memento

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Qui, in questo feudo elettronico delle pillole di narrativa approssimativa, della sintassi claudicante e degli impeti di comunicazione tardo-giovanilistica, si ha una percezione della poesia quanto un mistero tanto arcano quanto la neurochirurgia o la contabilità. Troppo complessa per le menti semplici e i temperamenti prosaici usi alla lettura del periodo come espressione matematica estesa, precedente lo svolgimento per intenderci, copiosa di simboli e caratteri, la cui riduzione ai minimi termini fino al risultato finale costituisce una vera e propria variabile e incognita, la sintesi che l’abitudine a dilungarsi ha reso fuori portata. E dire che negli slanci ormonali mossi dai primi bollori c’era chi si cimentava in letture ardite di liriche con rima e non, metriche attraverso cui cadenzare e fratturare nel verso successivo sospiri di sentimento e palpiti annessi. Senza contare il maledettismo romantico che perseguitava quale condanna chi non si limitava ad affrontare le intemperie nelle mattine d’inverno con la camicia aperta sul petto implume ma cercava nelle dimensioni demiurgiche la materia più adatta a colmare i rari vuoi lasciati dal proprio io. Insomma, che due coglioni. Ma andava per la maggiore Iginio Ugo Tarchetti, l’eroe scapigliato, il dark ante litteram, che, un secolo e mezzo prima di Robert Smith, si spingeva oltre l’inutile involucro colloidale del genere umano e il suo animo, ma così oltre che ne percepiva persino l’unica e sola componente davvero imperitura. Altro che Halloween.

Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla non posso obliare
che un bianco teschio vi è sotto nascosto.

Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obliar non poss’io, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascosto.

E nell’orrenda visione assorto,
dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,
sento sporger le fredde ossa di un morto.