Alla fiera di Sinigaglia c’è una bancarella che vende pezzi di ricambio per biciclette, niente in confronto ai veri mercatini per le due ruote come si vedono in certe cittadine dei Paesi Bassi ma, tutto sommato, potrebbe andare peggio. Sabato scorso, attirato da un incessante suono di campanello, ho notato un giovane vestito da alternativo che provava diversi modelli sotto gli occhi estasiati della fidanzata e le orecchie atterrite dei passanti. Al terzo o quarto campanello passato in rassegna il venditore, visibilmente desideroso di terminare al più presto quella stramba esibizione, ha fatto notare al giovane alternativo che un campanello è un campanello. Una volta prese le misure del diametro della morsa da assicurare al manubrio il gioco è fatto. Al massimo subentra la disposizione all’investimento e alla sua entità, uno scarto tutto sommato irrisorio tra i vari tipi considerando l’articolo, perché dal punto di vista della resa, assicurava il venditore, l’uno vale l’altro. Montato sulla bici, il risultato ottenuto è equivalente se il ciclista è attento e pronto ad avvisare in tempo del passaggio o, nel peggiore dei casi, di un pericolo imminente legato al proprio transito. Il giovane alternativo, compiaciuto tanto quanto la sua groupie, ha precisato che a lui il campanello mica serve per la bicicletta. Faccio parte di una band, ha dichiarato al venditore, e il campanello mi occorre per suonare dal vivo. Avete capito bene. Il giovane alternativo si posiziona sul palco dietro a un set di strumenti autoprodotti, ci immaginiamo coperchi, scatole e anche campanelli da biciclette, e poi contribuisce alla riuscita artistica del suo gruppo dando il suo apporto con questo insieme di elementi impropriamente riconducibili alla musica. Il giovane alternativo ha così portato a compimento la sua scelta oculata, probabilmente tenendo conto di materiale, intonazione, maneggevolezza, latenza del suono al tocco, delay e release della nota, timbro, altezza e intensità, potenza e rotondità, resistenza del manufatto, anche valore estetico perché no, quindi ha pagato il venditore della bancarella per ciclisti e ha completato il suo equipaggiamento con quel particolare campanello da bici, acquistato alla fiera di Sinigaglia (magari anche caro, considerando il luogo per turisti dello shopping) e fatto risuonare lungo il percorso come un sound check ambulante proprio dietro di me e ripetutamente, proprio mentre pensavo al mio sogno, e cioè che sarebbe bello per il proprietario di una bancarella che vende articoli per biciclette avere sufficiente dignità commerciale per negare la vendita di oggetti come un campanello per usi impropri a giovani musicisti alternativi.
hipster
la solitudine di radersi alle sei e un quarto del mattino con l’acqua fredda in novembre
StandardC’ho dato un taglio. Basta con l’hipsteria collettiva che a chi è tenuto a dare un esempio genitoriale non fa certo fare una bella figura. Quando il valore della scala di grigio si attesta per più del cinquanta per cento verso il bianco è bene ripristinare l’antica virile usanza di farsela, la barba, che è un’attività altrettanto pallosa delle varie cerette e epilady passati su arti e varie cavità corporee femminili. Non entro nemmeno nel merito della depilazione maschile, tanto la disprezzo, anche nei casi di chi la pratica con la scusa che fa sport e vuole evitare le infezioni, ma andate a raccontarla a qualcun altro.
Farsi la barba è una bella rottura aggiuntiva di maroni per chi usa ancora schiuma e lamette come me. L’unica volta in cui ho provato un rasoio elettrico mi è venuta la faccia a bolle e ho detto basta. Tra l’altro si trattava di un regalo di Natale che ho riciclato di lì a poco. Il rischio dell’ostinarsi con il luddismo in contrasto con la ricerca tecnologica del settore è che operare in contesto umido e bagnato non consente un’esperienza di rasatura piacevole nei mesi invernali tenendo conto che si tratta di un’attività da svolgersi la mattina presto, quando tutto sembra freddo persino l’acqua calda, figuriamoci il metallo delle lame e il gel schiuma che vive nella latta.
Trovarsi con quella roba bianca in faccia alla luce artificiale perché fuori è buio pesto, dovendo pure stare attenti a non fare casino per non svegliare il resto della famiglia e i vicini, comporta una violenza inaudita contro il proprio equilibrio già provato dallo stato di risveglio. Senza contare il rischio di tagliuzzarsi le parti più vulnerabili della pelle e fare la figura di chi non è in grado di adempiere a uno dei principali doveri della cura di sé. Facendosi la barba ci si sente spesso soli in un classico momento-uomo di cui ogni uomo vorrebbe potersi liberare. Le sei e un quarto del mattino, poi, sono state fatte per essere consumate sotto le coltri, nell’aria viziata da quasi otto ore di sonno, con i peli sul mento, collo e guance, liberi di svilupparsi in tutta la loro ostica durezza.
nelle vesti
StandardQuello che gli piaceva di più era il suo stile, quel modo di vestirsi così alternativo agli stili alternativi che non potevi nemmeno avvicinarlo a una categoria. Tenete conto che i negozi di abbigliamento dell’usato erano appena stati inventati ed erano frequentati da chi davvero non aveva soldi da spendere e da chi aveva gusti molto molto particolari. Ma bisognava anche potersi permettere di indossarli, per dire una volta lui, il suo amico Frank e la sua fidanzata avevano rischiato il linciaggio per come si erano conciati, certa gente l’ironia proprio non sa nemmeno da che parte si apre, figuriamoci se sull’etichetta non c’è indicata la marca. Comunque lo stile era originalissimo. Per fare un esempio: cappello a caciotta, giacca plasticosissima con sciarpa piumata, pantaloni da uomo anni 40 e scarpa anti-infortunistica. E il tutto le stava divinamente. Adorava quel look e portarsene appresso un campione mobile lo faceva anche sentire fortunato perché molti gli dicevano che era fortunato e lui ci credeva, davvero. La tua tipa è originalissima, si complimentavano. Trovi?, rispondeva con una domanda, facendo finta di niente. Capitava che dovessero recarsi in città insieme, per esempio, e lui era contento perché laggiù poteva sfoggiare quel soggetto all’avanguardia che portava a braccetto, e che risultava innovativo anche lì. Poi un giorno lei doveva andare in città da sola per restituire i libri a quel suo amico che tutti chiamavano con il soprannome, e un motivo ci sarà chissà, ma aveva pensato di farle una sorpresa e per caso l’ha intravista in coda alla biglietteria in stazione. Era piuttosto difficile riconoscerla. La giacca alla moda, la gonna da boutique corta sopra il ginocchio, collant velati e i tacchi, non altissimi ma comunque più delle pedule gialle che le aveva visto la sera prima sotto la salopette da operaio. Sembrava un’altra, un look talmente ordinario da essere persino provocante, ma quella era una parola bandita dal comune vocabolario. Ha pensato bene che la sorpresa fosse fuori luogo, probabilmente vestita in modo così strano per i suoi standard avrebbe potuto sentirsi in imbarazzo, così l’ha lasciata lì senza farsi vedere, certo che non le avrebbe mai chiesto nulla.
un moderno post-weekend
StandardSe c’è un episodio che mi piacerebbe vedere reso su pellicola, o per essere più realistici su youtube, anche perché nel primo caso sarebbe difficile trovare attori credibili per renderlo credibile a sua volta, è un qualsiasi viaggio di ritorno a Milano di T. e dei suoi fedelissimi compagni di abitacolo, nonché colleghi, B. e A. A bordo della Punto del babbo di B. fanno tutta una tirata da Questo Posto (così chiamerò, per motivi di rispetto della privacy, la cittadina ligure da cui provengono i tre giovani) a Quest’altro Posto (così chiamerò, per motivi di rispetto della privacy, la cittadina alla periferia est di Milano dove condividono un miniappartamento. Spero abbiate colto la citazione, sebbene annacquata tra gli incisi nelle parentesi tonde. Vi darò un indizio: continua con “non è la stessa cosa, gli americani ci fregano con la lingua, non è la stessa cosa. Un, du, tri, quater…” a cui segue una canzone blues). Ma torniamo al viaggio, 200 chilometri di autostrada tra Liguria, Piemonte e Lombardia nella formula pendolarismo quindicinale e non di più, per non gravare sul bilancio di questo nucleo familiare anomalo e mettere in difficoltà tre amici (due maschi, T. e B. e una femmina, A.) che come me e come mettetevoilacifra altri ex-giovani liguri si sono trasferiti qui. Il forte legame con le radici che non si spezza, nemmeno a colpi di Navigli. Parlo per loro, of course. Non tornerei indietro nemmeno sotto tortura.
Ecco: più che un film potrebbe essere un format televisivo, se già non esistesse. T. è un ex-promettente cantante, promettente sempre nell’ambito dei gruppi sconosciuti dell’underground locale, dove la promessa non è mai mantenuta, se non da qualche add in più su myspace, oggi (anzi, fino a qualche mese fa, visto l’inarrestabile caduta del principale concorrente di FB), e da qualche distratto applauso nelle birrerie di periferia, ai tempi. T. però si è mantenuto interlocutore fantastico, nel senso che lui parla mentre A. e B. per lo più ascoltano, poi mi riferiscono e io prendo appunti. Poche domande, qualche espediente da programmazione neurolinguistica da tanto-al-tocc per dirottare la conversazione su temi che sanno stare a cuore di T., e una valanga di spunti che consentirebbero a chiunque di approfondire i più appassionanti argomenti antropologici in monologhi pour parler come questo.
T. è un maestro di storytelling. Sa quali tasti schiacciare, quale corde pizzicare. Ed è “solo” un vocalist, pensate se suonasse uno strumento polifonico. L’azienda in cui nostri tre frequent driver lavorano – T. come montatore video, A. e B. come… boh.. grafici? Web designer? – risente di una pessima gestione, così mi dicono. Ma, si sa, chi lavora talvolta coglie solo marginalmente le strategie aziendali del management. “Non dire str*****e, chiunque coglierebbe la limitatezza di C.” C. è l’amministratore unico che, in una azienda di marketing, si occupa anche di filtrare tutto ciò che deve uscire verso i clienti adattandolo a sua immagine e somiglianza. Il che ha senso. Voglio dire, l’azienda è tua, puoi farci quel che vuoi. “Sì, ma hai idea di quanto tempo perdiamo? E perché diamine mi hai assunto se non ti fidi di me e pensi che delegandomi responsabilità creative il prodotto non sia sufficientemente in linea con l’azienda“. Vabbè, non voglio approfondire temi e dinamiche già trattate altrove, soprattutto giudicare aziende altrui. Ma non è solo questo che li mette fortemente a disagio.
Sono le persone a dare un tono inappropriato all’ambiente. T. mi fa l’esempio di S., lavora nella selezione e gestione del personale. “Ho superato un test per entrare qui. Lì ho conosciuto S., proprio con lei ho fatto il primo colloquio“. T. mi racconta che S. si sposta sfrecciando in monopattino lungo il corridoio su cui si affacciano le varie cellette. “Non la biasimo, il lato lungo dell’ufficio è almeno 500 metri“. Non si tratta di un’esagerazione, nella Lambrate che sta crescendo sormontata dalle gru. Siamo in piena archeologia industriale, stabili nuovi che si alternano a spazi ristrutturati in ex stabilimenti di chissà che cosa. Uffici ricavati dalla polverizzazione degli open space in minuscole celle operative occupate da 4 massimo 5 postazioni di lavoro.
“Dicevo del test.
Q. Elenca le 5 cose che sai fare meglio.
A. Mi sono sincerato della effettiva atmosfera da web 2.0 e mi sono lasciato andare:
#scrivere
#comporre e arrangiare musica
#avere pazienza
#ascoltare
#superare i test come questo.
Q. Con quale nome ti vorresti chiamare se non ti chiamassi con il tuo vero nome?
A. S. ,che ho scritto per accattivarmi le simpatie della selezionatrice.
Q. In 10 righe insegnami ad allacciare le scarpe, non una riga di più“.
A quel punto T. prende l’iphone e mi fa vedere una foto. Un foglio con la seguente lista:
Faccio notare a T. che mi sembra un modo originale di affrontare i test. Soprattutto visto che è stato assunto, anche se con contratto a progetto. “Dopo qualche settimana mi hanno chiamato e sono salito a quota 6 aziende in 10 anni. Ancora una volta con un co.co., un contratto comico“. Ancora una volta accontentarsi. “Fortuna che il posto è davvero trendy. Entri e c’è la reception. Poi un muro fatto di cubi di cartone, la rappresentazione delle success story aziendali“. Penso che non c’è altro modo per materializzare i prodotti virtuali se non mettendoli in scatole che, pur vuote, solo così diventano tangibili e riconoscibili in un packaging con tanto di etichetta. Stavo per scrivere brandizzate ma mi sono fermato in tempo. Ops. “Lì di fronte c’è uno schermo LCD, che trasmette una successione di quote a sintetizzare la vision aziendale. Cheppalle, ho pensato appena l’ho visto, alla fine ci cascano tutti, anche i meno convenzionali. E giù pillole di Martin Luther King alternate a Goethe e Groucho Marx, Gandhi a Thomas Millian, Kennedy a Naomi Klein, Terzani al Cluetrain Manifesto“. Anche qui, mi viene da pensare. il cluetrain già arrivato in ritardo è bello che perso.
T. non lesina nei particolari sull’organizzazione degli spazi. “Entri nell’open space frazionato in cellette, ognuna costituisce una Practice. C’è la Practice Visual, la Practice R&D, la Practice ADV, la Practice ADM, la Practice PM, la Practice VM. Ecco, lì nella Practice vuemm, Video&Multimedia, ci sono io. Taglio e monto riprese, alternandole a grafica 2D e 3D“. T. si isola ascoltando musica, quando non è necessario indossare le cuffie per l’audio del montaggio. “Alla fine di ogni pezzo è come se mi svegliassi e penso: di nuovo all’inferno“. Il guaio di essere, come T., molto nuvoloso tendente al peggioramento, dentro.
“Usiamo la chat, per comunicare tra colleghi. Magari distanti qualche minuto di monopattino. Messaggistica istantanea, non mi avrai mai. Quando uno ti scrive ‘che cosa??’, ‘che cosa volevi che ti dicessi??’, e altre domande che passano alla storia per il doppio punto interrogativo, fa domande incalzanti? Anzi, incalzanti?? Per non parlare allora dell’alzare la voce con l’uso delle MAIUSCOLE, reale o frainteso perché magari hai lasciato premuto un tasto di troppo“. Ecco, inevitabilmente T. svela a B. e A., a fine giornata, cosa lo spinga a chiudersi in playlist a tinte scure e uscire dall’ufficio per tornare a casa. “Sfido chiunque a riconoscermi. Non è tanto la nebbia, è perdersi, anzi perdermi, in una città che non è più la mia, mentre fuori di qui, cioè di me, tutto precipita. Occhi chiusi, orecchie coperte da cuffie, passi a caso“. In auto, coperti dal rumore del motore, si cerca di sdrammatizzare, allora. “Via da questo trailer tra l’hollywoodiano e Moccia. Torniamo a un sano minimalismo, please“. Troppo tardi. Il film va avanti.
Tra di loro hanno passato giornate intere in chat, ed è come se lsi ritrovassero sempre dentro ai loro mac, a riascoltarsi e a rileggersi, per poi riparlarne durante i viaggi. “Tra noi basta una sola parola, al massimo due, che descrivono tutto il resto. E allora occorre comprendere l’intenzione, il significante, il significato, il tempo impiegato da ogni verbo per giungere a destinazione. A quel punto i giochi sono fatti“. Stare soli in tre è meglio che stare soli punto. “Parlare, in auto, è un’oasi di ristoro e leggersi, in chat, leggere qualsiasi cosa, è scoprire altre forme di vita su un pianeta sconosciuto. Ma i pericoli, in giornate come questa, ritornano. Minacciosi no, solo un po’ cattivelli. Pronti a far rovesciare la birra sui pantaloni altrui. O a farci inciampare sulle scale della Feltrinelli“.
Tutto questo perché A. presto cambierà lavoro, una deflagrazione nelle loro dinamiche. “Che dire? Così, tra suoni ovattati e pavè nell’ora di punta, la malinconica beatitudine di una Menabrea è un sottoinsieme dell’averla vista uscire alla fine del primo tempo della nostra vita. Spero che la sua soddisfazione assuma le sembianze di un accordo. Minore, naturalmente“.
il lavoro rende liberi di aspettare
StandardSotto l’ufficio di S., al piano terra, c’è una di quelle agenzie duepuntozero molto gheddaun e hipster, peraltro in attività da una decina d’anni, questo a prova che l’essere gheddaun e hipster nel mondo della creatività e della comunicazione digitale è comunque un sistema di sopravvivenza. E molto probabilmente non si tratta di gheddaunness e hipstership (dio mio, ma come sto scrivendo?) omologate, ma di una vera e propria alternativa al mood alternativo. Sapete, comunque, di cosa S. sta parlando. Open space, distesa di mele con il computer intorno, cataste di Wired in abbonamento all’ingresso e via dicendo. Caratteristiche estetiche che, spesso, nella sostanza distraggono il prospect dall’alto turn over e dai contratti stilati con inchiostro simpatico a gggiovani collaboratori e stagisti, con lauree brevissime in tutto quanto fa comunicazione.
L’organigramma, sono parole di S., è una cascata di geek e indie e indie/geek con qualche rara voce fuori dal coro: il rasta che non fa pausa sigaretta perché fa pausa canna, il nerd programmatore che appena può si sistema in Accenture e via dicendo. In questo scenario, S. mi racconta di una ragazza di cui non conosce il nome – chiamiamola E. – con cui si incrocia ogni mattina nell’androne. E., da qualche mese, è in forza all’agenzia gheddaun e hipster. S. entra infreddolito (siamo in inverno) e chiama l’ascensore, la cui porta si trova a fianco dell’ingresso dell’agenzia gheddaun e hipster. Canticchia, fischietta o, è lui a confessarmelo, a volte borbotta da solo (questo è il risultato di 15 anni di esperienza nel campo dei new media, trecentosessantacinque giorni l’anno a confrontarsi solo e unicamente con intelligenze artificiali. Parlare da soli è una delle più comuni conseguenze: è profondamente ingiusto biasimare i creativi).
Poi avverte la presenza e si gira. Sdraiata sul muretto, sotto la finestrona che dà sul cortile, c’è lei: E. Un concentrato di tutto quello a cui puoi associare il concetto di agenzie geddaun, ovvero (dall’alto verso il basso): taglio a caschetto con ciuffone tendente all’emo, auricolari conficcati nelle orecchie tra lobi ricolmi di anellini i cui cavi portano a i-phone di ordinanza tra pollici in continuo fermento (skippare brani dalla playlist, rispondere a messaggi e commentare commenti degli amici su FB) e che talvolta lascia il posto a un libro, giacca blu scuro con spillette di gruppi inesistenti, foulard, pantalone stretto sulle caviglie e all-star pelose e nere. Età: tra i venti e trenta.
Cosa ci fa la nostra indie-girl alle otto e quarantacinque del mattino, in un portone della city? Aspetta che l’agenzia gheddaun e hipster apra i battenti, non prima delle nove se non nove e trenta. Si, avete letto bene. I soci dell’agenzia, probabilmente gli unici ad avere a disposizione le chiavi e il codice dell’allarme, entrano con la dovuta calma. Magari stanno facendo colazione al bar delle modelle, all’angolo, e se ne fottono. La nostra E., proveniendo da chissà dove con chissà quale treno a chissà quale ora in chissà quale stazione, non ha scampo: quella è l’unica ora utile a cui arrivare per non rischiare il ritardo. E, in modo intelligente, anziché guardare nel vuoto, consumare il proprio rimborso spese nei bar del centro o respirare smog fresco di giornata passeggiando in circonvallazione, ha fatto dell’androne il suo riparo temporaneo prima di immolarsi al marketing digitale.
Il pippotto di S., spropositamente lungo, lascia trapelare un po’ di tenerezza verso quella giovane adulta costretta a prolungare la propria adolescenza oltre i livelli di guardia a causa della peggiore situazione economica del dopoguerra, che ha lasciato l’imprenditoria in mano a una generazione di fanfaroni. Perché S. è certo che tra qualche mese, quando ineluttabile sorgerà il sole sul giorno della scadenza del suo contratto farlocco firmato da ambe le parti con l’inchiostro simpatico di cui sopra, E. tornerà nel suo cyberspazio fatto di newsletter di offerte di lavoro, lavorifighipuntocom e così via. A nulla sarà valso quel sacrificio, il dedicare quotidianamente ore della sua vita in quell’anticamera della produttività senza un mazzo di chiavi utile ad anticipare la sua giornata lavorativa, di conseguenza la fine della stessa, di conseguenza il ritorno a casa, di conseguenza a vivere la sua vita privata decorosamente.
Ho suggerito a S. così di costituire un club di solidarietà, tutti i creativi e i web designer e i flash developer e gli art director e gli online strategist e i video producer e i social media content manager uniti, se occorre mi rendo disponibile in prima persona per un dj set visto che i copy sono più che ridondanti, alle otto e quaranticinque con tè caldo e biscotti nell’androne di quel palazzo anni cinquanta, ad aspettare i soci proprietari dell’agenzia hipster-gheddaun. Una sorta di flash mob contro chi, dei flash mob, si riempe la bocca e i powerpoint e cerca di venderli alle multinazionali. E dàtele un mazzo di chiavi, che diamine. Barboni.