si dice in fin di vita, è più elegante

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Fabrizio, l’ho incontrato per caso nel vano di accesso agli ascensori, non lo vedevo credo da quando mi aveva invitato a una delle sue esibizioni con il suo socio. Tutti e due vestiti da Gypsy Kings a suonare in piedi, e con i piedi negli stivali da gaucho, tutti quegli infiniti medley da ballare secernendo latinità – non quella dei romani antichi ma quella degli spagnoli moderni – mista a sudore, strusciandosi con cani e porci per lo schifo di entrambi. Una verve così istrionica non autorizza a porre però domande a rischio. Chiedere che cosa ci faccio qui e siamo all’ingresso di un ospedale è una formula che deve contemplare una gamma di risposte da paura. E malgrado mi sia preparato per tutta la durata del viaggio da Milano a qui nel fornire dichiarazioni di circostanza, c’è qualcosa che prende il sopravvento nel sistema che gestisce le convenzioni interpersonali, tanto che fulmino Fabrizio con un “c’è mio padre che sta morendo al quarto piano” proferito tutto di pancia, una cosa brutta lo so, ma so anche che non può che fargli bene. Colpirne uno per educarne cento. Diciamo no alle domande superflue. Ma poi me ne pento quasi subito, di certo gli ho rovinato la giornata e sono sicuro che la prossima volta si nasconderà dietro qualunque cosa pur di non salutarmi. Avrei fatto meglio a glissare. C’è mio padre che non sta bene, si è aggravato, oppure tentare con un generico è ricoverato e basta. Fabrizio è lì con sua mamma e un po’ lo invidio perché ha qualche anno in meno di me ed è primogenito, per cui ha genitori tutto sommato giovani ed è appena stato a trovare suo papà che ha una cosa da niente e in qualche giorno tornerà a casa. Io ho qualche anno in più e sono l’ultimo di tre figli, per questo ho addirittura un genitore ottantacinquenne in fin di vita anche se non si dice così. Io vado di fretta, non c’è davvero tempo da perdere, sono stato chiamato con urgenza dai miei famigliari e mi sono precipitato al capezzale e non vorrei certo mancare all’appuntamento con la morte per interposta persona a causa di uno che suonava una versione salsa di “Nel blu dipinto di blu”. Fabrizio alla fine si congeda stringendomi la mano e mi dice in bocca al lupo. Già. L’ascensore arriva e non so quello che mi aspetta.

i dieci migliori consigli a chi ha un figlio che oggi finisce la quinta elementare

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Ecco, se li conoscete metteteli pure per iscritto o fatemeli sapere in qualche modo perché ne ho bisogno. Anche solo per poi riportarli qui, considerando che tra poco sarò davanti all’uscita della scuola elementare ad attendere che mia figlia la varchi per l’ultima volta. Non vi nascondo che ho un po’ di paura anche per alcuni aspetti collaterali. Gli anni scorsi gli alunni delle quinte l’ultimo giorno di scuola venivano chiamati uno ad uno dalle maestre e loro si precipitavano fuori di corsa con in sottofondo “Il più grande spettacolo dopo il big bang” di Jovanotti. Insomma, sono convinto che mia figlia meriti qualcosa di meglio.

Ma a parte questo, che cosa ci sarà da oggi alle quindici e trenta in poi nessuno lo sa. Quanto durerà il tempo che separa il termine di questo quarto capitolo educativo, considerando anche i primi mesi in balia di mamma e papà, l’asilo nido e la scuola dell’infanzia, dal prossimo? E poi quello dopo ancora? Diamine, quanta fretta. Ieri mia moglie ed io ricordavamo il nostro esame di maturità, i temi in cui abbiamo pure preso nove entrambi e nei quali abbiamo fatto sfoggio di quel poco che sapevamo condito in tonnellate di boria adolescenziale, quella che se trovi le persone deboli al punto giusto ti fa tener testa agli adulti che è un piacere. Su questa esperienza, al momento entrambi siamo consapevoli che a noi non ci può prendere per il naso nessuno, a differenza dei commissari di italiano che ci avevano esaminato a metà anni ottanta.

Così ci siamo chiesti che cosa verrà fuori, da qui al compimento delle scuole superiori, di questo essere umano in divenire che domani sarò pronto a fotografare nel suo ultimo barlume di infanzia, e mi consola soltanto il fatto che almeno anagraficamente è un anno avanti. Ma il problema non è che lei non è pronta. Il problema è che non lo sono io. Comunque, ecco il mio contributo per gli altri genitori che, attraversando questa stessa esperienza, cercano risposte nell’Internet.

1. Non festeggiare la fine della quinta con una pizzata di classe in un locale al chiuso che vi illude con un tentacolare giropizza. Alla fine l’appetito scarseggia, si formano i gruppetti di genitori affini, c’è chi passa la serata a lamentarsi del servizio scadente o delle porzioni ridotte e se la prende con la cameriera, poi ci si saluta in tutta fretta ed ecco una nuova occasione sprecata per immagazzinare al meglio gli ultimi ricordi che resteranno per sempre.

2. Non incutere nei figli il timore delle medie. Si sa che i primi mesi, da settembre a Natale, sono una bella botta per i nostri bambini. Io ricordo il mio primo anno delle medie come un incubo in cui non riuscivo mai a terminare i compiti in tempo e così dovevo sempre svegliarmi un paio d’ore prima per mettermi alla pari. La prima cosa da insegnare ai ragazzi è il metodo e l’organizzazione.

3. Limitare le aspettative sul triennio successivo. Mia moglie ed io siamo sollevati della fine di questo ciclo per l’offerta educativa piuttosto scadente che ci è stata fornita, quindi guardiamo alle medie con una grande speranza di riscatto formativo. Ma, come sapete, compagni di classe, professori e visione didattica dell’istituto scolastico sono un bel mix di variabili che possono anche impazzire.

4. Non bruciarsi le vacanze estive tra la quinta e la prima con l’ansia. Già, ce ne sarà poi di tempo per preoccuparsi, quindi è meglio riposarsi tutti – genitori e figli – e poi si vedrà a settembre.

5. Pensarci bene prima di chiedere le preferenze dei compagni della primaria confermati nella secondaria. Non so, ma secondo me è bene rimescolare un po’ le amicizie, soprattutto se vivete in paeselli dove ci si conosce più o meno tutti. Tanto poi comunque le strade per le superiori si separeranno in men che non si dica, così meglio sperimentare nuove alchimie di vicinanze e vedere che succede.

6. Ricordare i cinque anni delle elementari prima di ripartire con il nuovo ciclo. Ecco, una cosa che farò quest’estate è portare su dalla cantina tutti i quaderni che mia figlia ha consumato in questi cinque anni e ripercorrere il suo cammino scolastico per fissarmi bene in mente cosa ha fatto, come lo ha fatto, che cosa le è rimasto e che cosa è sedimentato. Questo è utile prima che la grandinata di nozioni che si abbatterà su di noi dall’autunno prossimo renda l’esperienza della scuola primaria solo un remoto quanto romantico idillio tra la famiglia e le istituzioni.

7. Ripassare tutto. Magari proprio tutto no, ma quello che conta sì. Per noi il buco nero è la matematica, quindi ci daremo dentro con potenze, espressioni, aree, volumi e frazioni.

8. Esercitarsi nelle grandezze. Se avete conservato tutte le foto di classe dalla prima alla quinta, un bel gioco è quello di studiare che cosa è cambiato nei propri figli e in quelli degli altri da un anno all’altro, così, giusto per capire come si dà da fare la natura per avanzare sempre così dannatamente in fretta.

9. Organizzare un archivio completo. Oramai abbiamo battuto ogni record di foto digitali negli hard disk e sul cloud. Ma ci sono le famiglie dei compagni di classe dei vostri figli che possono avere altro materiale, o vogliamo parlare delle foto scattate dalle maestre durante le loro attività didattica. Io ho fornito alle insegnanti un supporto da svariati giga da riempire con tutte le loro gallery, memore di quando, alla fine dell’asilo nido, siamo stati omaggiati di decine di foto stampate dalle educatrici piene zeppe di attimi rubati a nostra figlia di cui non eravamo a conoscenza. Potete immaginare l’emozione.

10. Imparare a non tirare in avanti. Lo sapete meglio di me che la vita è una perpetua attesa di qualcosa che quando si manifesta lascia il posto a un nuovo anelito e così via, alla mercé di giorni mesi ed anni e tutta una vita che nessuno ci restituisce più. Quello che prometto a me stesso è di fermare il più possibile ogni fottuto secondo di mia figlia perché resti lì imprigionato a mio piacimento finché non me lo sarò goduto a sufficienza. E questa volta sarò solo io a stabilire quando ogni fottuto secondo potrà tornare libero e lasciare spazio a quello successivo.

the great raviolo in the sky

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Usare i Pink Floyd a fini descrittivi è una pratica tanto elementare quanto una delle applicazioni dei calcoli che si imparano nella scuola primaria, di quelli da cui poi è difficile ritornare analfabeti da grandi. Ma a me non mi interessa, e “The great gig in the sky” me la tengo sempre a portata di mano, tanto sta bene su tutto. Addirittura proprio ieri mi sono messo al pianoforte per impararne l’intro, avete presente il giro di accordi, e vi assicuro che non è poi così elementare riprodurla soprattutto se siete adulti e non vi esercitate più tanto, come me. Anche se, rispetto a quando suonavo io, ci sono modi e strumenti per imparare le cose più facilmente. Infatti mi sono messo con lo smartphone in cuffia e così ho potuto procedere agevolmente battuta per battuta anche se ero sul mio vecchio pianoforte che si trova ancora a casa dei miei genitori in Liguria e che, con il tempo, ha perso un bel po’ di accordatura. Mi resta per ora il dubbio se il pezzo sia in sol minore, come penso anche considerando un altro loro successo e mio cavallo di battaglia dell’esecuzione casalinga che è “Shine on you crazy diamonds”, o mezzo tono sopra. Il guaio è che l’originale che ho tra le canzoni che porto sempre con me per ogni evenienza emotiva si trova proprio a metà tra le due tonalità, rispetto all’accordatura del mio piano, in un comma difficile da riprodurre con strumenti acustici e impossibile da calcolare nemmeno se si è freschi di operazioni elementari, come mia figlia. Anzi, loro certe operazioni non le hanno nemmeno fatte malgrado stiano concludendo la quinta. Ma in matematica sono rimasti molto indietro. Niente potenze, niente circonferenza, né aree e tanto meno il volume. Poco prima di mettermi al piano per imparare i Pink Floyd in cuffia le ho chiesto di calcolare lo sconto che non ci aveva fatto poco prima la rivendita di pasta fresca in cui avevamo acquistato una scorta da ventisette euro e tre centesimi di ravioli con la borragine, che poi noi mettiamo nel congelatore e che ci consente di gustare poco per volta a Milano un po’ dei sapori che ci siamo lasciati distanti, come il pianoforte scordato a casa di mia madre e mio padre. Che poi uno si aspetta che, su una spesa di ventisette euro e tre centesimi, al momento di battere il prezzo sulla tastiera del POS il commerciante quei tre centesimi te li tolga, anche se in teoria non sarebbe tenuto. E infatti in Liguria state sereni che nessuno vi fa degli sconti, nemmeno di tre centesimi che su ventisette euro è una percentuale da partito di estrema destra alle elezioni. Quindi si parla di ben altre occasioni perse, il pianoforte poi lo si accorda, la mentalità di un popolo invece no, tanto continuerà a vendere ravioli fatti a mano con la borragine anche se cambio abitudini e non metterò più prodotti tipici della mia terra nel congelatore. Già stavo per convincermi a non ascoltare più “The dark side of the moon” a partire dal crescendo di urla che precede “Breathe” perché mi mette a disagio, proprio ora che ho qualche paura in più a causa della malattia di mio papà. Non bisognerebbe infatti avere paura di “The dark side of the moon”, un disco in cui da sempre identifico la metafora della vita e della morte nella parte chiara e nella parte scura, sarà anche per via della voce maschile che si percepisce proprio sotto gli accordi di piano iniziali di “The great gig” in cui si sente qualcuno che dice non avere paura di morire, in fondo perché si dovrebbe. Così decido di impararla proprio mentre ritorno dalla clinica in cui mio papà giace ormai completamente assente per l’Alzheimer, privo di ogni contatto con la realtà, con me, con mia madre, con quella percentuale che lo separa dal concludere un qualsiasi contributo alla conversazione di più di tre parole di senso compiuto che è pari allo sconto dei ravioli e al comma di accordatura del pianoforte che aveva comprato a suo figlio, cioè io, affinché magari un giorno imparasse un brano dei Pink Floyd a fini descrittivi di qualcosa che davvero, non saprei proprio da dove iniziare a descrivere.

ciao, maledetto ciao, semplicemente ciao

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Ieri, allo spettacolino di fine anno scolastico che quest’anno coincide anche con la fine della scuola primaria, e su questo tema ho già in serbo una marea di contenuti strappalacrime, dicevo che ieri le quinte tra cui c’è anche mia figlia al termine della loro recita che poi, come ogni anno, è una vera e propria pièce perché le classi seguono un laboratorio di teatro, insomma voglio dirvi che ieri, per salutare i genitori in lacrime, le classi dirette dalla maestra di musica hanno intonato in coro una canzone che con mio sommo sbigottimento ho scoperto essere dei Modà e che si intitola “Come un pittore” – roba da matti – ma dovrebbe intitolarsi con il ritornello con cui è ricordata che dice “Ciao semplicemente ciao”.

E sapete perché non si intitola così? Perché altrimenti il plagio di “Maledetto Ciao” di Gianna Nannini, altra pietra miliare del pop spazzatura nostrano, sarebbe eclatante.

E infatti mentre seguivo le bocche di una sessantina di esseri, a metà tra la dimensione dell’infanzia e quella dell’adolescenza, muoversi a tempo su parole scritte e pensate da un intellettuale del calibro di Checco, così è conosciuto ai più il cantante dei Modà, sollecitavo mia moglie nel cogliere una lunga serie di similitudini tra i due brani oggetto della contesa che però lei non ravvisava. Non è la prima volta, la mia forma mentis da musicista mi condiziona oltremodo perché poi le note sono quelle e con i giri di accordi, nella canzone italiana, non è che si possa sperimentare più di tanto. Per sfidarla, allora le ho chiesto se non sentiva anche una eco di “Ciao” di Vasco Rossi, ma si è accorta subito che il mio era un bluff.

In compenso sono passato per una brutta persona senza sentimenti, che bada a speculazioni e aspetti stilistici quando la sostanza, quella della fine di un’epoca e il passaggio a tutta una nuova serie di preoccupazioni, dovrebbe annullare tutto il resto. E infatti è così, sdrammatizzare serve anche a temporeggiare e non versare lacrime, per il momento, ma questo sarà un altro post.

fiore di maggio

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Il mondo è pieno di gente pronta a riempirti la vita di consigli su come non lasciarsi andare, pur consapevoli che si tratta di un’approssimazione del voler indurre gli altri a preoccuparsi per chi si trascura. Sono rari i casi di quelli che vanno fino in fondo. Per dire, anche io potrei inventarmi un sistema di consulenza on-line per i vostri tempi bui, magari raggranellando un po’ di consenso sull’Internet. Ieri mentre rientravo a casa ho percepito con la coda dell’occhio un furgone che accostava. Il padre di un’amica di mia figlia che vive a pochi isolati da noi mi ha chiesto se volevo uno strappo, ma prima di rispondere ho capito che cosa c’era di diverso dalle altre volte in cui si è offerto di dividere il percorso insieme a me. Il suo furgone bianco ora era completamente ricoperto dalla pubblicità elettorale di un movimento che non voterei manco morto. Ho rifiutato cortesemente, ero davvero prossimo alla meta e avevo voglia di camminare un po’, dopo una giornata seduto in ufficio. Poi se avessi accettato mi sarei un po’ lasciato andare, almeno nei principi. Mi ci vedete nell’abitacolo di un mezzo commerciale adibito a schiacciasassi, un carro armato per la propaganda politica di una fazione a me avversa e per di più semovente? Ma le avvisaglie del lasciarsi andare, una locuzione che ripeterò all’infinito in barba alle regole sulla scrittura che impongono di sfruttare al massimo i sinonimi per evitare le ripetizioni – dicevo le avvisaglie del lasciarsi andare è più facile individuarle nel pannello della lavastoviglie a incastro che si è staccato e nessuno vi ha ancora provveduto. Una borsa per lo sport con una tasca tutta scucita ma tanto chi se ne frega, non è che si devono fare i campionati di ginnastica antalgica. Il vetro dell’auto crepato che è lì e non c’è mai tempo per farlo cambiare. E tutto perché a una certa età è giusto passare in secondo piano rispetto ad altre priorità, per esempio crescere dei figli e figli sono al top degli obiettivi per antonomasia, e se per sbaglio, magari nel giorno del proprio compleanno, uno per sbaglio si mette al centro sono guai. Io per esempio compio gli anni a maggio, e la combinazione vuole che li compia proprio oggi. Poco fa stavo stendendo e fuori c’era una manciata di segnali di primavera prima che anche oggi andasse via il sole. Vedete, mi sono messo ancora al centro, il sole dovrebbe splendere oggi che faccio gli anni. Comunque stavo stendendo e con quel po’ di primavera mi è venuta in mente quella canzone di Fabio Concato il cui titolo corrisponde a quello di questo post. Una volta mi era capitato di leggere in una di quelle assurde riviste tipo Sorrisi e Canzoni TV una lettera di una ragazza che diceva di essersi innamorata della voce di Concato ascoltando le sue canzoni, come Fiore di Maggio, ma che poi l’aveva visto in foto ed era rimasta delusa perché aveva riposto l’aspettativa di una voce così nella corrispondenza con un volto angelico. Concato non era certo uno che poteva puntare sulla bellezza, ecco. Collegare però una canzone così da pianobar di quello peggiore al dubbio se sia meglio essere contenti di essere di mezza età perché si è vissuto prima rispetto a essere contenti perché invece si ha tanto da vivere davanti è un po’ lasciarsi andare, vero? Ma è così. Siamo contenti di aver già vissuto, noi di mezza età, e non potremmo fare diversamente. Siamo altresì lieti che i nostri figli abbiano così tanto ancora da scoprire, ma almeno ci si lasci la responsabilità di scegliere, come sottofondo, qualche canzone più appropriata.

l’inedito dei Beatles, un pezzo da sogno

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Stanotte ho sognato che suonavo con i Beatles, probabilmente ero al posto di John Lennon ma in realtà suonavo il basso e avevo di fronte a me Paul McCartney che cantava ma la cosa funzionava lo stesso. Era un sogno, non è che si può pretendere di essere filologici al 100%. Il pezzo non era niente di che ma ero in affanno a fare la seconda voce su quella di Paul, sapete come sono strutturate le loro melodie. La parte strumentale in realtà non era molto complessa, era il classico giro blues in dodici battute e io già alla terza o quarta ripetizione mi ero stufato e avevo cominciato a svisare con il basso inventandomi linee soliste incurante del fatto che avrei potuto disturbare la riuscita del pezzo. Voglio dire, la responsabilità di suonare nei Beatles non è da prendere sotto gamba. Comunque me la stavo cavando bene e la cosa mi prendeva. Paul era molto giovane e muoveva la testa cantando secondo quel suo vezzo un po’ beat, con la frangetta che salta in quel modo yèyè che siamo abituati a vedere nei loro filmati degli esordi.

Ho collegato così quella jam session onirica con una raccolta che faceva mio papà quando ero ragazzo, sapete quelle uscite a fascicoli settimanali che poi alla fine dovevi portare in legatoria per farle assemblare come veri e propri volumi. Mio padre aveva questa mania delle raccolte e non se ne perdeva una. Dalle enciclopedie vere e proprie alla storia universale e le religioni del mondo, una modalità compulsiva e acritica di accumulo privato del sapere, incurante o ignaro dell’esistenza di biblioteche e dell’accesso a consultazioni gratuite e pubbliche. C’era in edicola questa grande storia del rock, e la cosa interessante, consultando la programmazione delle uscite, era la pubblicazione di dischi in aggiunta alle dispense. Il piano prevedeva alcune teste di serie, come Beatles e Rolling Stones, e poi una pletora di cantanti e gruppi mai sentiti e ai tempi non capivo che cosa c’entrassero con la storia del rock. Ma ero ingenuo e non sapevo nulla di diritti musicali e copyright. Ma anche per le band più blasonate, come i Beatles, mica c’erano le canzoni più famose, bensì solo pessime registrazioni live di concerti vecchi come il cucco, con scalette sconosciute e brani poverelli. Per la maggior parte pezzi e cover di rock’n’roll fine anni 50. Che delusione. Malgrado sin dalle prime uscite la fregatura fosse evidente, mio papà andò fino in fondo completando l’intera serie. Inutile dire che non credo di aver mai ascoltato nemmeno uno di quei dischi. Chissà, forse tra i solchi dell’uscita dedicata al quartetto di Liverpool c’è proprio quel brano inedito che ho sognato stanotte, e alla cui composizione ho contribuito anch’io.

Il sogno però poi si è evoluto nel modo surreale e consueto con cui la testa si libera delle tossine della nostra vita e cerca di compensare, in quella fase di incoscienza notturna, tutto ciò che ragione e autocontrollo filtrano con la loro rigidità. Il manico del basso Fender che suonavo – ecco, nel sogno non c’era nemmeno il prestigioso basso a mandolino – a un certo punto non era più un basso ma era la gamba di mia figlia, e io ho cominciato a farle una specie di massaggio come se fossi un panettiere che lavora la pasta e lei era molto divertita, così l’unica occasione di far parte dei Beatles si è trasformata in una sessione di gioco. Io le facevo il solletico tenendola per i piedi e lei mi diceva di continuare e di smetterla allo stesso tempo, come fa sempre, ridendo fino a quando deve correre in bagno.

ciao mamma guarda come mi ricordo

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A vederli cosi un po’ vecchi e malandati non diresti che hanno contribuito non solo allo sviluppo economico del paese ma anche alla nostra emancipazione personale. Sono stati la matrice di quella parte rimanente, che curiosamente si chiama proprio figlia, e che è la nostra vita che poi qualche sconosciuto ha strappato proprio come un biglietto del cinema. L’ingresso per uno spettacolo per il quale siamo stati scritturati, nostro malgrado, nella parte di protagonisti pur essendo, parlo per me, dei cani a recitare. Un sistema comunque ampiamente rodato e che rientra nella fortuna di aver avuto genitori produttivi, gente che ha lavorato insomma, non disoccupati o lazzaroni o appartenenti a quella categoria che con il loro modo diversamente collaborativo di intendere il sostentamento della propria famiglia hanno guastato o influito negativamente sulla vita dei figli. Soprattutto le nostre madri, su di loro va una seria riflessione. Noi eravamo in tre e, malgrado ciò, mia mamma ha lavorato tutta la vita. Si è smazzata tutta la cura per tre figli in tempi in cui i padri ancora erano autorizzati dalla società a limitare il proprio apporto educativo a spezzarsi la schiena per farli studiare. Uno scopo encomiabile che però oggi non sarebbe più sufficiente, considerando le complessità che sono subentrate. Mi riferisco al fatto che la nostra generazione è stata lasciata un po’ allo sbando ma perché era considerato giusto lasciare che i bambini crescessero più in fretta e diventassero indipendenti il prima possibile. Oggi bisogna essere almeno in due. Mia mamma quindi, oltre all’impiego a tempo pieno, gestiva il menage famigliare, la scuola, i pasti, la cura domestica, la spesa e tutti gli imprevisti del quotidiano. Non so davvero come ci siano riuscite, lei e tutte le madri di allora. Il rischio era quello di non riuscire a badare a tutto, a essere costantemente sul pezzo, a commettere piccole dimenticanze. Per non fumare in ufficio, per esempio, lasciava il pacchetto di Milde Sorte nel cassetto del tavolino in salotto, ed è lì che ho iniziato a fumare già ai tempi delle medie. I figli sanno essere perfidi e poi rigettano la responsabilità sugli adulti, ma non c’è nulla da fare. Mia mamma tornava spesso a casa per la pausa pranzo e, dopo mangiato, seguiva una soap opera di successo che si intitolava Capitol, ve la ricordate? Io rientravo da scuola più o meno alla stessa ora e mi mettevo a vedere la tv con lei ma solo perché Capitol mi faceva cadere automaticamente addormentato, mi sdraiavo sul divano e quella robaccia americana – definivo quel processo di causa/effetto “assoapimento”- costituiva un sottofondo perfetto per la pennichella almeno fino alla sigla finale, con quel sassofono languido che riportava sia me che mia mamma ai nostri rispettivi doveri.

tutti i tuoi sforzi saranno ricompensati con il successo

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Sembra una di quelle frasi che si trovano nei biscotti della fortuna che ti danno al ristorante cinese, vero? Proprio così. Mia figlia ha scartato il biscotto della fortuna e poi ci ha letto questo messaggio che, guarda il caso, capita proprio a fagiolo. Mi stavo giusto augurando che in controtendenza con il destino dei suoi predecessori famigliari mia figlia possa vedersi ripagata del suo impegno che mette nelle cose, che a differenza di suo papà è unito a una discreta attitudine, negli studi come nello sport. A scuola è molto brava, almeno lo è stato fino ad ora, e la sua squadra di pallavolo è seconda in classifica e, come potete immaginare, non so come gestire emotivamente questa cosa. Io non ho mai raggiunto risultati di questo tipo per limiti naturali e per scarsa resa. Avere un ossessivo senso del dovere per portare a termine gli impegni ma senza badare alla qualità di ciò che si ottiene non serve a nulla, o meglio serve solo a far stare buona la coscienza rassicurandole che la nostra parte l’abbiamo fatta mentre chi ti sta accanto ti piglia per un maniaco compulsivo, un segnale che man mano che invecchi sarà sempre peggio. A questo si aggiunge l’approccio di stare sempre da parte per non disturbare, sapete come siamo noi timidi, il che è il migliore alibi per i più spregiudicati per farsi scegliere in caso di bisogno e dare prova al mondo di quanto sono bravi. Che poi non è detto eh, cioè magari se mi avessero chiamato a dimostrare quello di cui sono capace avrei fallito miseramente. Ma non importa davvero. Ora è il tempo di mia figlia e della sua generazione, se non fosse che anche lei ha preso un po’ di questa luce nera che è un po’ la nostra maledizione: quando c’è da elogiare qualcuno chi prende le decisioni tende a preferire quelli più estroversi. D’altronde, chi ha voglia di cercare le cose di valore in profondità? Non c’è tempo e il risultato – per loro – è lo stesso. Ecco, bimba mia. Io voglio fare qualsiasi cosa, questa volta, affinché tutti i tuoi sforzi siano ricompensati con il successo, e il successo non è certo soldi e fama, chissenefrega, ma quella sorta di applicazione di una giurisprudenza di fantasia, quella a cui ci rivolgiamo quando ci sentiamo delusi. Che tanto non esiste e, quindi, non ci costa nulla. Al massimo, un piatto d’asporto al ristorante cinese, giusto per avere un biscotto della fortuna in omaggio.

c’è chi si porta la casa sulle spalle, c’è chi si porta la propria storia addosso

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C’è anche un’altra conseguenza del trascorrere la maggior parte del nostro tempo su Internet. Poter zampettare con la massima semplicità da una parte all’altra della conoscenza del genere umano ci appesantisce del fardello dell’illusoria simultaneità degli eventi, si perde un po’ la dimensione storica del tutto e si finisce per supporre che tonnellate di informazioni a disposizione sono comunque facili da portarsi appresso sempre e comunque, tanto non pesano nulla. Una distorsione della realtà, se pensate che vivere poi, una volta poi scollegata poi la nostra macchina del tempo, muovendoci tra cose e persone con la consapevolezza del passato che vive costantemente annesso al presente è oltremodo faticoso. Ma forse è sempre stato così, semplicemente il modo in cui oggi percepiamo questa sensazione è al netto di sovrastrutture che prima una cultura – passatemi il termine – più sequenziale ci imponeva consentendoci però di invecchiare “spalmati” di una crema a protezione un milione contro i pericolosi raggi ultravioleNti della consapevolezza. Quella che oggi brucia al calore della modernità e che ci espone a tutta una serie di pericoli per il modo troppo elaborato con cui passiamo in rassegna le nostre reazioni interne a quello che ci preoccupa di più.

Non so voi, ma non ho capito un cazzo nemmeno io di ciò che ho scritto. Solo che avere un padre sofferente e, al contempo, essere un padre felice mi fa sentire come quegli ambulanti che – non so se li avete mai visti in spiaggia – che si portano sulle spalle tutta un’impalcatura che sembra un vero negozio, avanti e indietro per chilometri di costa gremita di gente in ferie. Ecco, immaginatemi così, con un ingombro fortunatamente solo emotivo, che non è una fatica fisica anche se talvolta mi sento una palla medica all’altezza dello sterno, e io che mi muovo – complice il cambio di stagione in meglio – con gli occhi costantemente inumiditi, un repertorio di musiche ad alto tasso di sconvolgimento interiore, pronto a cogliere segnali di empatia con la natura circostante: il vento, il profumo dell’erba tagliata, il passaggio tra la penombra e la luce della primavera. Eccolo qui, il peso da portare sulle spalle come uno zaino che se non ci stai attento ti rovina la spina dorsale. Che vi devo dire. Non c’è cura, non c’è rimedio, non si può rimandare nulla.

prove pratiche di distacco, fase uno eseguita con successo

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Se non fosse un atteggiamento totalmente fuori luogo avrei aspettato una manciata di secondi e poi le avrei seguite, ma a favore dell’età adulta gioca la forza di volontà e l’abilità nello sfoggiare le convenzioni che sono universalmente condivise tra le persone più o meno normali. Quindi non si fa. Non sta bene  e non ci avrei fatto per niente una bella figura. Così ho cercato di darmi un contegno e ho aspettato a casa, con un libro in mano abbastanza coinvolgente, che mia figlia rientrasse. Già. Il primo marzo sarà ricordato per una serie di avvenimenti che vanno dall’ok all’invasione russa in Ucraina alla prima volta un cui mia figlia è uscita da sola. Da sola nel senso senza papà e mamma ma con un’amichetta. Ieri mattina è passata a prenderla la sua compagna di classe che vive a un isolato qui, che ha dieci anni come lei, e insieme sono andate in biblioteca e dopo a comprare il pane. So per certo che entrambe hanno atteso questo battesimo dell’indipendenza con un entusiasmo e un’eccitazione così anomala per un adulto che, davvero, già solo l’attesa e i preparativi per il primo passo verso l’emancipazione (stiamo calmi, però, eh) mi hanno rimesso in pace con il mondo. Che tutto sommato da qualche parte ci dev’essere una meraviglia nelle piccole cose che le fanno sembrare grandi, ma è una specie di bonus che poi si esaurisce come l’elasticità del corpo, l’energia per la quale i ragazzini non stanno mai fermi e quella memoria che ti fa rimanere tutto solidamente appiccicato da lì a tutta la vita dopo. Così sono uscite. E non è stata certo la forte pioggia che c’era qui a dissuaderle dall’obiettivo. Le abbiamo riempito la coscienza di suggerimenti, che chissà se ci ascoltavano o se erano già sulla via della loro avventura con lo zainetto impermeabile sulle spalle, l’ombrello e gli stivali di gomma. E lo so, siete tutti lì con la mano alzata pronti a commentare che voi a sei anni giocavate in strada, a otto facevate la spesa per i nonni, a dieci ve la cavavate da soli in piscina, e che vi devo dire. Io la penso tale e quale a voi, ma poi mi guardo intorno e boh. C’è da stare sereni? Tanto che davvero, sono stato lì lì per gettarmi al loro inseguimento, di nascosto. Ma poi così chi vive più. Ed è in quell’istante che mi sono anche chiesto quando si è manifestata la prima volta nell’evoluzione del genere umano in cui per dei genitori è stato chiaro che i loro figli non sarebbero stati a loro volta dei genitori, ma che sarebbero sempre stati dei figli. Si è inceppato un meccanismo di trasmissione di consegne o sono solo io che mi preoccupo troppo? Comunque, per farla breve, se la sono sbrigata in fretta, le ragazze. Il maltempo non le ha spinte a godersi appieno quella prima libertà. Hanno restituito i libri in biblioteca, ne hanno scelti un paio di nuovi, poi qualche francesina dal panettiere, che se non lo compriamo al sabato il pane fresco finisce che non lo mangiamo mai, e poi a casa. Tre quarti d’ora in tutto ma un’esperienza di tutto rispetto, da raccontare lunedì in classe, da mettere un paio di asterischi sul calendario alla data del primo marzo.