L’algoritmo con cui Netflix suggerisce cose in base ai gusti dedotti dallo storico dei programmi visti probabilmente impazzirà dal momento che ieri sera, dopo un mese delle serie più trendy e vari documentari sulla seconda guerra mondiale, ho premuto il tasto play per riprodurre Grease. Lo so che fa sorridere spendere dieci euro al mese per vedere un film come Grease che ho visto al cinema appena uscito con i miei compagni di classe e poi qualche altra centinaia di volte tra i miliardi di passaggi tv che ha avuto, forse devo averne pure una copia in vhs senza contare che sicuramente si troverà completo in streaming da qualche parte, se non sullo stesso Youtube. Posso addurre però due scusanti mica da poco: ero sul divano con mia figlia che non lo aveva mai visto e proprio il film Grease sarà oggetto di un adattamento per uno spettacolo teatrale, messo in scena da alcune sue amiche che frequentano i corsi dedicati ai rientri pomeridiani della loro scuola, per cui dovevo soddisfare la curiosità di una millennial.
Non vi nascondo che non mi abbia fatto piacere, e non solo per aver introdotto mia figlia a un pilastro del background culturale pop della mia generazione. Anzi, ricordando l’euforia con cui, dopo i titoli di coda, i miei amici ed io eravamo usciti dalla sala dell’Eldorado, che era un cinema bellissimo della mia città con il tetto a cupola che, tra il primo e il secondo tempo, si spalancava, ho provato persino un briciolo di malinconia per la semplicità con cui si affrontavano certe tematiche a undici anni in una città di provincia e ieri, nella scena clou in cui Sandy e Danny cantano e ballano “You’re the One That I Want”, ho avuto un serio impeto di commozione che, grazie all’oscurità della sera e all’attenzione di mia figlia verso la tv, sono riuscito a occultare egregiamente.
Questo moto ha indotto l’occhio navigato, cinico e disincantato dello spettatore cinquantenne che è in me a cercare tutti i particolari utili a gettare i sentimenti in caciara e, come al solito, uscire a testa alta da una tipica situazione in cui lo stato d’animo si trova agli antipodi del comportamento che pretendo da me stesso, permettendomi di ripensare al film sotto un nuovo punto di vista.
Intanto assistere nel 2017 un film del 1978 ambientato negli anni 50 causa un bel corto circuito filologico. Come reinterpreteremmo noi, così distanti dall’alba del rock’n’roll, gli usi e costumi del tempo? Chissà quanto correremmo il rischio di generalizzare e banalizzare un tema ora che è così distante e, soprattutto, ai tempi dell’Internet.
Notavo poi che protagonisti e comparse sembrano tutti quarantenni, per come erano conciati, mentre dovevano impersonare dei diciassettenni, questo perché oggi i diciassettenni li vediamo come dei bambinetti. Il fatto è che gli studenti protagonisti della Rydell High School sono interpretati da adulti, e non c’entra la presenza di pluri-ripetenti. Grease è del 78 e nel 78 John Travolta aveva 24 anni e Olivia Newton-John andava per i 30.
Non mi è potuto sfuggire poi quanto fumino tutti. A Danny, quando si dà allo sport per cercare di cambiare per Sandy, viene chiesto dall’insegnante di ginnastica di limitare il consumo a non più di due pacchetti al giorno. Sandy viene persino iniziata alle sigarette dalla Pink Ladies e in generale è un continuo inno al tabagismo. Sicuramente negli Stati Uniti e in quel periodo storico la sensibilità verso le malattie polmonari e cardiovascolari era diversa, ma oggi – a differenza degli anni 70 – un regista chiamato a dirigere un film di quel tipo troverebbe sicuramente un escamotage per non vedersi la pellicola boicottata dall’opinione pubblica. E, a proposito di Sandy con la sigaretta in bocca, certo che nella scena in cui va da Danny tutta vestita in pelle è messa giù da battaglia, non trovate?
Ancora a proposito di Danny alle prese con l’attività fisica, ho fatto notare a mia figlia che i giocatori della squadra di basket della scuola al completo – e poi anche quella di atletica – indossano le All Star. Oggi, ai tempi dell’attrezzatura super-tecnica rinforzata e molleggiata, pensare di fare anche solo una corsa con una suola di gomma piatta e così primitiva fa sorridere. Se la cosa sorprende anche voi, ma non credo, qui trovate la storia del celebre brand americano. Non solo. Oggi in cui il basket a stelle e strisce è uno sport in cui i bianchi sono rarissimi, è stato curioso seguire qualche azione senza i possenti giocatori afroamericani a cui siamo abituati che schiacciano come dei forsennati. D’altronde, negli anni 50 dubito che i neri potessero aspirare a un’istruzione come i coetanei bianchi, figuriamoci giocare in un campetto vero e proprio.
Non ricordavo, inoltre, che tra i film che i protagonisti vedono al drive-in viene mostrato anche il trailer della pellicola horror fantascientifica “Blob – Fluido mortale”, lo stesso che conosciamo perché utilizzato come sigla dell’omonimo programma di Raitre. E a proposito di citazioni cinematografiche, mi ha fatto piacere ritrovare Rizzo dopo che l’ultima volta in cui avevo visto l’attrice sul grande schermo aveva una vistosa benda da pirata in “Smoke”, che non di stancherò mai di dire che è il mio film preferito di tutti i tempi del mondo mondiale.
Tornando sulle minoranze, sono frequenti i cognomi italiani nel film, ci avevate fatto caso? Oltre alla già citata Betty Rizzo c’è Marty Maraschino, Cha Cha DiGregorio, Johnny Casino leader dei The Gamblers e nulla mi toglie dalla testa che lo stesso Danny Zuko sia vittima degli strascichi di una trascrizione approssimativa del cognome Zucco, subita da qualche suo avo italiano all’arrivo a Ellis Island.
Non avevo mai notato poi che l’officina in cui i Thunderbirds mettono a punto il “fulmine alla brillantina” si trova all’interno della Rydell High School. Se non ho letto male, i ragazzi, mentre ci lavorano, indossano una tuta con il nome della scuola e, verso la fine, vengono raggiunti da un annuncio all’interfono della preside. Ecco un nuovo spunto per apprezzare il sistema scolastico americano, oppure la Rydell High School dev’essere l’antesignano degli strampalati indirizzi che i licei italiani hanno oggi, per non parlare delle numerose occasioni per fare festa e l’opportunità di avere un luna park a disposizione degli studenti. Nella stessa scena dei meccanici al lavoro non si possono non notare, quindi, i calzini bianchi di John Travolta a spezzare scarpe e pantaloni neri, un particolare comunque piuttosto ricorrente nel film. Chissà se davvero negli anni 50 c’era così scarsa attenzione ai particolari del look.
Peccato poi che la meticolosità filologica con cui è stata preparata la colonna sonora sia parzialmente messa in discussione dalla presenza di alcuni brani che, con gli anni 50, c’entrano ben poco, e mi riferisco alla titletrack in stile disco-funky o al pezzo usato per la gara di ballo. E, a proposito di Vince Fontaine, il presentatore TV che fa il cascamorto con una delle studentesse, anche questa è una scena inammissibile in un film di questo tipo, se venisse prodotto nel 2017. La ragazza ammette poi anche di aver respinto un tentativo di Vince Fontaine di metterle “un’aspirina nella Coca Cola”. Ve lo immaginate ai nostri tempi, con tutta l’attenzione che c’è per la violenza sulle donne e sugli approcci sessuali degli adulti nei confronti delle ragazzine?
La grande domanda, infine, me la sono posta dopo la scena conclusiva: che ne è stato, poi, degli studenti neodiplomati della Rydell High School alla fine del film e delle coppie che, apparentemente felici, lasciano la giovinezza per affrontare insieme il futuro? Dovrò guardare il sequel, ma ho un po’ di paura a farlo.