nel mondo, almeno un critico musicale si sveglia e usa l’espressione “perfida albione” nella recensione di un disco di un gruppo britannico. Ci avete mai fatto caso? Ciascuno di noi quindi dovrebbe fare i conti con la propria esperienza con i cittadini inglesi prima di esprimere un giudizio così generalizzato. E se posso contribuire all’argomento, anche io nel mio piccolo ho avuto più volte a che fare con gli inglesi.

Credo che il primo che ho conosciuto sia stato l’amico dell’Ale che era il cugino di qualcuno ma non ricordo bene, e non è secondario aggiungere che l’Ale era la mia ragazza e l’inglese uno che voleva farsela. Avevo già qualche sospetto considerando tutte le attenzioni che le dedicava con la scusa di fare conversazione madrelingua fino a quando l’ha invitata a cena a casa sua, appuntamento però al quale si è presentata insieme a me che invece sfoggiavo una proficiency da seconda superiore. La serata mi è servita però per sciogliere alcuni dubbi su un paio di testi che non avevo mai capito, a partire da “The one I love” dei REM, anche se mentre conversavo su questi temi con l’ubriacone padrone di casa mi sentivo come quella volta che per rimorchiare una tedesca le avevo chiesto che cosa volesse dire Einstürzende Neubauten mentre i miei amici si vergognavano dell’approccio poco proficuo.

Sull’inglese successivo di questo excursus sulle rive del Tamigi c’è ben poco da dire. Ero seduto in un fish and chips di Londra al bancone che dava sulla vetrina quando una specie di hooligan aveva spiaccicato la sua faccia da pieno di birra dopo una corsa contro il vetro proprio davanti a me come quei piccioni che non vedono le finestre, solo che l’intenzione di questo giovinastro sembrava meno amichevole.

Come non ricordare anche Ian, il collega della multinazionale che dalla sede di Londra era stato mandato a Milano per farmi da trainer su un nuovo applicativo per l’analisi e l’estrazione dei contatti presenti nel database aziendale. Il progetto era frutto di una manager neozelandese (quindi non vale ai termini di questa statistica) che, quando l’avevo conosciuta, si era presentata con una scollatura vertiginosa e aveva passato il tempo a coprirsi quello che traboccava dal petto, ed era chiaro a tutti che il sistema sviluppato sarebbe stato superato di lì a breve dai big data. Ian mi spiegava il funzionamento e ogni volta che la query impostata nell’applicativo andava in porto a seguito di esempi elementari con parametri che nessuno avrebbe mai utilizzato in realtà gli vedevo nel volto la stessa espressione di chi ha scampato un pericolo. Se avete a che fare con l’informatica sapete a cosa mi riferisco. Ian ha trascorso tutte le pause pranzo di quei tre giorni di formazione da solo nella nostra sala riunioni, mangiando un sandwich con il sito dell’Arsenal aperto sul suo portatile.

Ci sarebbe infine Dylan, l’insegnante di inglese pagato dalla mia agenzia per migliorare la nostra conoscenza linguistica, ma fidatevi di me: ci sarebbe troppo da raccontare e, davvero, a certe cose non ci credereste neppure.

con parole tue

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Conoscere le lingue straniere è un passaporto universale per opportunità professionali e personali senza confronti. Conoscere l’inglese soprattutto. Malgrado nuovi mercati impongano altre competenze linguistiche, essere fluent è tutt’ora uno degli skill più richiesti. Ma, consentitemi, sentirlo parlare dagli italiani è snervante. Non tanto per il livello, c’è gente che lo sa davvero bene. Non tanto per le cadenze dialettali, l’inglese con accento romanesco è un classico dell’umorismo aziendale. C’è ben altro.

Intanto novanta volte su cento l’italiano in Italia parla in inglese al telefono, e quando parla in inglese al telefono sbraita più del normale. Probabilmente alzare il tono della voce è un modo istintivo di occultare la propria insicurezza e il conseguente nervosismo, non so eh, oppure vige la reazione inconscia che aveva mia nonna: più è lontano l’interlocutore, più forte occorre parlare nella cornetta. Nelle vie, nei luoghi pubblici, negli uffici, le conference call con l’estero coprono di gran lunga ogni altro rumore.

Il secondo aspetto fastidioso è la tensione con cui escono inscatolate le parole. Il novanta per cento del novanta per cento di cui sopra (sono tutte stime a cazzo, sia chiaro) parla con qualcuno più importante di lui, da un punto di vista dell’organigramma aziendale, raramente da qui comandiamo altrove. Le conversazioni sono spesso zeppe di giustificazioni, di perifrasi tipicamente locali rese in inglese con l’obiettivo di ridurre un danno, minimizzare un calo del profitto, dare la colpa a qualcuno o qualcosa. Il tutto accompagnato da risolini isterici e inutili tentativi di ingraziarsi l’interlocutore con battute e luoghi comuni sul tempo, ancestrali rivalità calcistiche e conoscenza dei costumi altrui da settimana enigmistica, senza offesa per la settimana enigmistica. La tensione non si ammorbidisce, all’esterno hanno capito l’antifona e ci considerano giustamente per quello che siamo.

E poi c’è la questione della latenza. A casa dei miei genitori ci sono costantemente due televisori accesi. Quello di mia mamma, ovviamente in cucina, collegato all’antenna. Quello in sala, governato da mio papà, con tanto di Sky. Talvolta i due apparecchi sono sintonizzati sullo stesso canale, ma il segnale arriva a destinazione in tempi diversi. Posso immaginare quale sia il motivo di questa asincronicità ma non ho sufficienti competenze tecniche per spiegarla. Ecco, assistere a un dialogo in cui è coinvolto un italiano costretto a parlare in inglese ci sottopone a un analogo fenomeno di latenza tra pensiero, mimica facciale e parola. Ma in quel “nero” di comunicazione che è variabile a seconda di tantissimi fattori i più scaltri rendono quello che vorrebbero dire in qualcosa di più conveniente. In genere si riduce il proprio messaggio alle parole conosciute, si sfrondano concetti, si adattano aggettivi, si capovolgono costruzioni a seconda del proprio vocabolario, si adatta il lessico alle linee guida imposte dall’alto. Il che disorienta il pubblico volontario o no, è come vedere uno che fa sì con la testa dicendo di no, che mi risulta essere l’esercizio di indipendenza del corpo più difficile. Provateci.