A Venezia l’arredamento di certi locali pubblici come bar o ristoranti è fatto tutto dello stesso materiale, un legno scuro che non saprei dirvi cos’è, e le discussioni si fanno sempre con persone sedute alla tua destra e invece questo è più comprensibile. Tra le formule di interazione verbale con il prossimo di certo la paternale è quella che probabilmente ha le radici più antiche e nasce proprio come espediente rivolto a chi, per questioni anagrafiche, potrebbe essere il figlio dell’altro, lo dice la parola stessa. Il problema è che i vecchi ormai hanno così tanti inverni sul groppone che potrebbero essere padri di chiunque, quindi per esperienza vi dirò che dovreste andarci piano in entrambe le fazioni, quella dei ventisettenni che non hanno avuto ancora un cazzo dalla vita a causa dello stallo economico e quella dei cinquantenni che non hanno avuto altrettanto se non un’esistenza resa precaria da una stramba mitologia pop che ne ha condizionato la prima parte della vita.
Non solo. I genitori veri dei ventisettenni, coetanei dei genitori cinquantenni fittizi e usi all’arma retorica della paternale, coltivano cannabis in casa e si prestano a trasparenti pratiche comunitarie di consumo entro le mura domestiche malgrado, in taluni casi, professino una disciplina post-fascista i cui strascichi culturali lambiscono persino i principi educativi base dei propri rampolli, che invece giocano alla gioia e rivoluzione, si fanno le canne con il proprio padre destrorso e, nelle discussioni, non si capisce granché delle loro posizioni.
Ma forse è un problema mio, se già come Di Maio – a proposito – non capisco le e-mail altrui e scrivo contributi criptici talvolta con costruzioni sintattiche che si riferiscono alla lingua latina che ormai ho studiato all’alba dei tempi, quella che appunto mi ha illuso che un giorno la mia generazione avrebbe avuto accesso di diritto alla classe dirigente senza limiti di appartenenza, come ci era stato insegnato, e non solo per aver militato in certe federazioni giovanili o nei sindacati o per mero nepotismo.
Questo, unito all’amara considerazione che ho le stesse potenzialità dialettiche di mio padre, mi porta a sfogarmi con i più piccoli, laddove basta alzare la voce e, almeno, far accettare le cose come devono essere, e vengo al punto. Se non si trattasse di un sogno saprei descrivere e rendere riconoscibile meglio il bambino che, seduto al mio stesso tavolino in legno scuro dell’osteria di cui sopra, non ne vuole sapere di darmi ragione fino a quando, dopo più volte in cui gli chiedo di avere l’ultima parola, mi porto a pochi centimetri dalla sua faccia e gli sbraito di stare zitto il che non mi fa onore, se davvero nella prossima vita voglio fare il maestro elementare.
Gli urlo sul volto di piantarla e lo prendo pure per la camicia bianca che indossa all’altezza dello sterno e, nel farlo, mi accorgo di graffiarlo con le unghie provocandogli una ferita che inizia a sanguinare. Lui mi guarda finalmente spaventato e gli trema subito il mento proprio mentre io mi rendo conto del danno. Ci saranno i genitori, lì in giro. Ci sarà un padre grande e grosso a cui dare spiegazioni, dei carabinieri che mi porteranno via per accertamenti dal momento che, di questi tempi, con i bambini anche con uno scappellotto rischi la galera.
Arriva però di corsa (e per fortuna) la madre che sono certo di conoscere, somiglia tantissimo alla mamma di una ragazza che gioca a pallavolo con mia figlia, che è talmente scossa da quello che ho fatto che, senza proferire parola, veste in tutta fretta il bambino che continua a piangere, per portarlo via ma dalla sua espressione si capisce benissimo che la cosa non finirà lì. Non contento infierisco anche su di lei, criticando l’educazione che ha impartito al figlio. In risposta annuisce come a dire che va bene, ne riparleremo in una sede più appropriata. Peraltro scopro che il bambino ha una sorellina che è la stessa che, nel locale di ingresso del ristorante, sta ballando goffamente indossando un vecchio costume da bagno di mia figlia e così capisco che la signora è amica di mia moglie, che invece è così altruista da regalare i capi smessi di famiglia. La donna, evidentemente offesa ma con dignità, si precipita a rivestirla per restituirmi il bikini.
Un bel casino. Così crollo sconfitto al mio posto nell’angolo del tavolo, da dove prima mi sentivo così forte delle mie argomentazioni, ma capisco che non si fa così. Non è che si ha ragione solo perché si è adulti, anzi si è quasi vecchi, e il resto del mondo ci deve considerare autorevoli sulla fiducia.
Ma poi uno degli anziani che occupano un tavolo più avanti capisce il mio stato d’animo e mi esorta a estrarre un numero da una scatola di latta, sta giocando a tombola in compagnia e sostiene che il numero sei non esce da tantissimo tempo e poi, con tutto quello che mi è successo, potrei essere fortunato. Prima di cena, a causa delle mani rese insensibili dal gelo, non riuscivo a prendere una caramella sola da una confezione nelle mani di chi me la stava offrendo e la stessa cosa accade lì. Estraggo quattro numeri, tanto sono minuti, e uno di quelli è proprio il sei e peccato che non mi ricordi gli altri, altrimenti sarebbe una bella quaterna sulla ruota di Venezia, senza contare che i numeri altro non sono che dei piccoli Gran Turchese con su stampata una cifra.
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