Io e molti altri allocchi dell’interweb che ci siamo fatti menare per il naso dalla colonnina delle stronzate di Repubblica con tutti i suoi numerosi “guarda tizio che si è fotografato tutti i giorni per 10 anni in cinque minuti”, roba che Auggie Wren faceva già nei primi anni 80 e con una macchina a rullino peraltro rubata in quel modo che sappiamo tutti noi, ormai siamo fuori tempo per tentare esperimenti nerd di quel tipo. Pensavo di fare una cosa simile con mia figlia, dalla prima foto scattata pochi minuti dopo la nascita in poi, ma non avevo fatto i conti con alcuni fattori a partire dalla ritrosia con cui gli adolescenti amano farsi fotografare dai genitori, e nemmeno oggi che stiamo sempre con lo smartcoso in mano pronti a cogliere questo o quell’attimo riusciamo nell’intento di immortalare con l’effetto sorpresa qualcuno, figuriamoci chi passa il tempo a ciacolare sul Whatsapp e che ha fatto dei dispositivi touch una specie di protesi della propria esistenza. Qui in casa abbiamo persino dovuto cedere su alcune stampe di momenti gloriosi del nostro supporto genitoriale e che erano appese a imperitura memoria: il papà (che poi sarei io) in mare con la bambina (che poi sarebbe lei) in una sequenza di scatti che testimonia l’abnegazione con cui certi genitori si sottopongono alle peggio angherie per far trascorrere nel migliore dei modi possibili il tempo ai loro figli. Questo per dire che il numero di foto scattate annualmente a mia figlia, che ai tempi d’oro era di migliaia e giuro che non scherzo, ora si è ridotto drasticamente. Qualche azione durante le partite di volley che poi vengono sempre mosse perché non sono capace, momenti classici come il primo giorno di prima media, qualche foto di famiglia al pranzo di Natale. Quest’anno per dire non ne abbiamo scattata una nemmeno a capodanno, perché per la prima volta mia figlia ha trascorso la notte a casa della famiglia di un’amica. Mia moglie ed io siamo così ufficialmente passati alla fase della foto di quando era più piccola sul desktop del computer al lavoro, dei portaritratti sulla scrivania in ufficio, delle fototessere nel portafogli. Si chiamano anche istantanee, d’altronde, e mai come in questi casi si capisce perché qualcuno gli ha dato un nome così crudele.