Tenevi una delle tue sigarette alla menta accese con le dita come un direttore d’orchestra muove la sua bacchetta, richiamando al senso del ritmo un trombettista immaginario esecutore del tema strumentale di “Amore che vieni, amore che vai” e disegnandone involontariamente la melodia con il fumo nell’aria. Seduta con le spalle poggiate a una delle transenne che delimitano quel corridoio in cui fotografi e addetti alla sicurezza si muovono liberamente lungo il lato frontale del palco, oscillavi la testa a sottolineare quelle coppie di rime baciate che sono una delle virtù di quelle liriche, così delicate e piacevoli nella loro ingenua simmetria. Ma sapevamo entrambi che mancava poco prima che qualcuno ne annullasse l’effetto mettendo la vera musica di riscaldamento del concerto e che, con i suoi decibel e tutti i suoi bassi pompati di modernità, avrebbe coperto uno dei tanti impianti artigianali che diffondono le canzoni di De André per le strade di Genova e che fino a quel momento comunque ci aveva intrattenuto. Ma da queste parti devono essere tutti molto più sensibili della media, a partire dal tecnico del suono che invece ha volutamente lasciato terminare la canzone che sfuma in quel modo che conosciamo tutti prima di iniziare a fare il suo lavoro e sollecitare la voglia di ritmo con una selezione pensata ad hoc per quel pubblico dai gusti così facili da individuare. Hai spento la tua sigaretta alla menta contro la suola delle Birkenstock in tempo per alzarti a gettare le braccia al collo di qualcuno che ti stava raggiungendo lì e che non ho visto nemmeno in faccia, uno che ti ha chiesto un bacio e tu gliene hai dati altri cento.
genova
lasciaci tornare ai nostri temporali
StandardLa bellezza naturale non è niente senza le infrastrutture che consentono di accertarne il primato. Tunnel e svincoli nascosti che ci permettono di arrivare a visitare la bellezza naturale velocemente con i nostri mezzi inquinanti a loro modo, e a documentare a tutti che si, è vero, la bellezza naturale è proprio naturalmente bella e se non avessimo strade, ripetitori delle compagnie telefoniche, strutture ricettive in cui trovare ristoro, rimuginare sulla bellezza testé vista e trasmettere le nostre impressioni, la bellezza della bellezza naturale sarebbe comunque tale ma nessuno potrebbe appurarlo perché resterebbe sconosciuta.
Ma non è sempre così, sono pochissimi i posti in Italia – giusto per riportare il dibattito al nostro interno – sono così rari i posti in Italia in cui davvero puoi voltarti e non scorgere fino all’orizzonte un traliccio dell’energia elettrica, una linea asfaltata su cui corre un pick up che poi rivedi parcheggiato nei pressi di un orto recintato nel migliore dei casi con reti del letto. Le superstrade difficilmente vengono costruite direttamente interrate o anche con quei sistemi intelligenti con cui si progettano percorsi carrabili in solchi, e all’estero in cui invece sono tutte così non le noti ma ci sono, fanno la loro sporca figura, anzi no perché non si vedono, e in più non c’è nemmeno stato il bisogno di una dispendiosa operazione di talpe meccaniche. Giusto per metterla sull’analogia, ho saputo che per evitare matasse di tubi oggi l’oleodinamica preferisce utilizzare scatolotti con dentro canali bucati in cui passano i liquidi, non solo per ottimizzarne il flusso ma anche per questioni estetiche, oltre che ingegneristiche, scatolotti che si chiamano blocchi oleodinamici. Che poi è come, anziché tenere una statua in gesso, mostrare lo stampo se la statua in gesso esteticamente non vale granché.
Così sembra che l’unico ambito in cui non si badi alla bellezza è quello dove la bellezza è tutto, il che è paradossale. Pensate solo se in un posto come la Liguria autostrade e ferrovie passassero sottoterra, da ovest a est e viceversa. Il problema è che per quanto tu sia lungimirante certe cose non puoi certo immaginarle, figurati a investirci dei soldi. A Genova, anche solo trent’anni fa, come in tutta la regione, mica c’era il tempo che fa adesso. Per questo si è sviluppata come la vedete ora quando arrivate da Milano in macchina e vi sembra di passare nel tinello di quelli che vivono con l’autostrada così vicina che potrebbero chiedere la riscossione dell’attestato di transito. Chissà se era meglio bucare montagne, ai tempi della costruzione dell’autostrada non usava e oggi, invece, ci sono i vari NoTav che mettono tutto a ferro e fuoco. Ma poi il paesaggio, intendo lì nei dintorni di Genova, sarebbe stato una bellezza naturale?
Ci sono infatti le caratteristiche stratificazioni di edilizia residenziale sui monti intorno, quelle che davanti entri dall’ingresso come tutti e dietro invece passi dal tetto perché la via dopo il tornante è già salito quanto l’altezza del palazzo. E le complessità non finiscono qui. Lo sapevate poi che sotto al centro storico è tutta acqua? Un’amico che aveva rilevato un bar nei vicoli ha trovato sotto un dedalo di cantine medioevali tutte allagate dalle falde acquifere, le ha asciugate e ne ha ricavato un pezzo in più di osteria. Nel frattempo sono stati coperti torrenti che un tempo facevano ridere e oggi, con questo fenomeno della pioggia a target che somiglia un po’ ai bombardamenti in Iraq che dovevano essere al millimetro in modo da risparmiare la popolazione civile, oggi sono diventati corsi d’acqua amazzonici.
Questo per dire che la situazione è da prendere in mano ma con una certa solerzia perché ogni anno, di questa stagione, è la solita storia, non è solo una questione di mettere tappulli (come si dice da quelle parti a indicare un rimedio approssimativo ed efficace solo nell’immediato). Come vedete, con il clima che ci riserva il futuro le cose sono destinate a peggiorare e Genova, che è un mix tra una litografia di Escher e un fumetto di Mordillo, rischia davvero grosso.
mi scusi, per Piazza De Ferrari?
StandardLeggendo questo post di Miss Fletcher, che ha un blog che tra me e me chiamo “Genova come non l’avete mai vista”, oltre a riassaporare almeno virtualmente il cioccolato di Viganotti cercavo di ricordare se era sempre di Viganotti una bottega aggiuntiva con degustazione di caffè incorporata ubicata in Salita del Prione, che è il vicolo che collega Piazza delle Erbe a Porta Soprana. Così ho cercato di verificare di persona l’informazione da qui, immergendo l’omino giallo di Google Street View nel centro storico per percorrere insieme a lui la salita dando un’occhiata ai negozi sulla sinistra, per riconoscerne l’insegna. Ho provato un po’ di volte, ma Street View in quel punto sembra impazzire. A metà vicolo ti fa attraversare addirittura un muro e ti ritrovi nell’adiacente Vicolo delle Carabaghe, tanto che poi ti perdi se non sei del posto o hai la memoria corta, come la mia. E passi da Vico del Fico fino a quando ti ritrovi in Via Chiabrera, la riconosco perché era sede di uno dei miei locali preferiti ma si legge anche la targa in alto, strada che Google Maps fa passare ancora come parte di Salita del Prione ma che non è nemmeno contigua
E in molto di questo girovagare disordinato per tutte quelle stradine sono stato sempre accompagnato dal tizio che vedete qui sotto con la maglietta azzurra
lo vedete anche qui
che cammina paziente con un foglio in mano che sembrerebbe una cartina o una stampa su A4 proprio di Google Maps, e che secondo me è uno dello staff di Google che accompagna l’omino con l’alambicco per mappare i caruggi che talvolta lo precede, altre lo segue. Perché non penserete sul serio che la Google Mobile si sia addentrata in questo dedalo in cui non si passa a volte nemmeno con lo scooter, vero?
E la morale di tutto questo, perché già vi sento mormorare cose tipo certo che non ha proprio nulla da fare plus1gmt per mettersi a controllare l’affidabilità degli strumenti di geolocalizzazione di Google, dicevo la morale è che c’è questa analogia tra il centro storico di Genova in cui un tempo si organizzavano addirittura gare di orientamento e la rete, quella in cui ci troviamo tramite browser. Pensate anche ai motivi di sicurezza fisica degli abitanti dalle incursioni marinaresche per i quali il centro storico è stato costruito così tutto appiccicato, d’altronde poi lo spazio non era granché. Bene, i vicoli che hanno tenuto fuori anche i militari americani nel dopoguerra hanno persino mandato in tilt una macchina perfetta come il principale sistema online in cui trovi tutto, qualunque informazione. Ma poi finisce che per arrivare a Porta Soprana partendo da Piazza delle Erbe è meglio se chiedi a qualcuno del posto.
begato
StandardSebastiano lo riconoscevi perché era l’unico che aveva l’accento romano. Portava gli occhiali. Era un po’ più scuro di pelle degli altri. Ed ecco, a quel punto, se qualcuno ti chiedeva un ulteriore tratto identificativo, potevi dirgli che aveva anche una gamba che non funzionava proprio come devono funzionare le gambe di un ragazzino di dieci anni. Occorre essere molto cauti nel descrivere le peculiarità delle persone, a maggior ragione se sono bambini. Cicciotto anziché obeso. Monello al posto di deficiente. Svogliato per non dire che non ha voglia di fare un cazzo. Ma non è questo il punto. Sebastiano viveva in un quartiere di edilizia popolare di quelli aggrappati alle montagne che poi quando vengono giù le frane, o i ruscelli sotterrati reclamano con violenza il loro spazio, oggi, a trenta e più anni da quando quei palazzi sono stati costruiti, organizziamo i concerti per le famiglie che non hanno più nulla e vivono nelle tende sostitutive. E nel quartiere di Sebastiano abitavano i peggio casi umani, le famiglie disastrate, le ragazze madri e i padri tossicodipendenti, i nuclei con tre e quattro figli con i genitori disoccupati. Tutti i bambini passavano il tempo libero insieme sul tetto del palazzo che più degli altri era un insulto alla geometria e all’architettura stessa, una specie di diga tra due versanti dove sotto passava la strada e sopra, sul tetto, c’era una spianata in cui si poteva giocare. Un palazzo al contrario, una cosa da cartone animato ecologista, con il cortile sopra.
Il fatto è che Sebastiano, con il suo piede, non poteva ricoprire nessun ruolo nelle squadre di calcio improvvisate dagli altri ragazzi. Ma in quel quadro sconcertante di natura, edilizia e umanità aggrappata a un niente, nessuno prendeva in giro Sebastiano per il suo handicap. Nessuno lo lasciava da parte nei giochi, nemmeno quando si trattava di dare calci al pallone. Le due squadre si fronteggiavano sul tetto del palazzo, e a Sebastiano facevano fare la radiocronaca. Lui con il suo accendo romano, gli occhiali e la pelle più scura degli altri. Faceva finta di impugnare un microfono come i giornalisti di Novantesimo Minuto e seguiva l’incontro con una precisione pazzesca, e quelli che passavano di lì, se non erano ragazzi grandi in cerca dello spacciatore di fiducia o adulti alla fine di una vita insopportabile in una domenica pomeriggio, non si fermavano a vedere i cross e i passaggi e le parate dei bambini nel finto campo di cemento, ma sostavano a imparare tutto quello che c’era in quell’esempio di solidarietà spontanea. Una quindicina di giocatori e un radiocronista che raccontava, apparentemente solo per se stesso, le fasi del gioco degli altri.
in via dei matti numero zero
StandardSi salivano sette piani di scale a piedi, rampe pensate per scoraggiare gli ospiti e aggiunte o ricostruite nel tempo, le ultime due con una percentuale di pendenza da alpinista e un rapporto alzata-pedata al di fuori di ogni norma architettonica. La prima volta addirittura percorse al buio, non vi era alcuna finestra perché non esistevano spazi comuni interni, un cortile o un qualsiasi chiostro benché cinquecento anni fa fossero elementi piuttosto comuni. Probabilmente a quell’edificio mancava un pezzo, magari crollato o bombardato in tempo di guerra, e già era un miracolo che la parte in cui si trovava il mio futuro bilocale fosse sopravvissuta. Procedevamo lentamente, il padrone di casa davanti ed io dietro, la mia faccia all’altezza delle sue tasche posteriori dei pantaloni, lui anziano e fiaccato da tutti quei problemi che impongono di fare le scale con calma, a una certa età. Il buio, in alcuni punti totale, non aiutava di certo, ci tenevamo al corrimano in legno, azzardando ogni passo in base all’esperienza del gradino precedente pur sapendo che un metodo empirico in questi casi di edilizia nei centri storici è tutt’altro che efficace. Non c’era però pericolo di sbagliarsi all’arrivo, la scala terminava proprio in fronte all’ingresso dell’appartamento meta del nostro sopralluogo. A quel punto un po’ c’eravamo abituati all’assenza di luce, ma la porta, di una taglia almeno più piccola rispetto all’uscio, lasciava filtrare sopra e sotto un centimetro buono di luce. Bene, non ci saranno problemi di aerazione.
Giudicare l’appartamento immaginandoselo abitabile non fu un’impresa semplice, ma il costo era vantaggioso e decisi di dare fiducia al locatore, padre di un’amica di un mio collega che ci aveva messo in contatto. E non mi sbagliai. Già la seconda visita, a caparra versata, andò meglio. La luce nelle scale era stata ripristinata, e la casa era stata rimessa in ordine e tinteggiata tutta di bianco, tanto che con le finestre spalancate a quell’altezza con la giornata di sole sembrava di essere in Grecia. Certo avrei dovuto adattarmi perché in quanto a comodità lasciava a desiderare. La doccia era nel cucinino a ridosso della finestra, per lavarsi occorreva chiudere la veneziana verso l’esterno per non mostrarsi in pubblico, anche se la vista era su una piazza e non c’era nulla di fronte, e tirare una tenda verso l’interno per non allagare il pavimento. Nello stesso cucinino era stato ricavato il bagno, nel senso della tazza con sciacquone annesso e basta, un cubicolo con un’apertura sulla doccia cioè sulla cucina, con tutti i problemi della coesistenza tra esigenze fisiologiche e cottura dei cibi.
Ma il vero punto di forza, il particolare che faceva la differenza e che mi aveva convinto ad accettare la proposta, era il terrazzo. La scala, una volta oltrepassata la soglia, continuava a sinistra ancora per una rampa a chiocciola e in muratura che portava al tetto dell’edificio, ampio quanto l’appartamento sottostante, davvero suggestivo. Pavimento in ardesia, comignoli, vista da capogiro sul centro storico fino al Porto Antico. Solo questo sfogo, inaccessibile a temperature estreme per quanto possano essere estreme le temperature a Genova, valeva tutto il resto e convinceva a chiudere un occhio sulle caratteristiche più infelici. Le infiltrazioni d’acqua che poi diedero alle pareti di perimetro una preoccupante sfumatura verde poltiglia. I calcinacci che ogni tanto si staccavano e cadevano percorrendo le scale. Il portone sempre spalancato e apparentemente privo di serratura tanto che non mi venne nemmeno fornita la chiave, il che attirava individui senza fissa dimora alla ricerca di un posto al coperto. E quando dico apparentemente privo di serratura è perché una volta lo trovai chiuso rientrando a notte inoltrata, così scelsi di tirare mattina nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria, con degni compagni di sventura. E il pusher che, oltre a me e a un misterioso infermiere transgender, abitava lo stabile occupando l’appartamento al piano inferiore rispetto al mio. Ogni tanto i clienti lo aspettavano seduti sui gradini, ma si spostavano volentieri per farmi spazio quando passavo. Una volta, salendo, trovai la sua porta d’ingresso sfasciata a colpi di martello (era di legno e, come la mia, piuttosto fatiscente) così, temendo per mia incolumità, chiamai la Polizia e mi lamentai con il padrone di casa, proprietario di tutto l’edificio. Prima però provai a rintracciare il pusher, cosa abbastanza semplice perché nel bar della piazzetta, una sorta di filiale per la sua attività, era molto conosciuto. Il barista non si sorprese più di tanto. Aveva sgarrato con il suo principale, per così dire, ed era sparito dalla circolazione. Ma non era il primo comportamento anomalo che avevo notato in lui. Era uno molto macho, con tanto di cicatrice sul viso e i capelli lunghi e in casa indossava una vestaglia orientale aperta sul petto. Uno di quei personaggi che si incontrano solo nel centro storico di Genova. Per un certo periodo c’era una ragazza con lui, che presentava come la sua donna, che scacciò di casa un notte come un film d’altri tempi, lanciando le sue cose giù per le scale e urlandole di sparire, che lì dentro di suo non c’era niente e di non farsi più vedere. Sul terrazzo organizzai anche un paio di feste, con il barbecue e la musica, divertendomi a scendere e salire lungo l’impervia scala a chiocciola per trasportare vino fresco e birra e focaccia.
Una mattina, poi, stavo ancora dormendo, saranno state le cinque, suonarono e bussarono alla porta in modo concitato. Debole di nervi come sono rischiai l’infarto ma riuscii a infilarmi i pantaloni e portarmi all’ingresso. “Carabinieri. Aprite o sfondiamo la porta”. Giuro. Non me lo feci ripetere due volte. C’erano un paio di agenti in divisa, un vigile del fuoco e una donna in borghese. Mi colpì il modo in cui rimasero sorpresi sbirciando alle mie spalle, mi ero sistemato piuttosto bene con mobili comprati per due lire ai mercatini dell’usato o trovati nella spazzatura ma tutta roba di design e vintage, più qualche immancabile pezzo Ikea. Mi dissero che avevano l’ordine di sgombrare l’intero stabile che a loro risultava essere occupato abusivamente. Ma, mentre mi osservavano cercare nel faldone dei documenti il regolare contratto, si rendevano conto che qualcosa non quadrava, anche se sembravo un giovane scapigliato avevo comunque la parvenza di una persona per bene. Io mi stavo preoccupando per il mio vicino di sotto, chissà se gli perquisiscono la casa e gli trovano qualcosa. Poi la donna in borghese, che doveva essere la più alta in grado, lesse l’indirizzo indicato sul contratto. Salita San Bernardino. Il loro mandato era per Mura di San Bernardino. Ci scusi tanto. Tutto da rifare.
Ma non fu nemmeno quel qui pro quo a farmi desistere, dopo due anni, dal rimanere lì. Decisi di trasferirmi altrove dopo un episodio apparentemente privo di significato ma che mi portò a una riflessione esistenziale. Lasciavo spesso la finestra sulla doccia aperta, durante il giorno, quando uscivo per recarmi al lavoro. Un giorno iniziai a sentire un odore piuttosto sgradevole nella rampa di ingresso, in un punto preciso tra due scalini ma non riuscivo a capire cosa fosse, la penombra non permetteva indagini più accurate. Temevo il peggio, vista la diffusione di roditori indesiderati nella zona. Ma, presa di petto la situazione e munitomi di una torcia, rinvenni un piccione appena nato, morto da tempo a giudicare dalla puzza e dalle sue condizioni, nascosto sotto una piega della moquette. Pensai al disagio della fauna nel contrasto tra urbanizzazione e edilizia storica, la mia casa come un cimitero di piccioni che scelgono di venire qui a morire. Ecco, ne avevo abbastanza. Trovai un appartamento allo stesso prezzo in un palazzo di fine 800 e lentamente cominciai il trasloco, per lo più utilizzando l’autobus.
non c’inghiotte e non torniamo più
StandardPrima ci andavo pervaso dal complesso di inferiorità di chi abita nella provincia, ero molto giovane e Genova era ancora la città di una volta, con via San Lorenzo carrabile e la facciata della chiesa ancora tutta sporca di smog. Perdersi nei vicoli non era una sensazione piacevole. Una mattina in cui avevo saltato scuola, bighellonando davanti a un portone di quelli da libro di storia dell’arte con cui le camionette che transitano a raccogliere la rumenta non ci vanno tanto per il sottile, ho sentito suonare colpi di grancassa dentro, ho pensato fosse una sala prove e ho dato un’occhiata. In tre stavano pestando uno, era il rumore dei pugni sulla faccia quello che avevo scambiato per una batteria. Di certo andavano a tempo.
Poi ho passato lì un lungo periodo da genovese con tanto di residenza, la città stava diventando sempre più bella con l’Università nel centro storico e tutto il recupero del Porto Antico realizzato durante e dopo le celebrazioni colombiane del 92. I venerdì non ti muovevi nei vicoli dalla ressa, con quella sensazione di vivere tra la gente più invidiata, quella che sta operando un cambiamento sociale, se ne rende conto e in virtù dei risultati tangibili si impegna a fare ancora in eccesso. Succede così quando c’è tolleranza, c’è integrazione, c’è materiale da trasformare finché si vuole.
Ora torno a Genova da milanese, meno di quanto vorrei. Faccio il turista ma poi incontro sempre qualcuno. Mi capita anche qualche visita di lavoro. Faccio finta di non essere pratico della città, ormai ho perso completamente la “còcina”, e chiedo consigli su dove mangiare. Una volta, era estate, in un’azienda in cui stavamo girando un video di marketing mi hanno mandato al Gran Ristoro a Sottoripa, per chi non lo conosce è una bottega piccolissima in cui fanno panini imbottiti con qualunque cosa. Davvero. In vetrina hanno vaschette di ogni genere di companatico, sembra il plastico di una città da cartone animato costruita con materiale commestibile. Davanti, sotto il portico, pochi tavolini sempre gremiti da gente comune, turisti pochi perché non gli daresti due lire ed esponenti dell’underground umano locale. Ma la qualità dei panini è superlativa.
E da milanese ho fatto la coda come la facevo da provinciale prima e da genovese più tardi, ho preso la mia rosetta imbottita con non ricordo quale tipo di arrosto e la birra in bottiglia. Mentre stavo pagando ho pensato a un manager genovese che consiglia a un operatore marketing milanese un posto così, voglio dire provate a immaginare la stessa scena al contrario: venite a Milano per lavoro da Genova e il vostro cliente vi suggerisce uno di quei camioncini che vendono i panini con la porchetta per strada (il paragone è inglorioso per il Gran Ristoro, ma è giusto per fare un esempio), gremito di sudamericani che smerciano free press in pausa pranzo. Così ho preso panino e birra e mi sono seduto sulle panche in muratura sotto l’Acquario, a fianco di una nordafricana di mezza età che mangiava tonno in scatola e che portava con sé tutti i suoi averi in un sacchetto di un discount. Una miriade di piccioni sfrontati erano lì pronti a divorare le mie briciole e, a giudicare da ciò che lasciavano in cambio, sembravano tutt’altro che riconoscenti.
nella stessa barca
StandardPer quel che mi ricordo della Liguria, diciamo che me la ricordo piuttosto bene perché sono nato e cresciuto laggiù, e soprattutto di Genova in cui ho abitato per un po’, c’è quella sensazione di equilibrio precario che non ti abbandona mai. Poi se ti abitui ad avere sempre i due piedi allo stesso livello e a comodità come la raccolta differenziata all’interno dei cortili, passare in autostrada a ridosso degli edifici costruiti in salita ti sembra l’ennesimo film in 3D al multisala. Li guardi e ti gira un po’ la testa e pensi ai capogiri di chi ci abita dentro. Ma non è solo quello. Prova a salire a monte, arrivi in cima e ti senti in una vignetta di Mordillo, c’era persino una canzone di Max Manfredi che raccontava di chi fa la pipì sulle alture e in mezzo minuto si inquina il mare. Ti cade il pallone giù e non lo trovi più. Arrivi in costa sull’appennino e ti coglie l’effetto da montagne russe. Si tratta di una città, e non è l’unica, costruita per altre epoche, quelle in cui esistevano ancora le mezze stagioni e il clima era un altro, e anche sufficientemente consolidato. Oggi passare sotto quell’enorme ziqqurat urbanistico mi dà l’impressione che crolli da un momento all’altro. E comunque non c’è più lo spazio per nulla, in Liguria, figuriamoci per le piogge copiose che oramai da dieci anni fiaccano con regolarità l’autunno rivierasco, ma ogni volta è sempre come la prima volta e che ci volete fare. Non si può ricostruire Genova, non si possono radere al suolo i quartieri appesi sulla cima. Si può cambiare la Liguria, si devono cambiare i Liguri? No, non ce n’è bisogno. Vedendo una delle strade sommerse di fango delle Cinque Terre, notando l’insegna di un albergo che sembra non esserci più, mi sono chiesto quanto costasse lì la pensione completa in alta stagione e il livello del servizio fornito.
le mura di malapaga
StandardIn tema di vacanze, ecco un viaggio spazio-temporale alla portata di tutti, poco più di un’ora da trascorrere virtualmente non solo altrove, ma in un altro quando. Il film “Le mura di Malapaga” è un gioiellino francese di cinema neorealista tra il noir e il sentimentale d’antan, diretto da René Clément, vincitore addirittura dell’Oscar come miglior film straniero, interpretato dalla star dell’epoca Jean Gabin. Ma la vera protagonista del film è la città che fa da scenario alla trama, una Genova da poco uscita dalla guerra, bombardata, ancora tutta da ricostruire. Una nutrita serie di cartoline in bianco e nero, una delle poche e rare testimonianze visive di una città che – almeno parzialmente – non c’è più. Il porto, con le mura da cui è tratto il titolo parte dell’antica cinta che da porta Siberia si estendeva fino a Piazza Cavour. Le vie strette e buie del centro storico, sì, i caruggi, ancora fitti di botteghe, teatro di vita per comparse vere, i genovesi sopravvissuti alla guerra. Facce da neorealismo e lineamenti di gente che ha sofferto e che, in Italia, non si sarebbero mai più riviste. Gli interni delle case traboccanti di sfollati, tra cui una giovane Ave Ninchi, bambini chiassosi e pronti a riappropriarsi degli spazi che la storia aveva negato ai loro genitori. A contrasto, qualche vista sui palazzi borghesi di Castelletto, quelli a metà delle vie in salita con il doppio ingresso, dal portone e dal tetto tramite passerella dalla strada sovrastante. Un bel film, e un bel carico di tensione da spendersi in estate, quando il bianco e nero ridimensiona l’orgia di colori della bella stagione, la calma piatta dell’interno con tv accesa e contorno di ansia da ignoto attutisce il chiasso del divertimento forzato là fuori, la bulimia di contatto virtuale e la psicosi dell’always on diventano risibili capricci, paragonati al bisogno quotidiano e imprevedibile di una società, quella del dopoguerra, ancora in fase di ridefinizione.
la zona grigia e la zona rossa
StandardCasa mia sembra un centro sociale, dicono i miei ospiti. In realtà è solo il muro bordeaux dell’ingresso, con appese le stampe delle illusioni ottiche che poi è la pubblicità di un farmaco degli anni ’60, che ne trasmette l’idea. Poi vedi il ramo secco preso sul litorale di Algajola e pitturato color argento e il tavolinetto da modernariato in vetro sul pavimento tipico degli ingressi alla genovese e ti rendi conto di essere in una abitazione sicuramente originale, ma niente di più trasgressivo. I miei ospiti si sono portati il sacco a pelo e staranno qui solo una notte, poi non so e non lo voglio sapere. Tra qualche giorno inizia il G8 e tutto può succedere. Hanno un paio di bellissime bandiere rosse con la silhouette di un pugno. Solo dopo, su Internet, scoprirò di quale movimento fanno parte, perché glielo chiedo e me lo spiegano ma non è che afferro benissimo l’inglese, soprattutto il loro accento che non so quale sia. Sono 3, amici di un amico di un collega milanese che hanno approfittato della manifestazione per farsi anche una mini-vacanza in Italia.
Avevamo appuntamento 3 ore fa, ma io sono arrivato in ritardissimo. Tra i provvedimenti pensati per evitare la confluenza di persone qui hanno bloccato l’accesso a tutti i treni e chiuso le stazioni. Io sono un pendolare quotidiano con Milano, il mio treno ha terminato la corsa ad Arquata Scrivia e da lì è stato un trionfo di autobus sostitutivi fino a Bolzaneto. Poi bus di linea e gli ultimi 2 Km a piedi fino a qui, al confine della Zona Rossa. Ma sono provvedimenti inutili, la città è piena e molti devono ancora arrivare. Ho mostrato ai miei ospiti la sala, hanno piazzato lì le loro borse, il tempo di una birra, quattro chiacchiere, un po’ di musica e poi si va a dormire, io sono in piedi dalle 6 come ogni giorno.
La mattina dopo li accompagno in un giro turistico delle barricate. Oltre è off limits. Uno dei tre estrae una telecamera e filma tutto il percorso lungo il recinto, anche se il centro storico è costantemente in ombra con punti in controluce. Incontriamo una coppia di ragazzi, mi chiedono dove trovare una panetteria aperta per comprare la focaccia. Rido perché non c’è anima viva in giro, le serrande sono tutte giù, vedo una ragazza africana che stende stoffe colorate al balcone, strano che non sia stata evacuata. Al di là delle barricate ci sono gruppetti di ragazzoni muscolosi, forze dell’ordine in borghese, loro perlustrano il confine dall’altra parte. Mangiamo un kebab perché non c’è molto da fare, i tre inglesi trovano tutto interessante ma per me che vivo qui e che vedo la mia città trasformata nella location di un film sulla fine del mondo un po’ meno. Si tratta di una ferita aperta e sanguinante, ancora prima di aver sferrato il vero colpo, perché Genova, con tutti i suoi limiti, da più di 10 anni è la capitale dell’accoglienza. Imporre l’esilio forzato agli abitanti, clandestini o no, è stato il vero crimine.
Saverio, un amico, mi manda ogni giorno il diario di quello che vede, i blog non ci sono ancora ma le mailing list svolgono la loro funzione di diffusione delle informazioni. Ho trascorso gli ultimi giorni fuori città, ma grazie a lui sono aggiornato, così so dove posso o non posso andare. Nel pomeriggio finiamo il tour della Zona Rossa, impongo anche un giro turistico vero delle bellezze della città, compresa la cartolina dall’alto di spianata Castelletto e poi ci spostiamo vero la foce, per il concerto di Manu Chao. Aspetto Anna e qualche amico e ci facciamo largo tra la folla. Stanno suonando ancora i 99 posse, Zulu fa anche una battuta di spirito sul fatto che c’è qualcuno che spera ci scappi il morto.
Gli inglesi, con le loro bandiere rosse sulle spalle, incontrano il gruppo di amici con cui avevano appuntamento per manifestare insieme, li salutano dicendo una cosa tipo “come è fottutamente bello essere comunisti in questo mondo di merda”, almeno questo è quanto ho capito. Mi abbracciano ringraziandomi per l’ospitalità, figurati per così poco, vivo da solo e non sono praticamente mai in casa in questo periodo. Poi si avvicinano al palco, che è laggiù in fondo al piazzale dopo una bolgia di persone. Non credo farò un passo più avanti di così. Anche perché dopo attacca Manu Chao, ed è il delirio, per di più l’ho visto nemmeno un mese fa al Goa Boa quindi posso anche precludermi questo appuntamento con la storia. Incontro Paolo, che ho avuto come allievo in un corso di informatica qualche anno prima, con sua moglie che è incinta e la calca l’ha spaventata. Tempo dopo li riconoscerò in una foto simbolo. Entrambi con le mani alzate, lei con la t-shirt tirata sopra la pancia per mostrare il parto che l’aspetta, intorno le forze dell’ordine stranamente accondiscendenti
Nel frattempo devo decidere cosa fare. Ho due opportunità di partecipare alle manifestazioni con due gruppi diversi, anche piuttosto lontani dal punto di vista politico. La mattina successiva, sono le 7, metto in fila un po’ di particolari. L’insegna del Mc Donald in via Venti, occultata da una maschera di cartone e nastro isolante a forma di insegna del Mc Donald, i fuochi d’artificio la sera dell’inaugurazione, alla Stazione Marittima proprio sotto casa mia, sembra un bombardamento e sono morto dalla paura e poi non c’è un cazzo da festeggiare. E, penso, non c’è niente da manifestare, con il nuovo governo di centro-destra e Fini e le mutande stese che fanno incazzare Berlusconi. Scelgo così la zona grigia. Mi vesto, salgo sulla Panda che ho parcheggiato ben lontano, e vado a godermi la diretta TV a 50 km di distanza.
Quando rientro, ampiamente dopo la mezzanotte, lascio ancora la Panda a distanza di sicurezza e mi avvio verso casa a piedi, in quel clima surreale. Davanti alla stazione Principe c’è un esercito di Carabinieri, mi chiedono di avvicinarmi tenendo le mani bene in vista. Spiego che devo passare da lì per tornare a casa, abito poco più sopra. Faccio vedere i documenti, loro sorridono ma io non ne ho voglia. Scusaci, mi dice, ma è la prassi. Chiuditi in casa e vai a letto, domani sarà peggio.
scuola di perfezionamento
StandardL. ricorda di aver parcheggiato un paio di tornanti sotto la villa. Chi conosce la topografia di Genova, sa di cosa parlo. La leggenda dice che i genovesi abbiano i polpacci più sviluppati della media, a causa dei continui saliscendi. Un rapido check della ZTL, e via a risalire le curve grazie alle scalette che seguono il dislivello della collina, che si erge senza interruzione oltre la circonvallazione a monte, su-su sopra Corso Firenze. In quota, praticamente. La villa è la sede distaccata di una scuola di architettura americana, dove si terrà il party di fine sessione a cui è stato invitato. In realtà sono in tre, e con l’architettura poco ci azzeccano. Con l’america? Neppure, se non per sentito dire.
Con il fiatone suonano al citofono, accennano l’unico cognome dei tre che può significare qualcosa nell’ambiente cui sono diretti e si lasciano il portone alle spalle. Dal piano superiore si percepiscono tutti i rumori che ci si aspetta di sentire alle feste della giovinezza ostinata. Musica, risate, pestoni, imprecazioni forchette e bicchieri. Tutto questo però in americano. Dentro la hall un centinaio di persone, tre quarti studenti del college intorno ai ventanni e un quarto di insegnanti, uno dei quali è quello che ha invitato L. e che gli ha permesso di portarsi un paio di amici. Un trio di over 30, per il quale il gemellaggio con le young americans risulta oltremodo inappropriato. Anche perché i collegiali sono tutti intenti a mettere a frutto i rapporti tra di loro. L. e i suoi amici sono lì solo per far numero e qualche foto che finirà sul sito del college. La loro collocazione naturale si conferma tra gli adulti, i docenti, in realtà di poco più adulti.
La selezione musicale è a cura degli studenti, d’altronde la festa è la loro. Cd incredibilmente quasi tutti originali tra cui l’intera discografia dei Cake. Curiosa coincidenza. Sul tavolo delle vivande, a fianco dell’impianto hi-fi, una decina di torte. Cheesecake, per la precisione. Metà bianche, probabilmente solo formaggio dolce. L’altra metà ricoperte da uno strato di mirtilli, marmellata o composta o frutta fresca. Anzi: “Marmellata, composta o frutta fresca?”. La domanda, rivolta all’amico prof in italiano, viene raccolta da Brenda, rossa con le lentiggini, alta più della media e lievemente sovrappeso. Ha colto l’interesse di L., e si arroga il diritto di risposta. Brenda è una delle padrone di casa ma, soprattutto, è l’artista dei cheesecake. Prende tre piatti di carta a stelle e strisce, su ognuno dei quali posa due fette, una bianca e una bianca e viola. Sei porzioni in tutto, praticamente identiche e tagliate senza la minima sbavatura. Propone anche un flute di prosecco, marca da supermercato. Meglio declinare l’offerta e concentrarsi sul dessert.
Prima la fetta bianca, che si conferma solo formaggio dolce. Sono sufficienti quattro forchettate. Una delizia. L. giura di non aver mai gustato nulla di più riconducibile a un capolavoro di pasticceria in vita sua. Brenda osserva il rito. Le forchette passano al trancio al mirtillo, è questione di minuti e si lascia divorare senza opporre resistenza. Qualche difficoltà in più per raccogliere i resti dello strato di frutta, non è un lavoro per una forchetta. Ma alla fine i tre piatti sono vuoti. Brenda sorride con gli occhi, mentre L. vorrebbe aver assimilato l’intero vocabolario di inglese delle superiori, si presterebbe anche a subire un incantesimo ed essere trasformato in un americano senza possibilità di ritorno per riuscire a descrivere l’amore che prova in quel momento, la passione, il trasporto, l’esperienza. Brenda coglie il desiderio e risponde nell’unico modo che conosce, l’unica maniera per togliere dall’imbarazzo tre corpi alla mercè del suo cibo sacro. Taglia altre sei fette di cheesecake e assembla nuovamente le tre composizioni, le tre nature morte con ambrosia.
Poi sorride, un’amica la prende sottobraccio e si allontana, fagocitata dal ballo di gruppo. Nel frattempo la musica è cambiata, ora qualcosa che assomiglia ai Daft Punk ma che non possono essere i Daft Punk perché non sono stati ancora inventati fa muovere a ritmo la scolaresca, qualche prof, e i palati alle prese con gli ultimi frammenti di crema al formaggio. Finisce anche il secondo giro. Si avvicina un ragazzo, basso e atletico, bianco come solo i bianchi in Usa riescono ad essere. Si presenta a L., è inevitabile il minimo di conversazione consentita dalle reminiscenze della lingua straniera imparata al liceo.
-“Di quale parte degli Stati Uniti sei?”
-“Springfield, nel Michigan”
-“Davvero? La città dei Simpson?”
Dal basso del suo uno e sessantacinque, l’aspirante architetto non capisce subito l’affermazione di L., complice l’inglese approssimativo. Ma probabilmente, in Italia da qualche mese, avrà dovuto sfatare chissà quante volte quel luogo comune. “Oh, no, Springfield è un nome molto comune nella toponomastica americana. Ce ne sono almeno un paio in ogni stato“. Si spegne il sorriso di L., qualcuno cambia anche il CD. Ora il flute di prosecco da supermercato è perfetto.