finale senza sorpresa

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La storia individuale non è materia d’insegnamento, nemmeno comparata a quelle altrui come certe letterature all’università. E sarebbe un peccato, se i destinatari di tali lezioni non fossero già impegnati a frequentare e prendere appunti sulle proprie vite e mancasse quindi lo spazio minimo indispensabile per applicarsi almeno un po’. A volte ci si sorprende per quanto abbiamo già vissuto e non solo a un colpo d’occhio voltandoci un secondo indietro, ma anche quando ci soffermiamo su certi piccoli dettagli che ritroviamo per caso come biglietti da visita malconci nelle pieghe più remote della nostra esistenza che inizia a essere un po’ stropicciata perché talmente grande che quasi nel suo contenitore non ci sta più e bisogna trovare qualche espediente per chiudere la cerniera, come nelle valigie delle vacanze. Dev’essere per questa enciclopedia tutt’altro che tascabile che ci portiamo appresso che i figli ci vedono così poco interessanti, figuriamo poi oggi, ai tempi del sapere condiviso sulla rete. Una metafora che calza a pennello, questa. Superare le complessità cercando nell’Internet consente di accedere più velocemente a risultati rispetto a chiedere a quei so-tutto-io dei propri genitori. E malgrado i tentativi di mostrarci autorevoli portatori sani di esperienza difficilmente riusciamo a vincere la consapevole diffidenza di cui ci si bea stando dall’altra parte della barricata adolescenziale. Così mi viene da pensare allo spreco di disporre di questo bagaglio di piccole cose quotidiane di cui non frega un cazzo ai tuoi ragazzi perché tanto hanno o stanno per avere la versione aggiornata. Giustamente, per carità. Per la prima volta nell’evoluzione del genere umano ci sentiamo chissà perché protagonisti insostituibili di un capitolo importante della storia universale. Sarà che tutti insieme abbiamo bruciato le tappe portando lo sviluppo avanti di un secolo in soli vent’anni – almeno così dicono – o forse, in questa fase occidentale di pace relativa in libertà assoluta, ci è stato concesso troppo tempo per auto-riferirci e ora abbiamo scoperto che, di noi, non se ne può fare a meno. Ed è più questo approccio a non mollare il nostro posto nel mondo a togliere spazio ai più piccoli e ai più giovani. Quello di non invecchiare come dovremmo, in realtà, costituirà un ostacolo per la nostra specie, o almeno ci complicherà la cose tra qualche decennio. Sono davvero curioso di scoprire come ci racconteremo tutto questo insuperabile equivoco, a giochi fatti.

la sintesi è che italo va a trecento all’ora ma noi no

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I più sensibili accusano conati che li piegano in due se parli di deiezioni e non solo all’ora di pranzo, come biasimarli. A me ha svegliato la puzza di quella cosa lì che non nomino, perché la mia mente che lavora sodo anche quando dormo ha avvertito un odore che la norma o l’abitudine, se preferite, non vuole all’interno della gamma prevista dal contesto.

Avete capito, no? Quando vi cimentate a trova l’intruso nei giochi enigmistici c’è quel particolare che la vostra acutezza coglie e vi accende l’intelletto, come il celebre riflesso di Profondo Rosso con la faccia della madre che non c’entra nel quadro. Io dormivo ma ho sentito il tanfo e qualcosa mi ha detto che nella carrozza Smart di Italo da Roma a Milano quel tipo di odore, pur familiare ma non per questo amichevole, non doveva stare lì. Ho notato, appena aperti gli occhi, quattro inequivocabili strascichi organici, diciamo così, con tanto di tracce di collegamento tra l’uno e l’altro proprio lì accanto a me. L’istinto è stato quello di disintegrare con lo sguardo la coppia che occupava i sedili dietro al mio, proprietari di un cane di grossa taglia, ricevendo di rimando un cenno esplicativo, come a dire che la composizione di quelli scarichi accidentali sul corridoio tra le due file di posti non poteva essere ricondotta all’espulsione della parte terminale di un intestino crasso canino.

È così comparso sulla scena del delitto un uomo che ha trascinato oltre le porte a chiusura automatica che dividono le carrozze un altro residuo, quello di una conversazione in un dialetto campano strettissimo – quelli riconducibili a fatica alla nazionalità italiana – e che munito di scottex e salviette profumate tentava di salvare una situazione imbarazzante. L’anziana signora in viaggio con lui non era riuscita a raggiungere in tempo utile la toilette e, insomma, avete capito che cosa è successo proprio a fianco del sedile su cui stavo sonnecchiando.

Ora, non mi soffermo sullo scempio che la natura fa del nostro corpo con l’età, tema su cui sto preparando un vero e proprio compendio sulla base delle mie esperienze personali più recenti. E sono certo che una persona non smarrisca la sua dignità allo stesso modo in cui viene meno il controllo sui suoi organi che la mettono in contatto con l’esterno, anche se son cose che succedono. Una perdita, diciamo così, non va certo a inficiare una vita trascorsa a sgobbare, tirare su figli, creare futuro per altri, assicurare il sostentamento e la sopravvivenza per un nucleo famigliare.

Ho solo sovrapposto questo impasse con la storia della zia Maria, che, molti anni prima, aveva pregato il capotreno di ritardare di qualche minuto la partenza a Roma Termini perché lei, diretta verso sud, voleva abbracciare almeno per qualche secondo suo figlio che era diretto a nord ma il treno che faceva scalo lì a metà percorso non si era ancora visto. E i due annunci si erano quasi accavallati, quello che avvisava di affrettarsi per la partenza dell’uno e quello che si scusava per l’arrivo in ritardo dell’altro. Zia Maria era angosciata perché, da quando suo figlio navigava lungo gli oceani, si sentivano solo per telefono, e della notizia che lui aveva fatto scalo Napoli e sarebbe ripartito la sera da Livorno – porto da raggiungere tramite ferrovia – aveva visto il bicchiere mezzo pieno. Stava rientrando in Sicilia e i due convogli sarebbero transitati contemporaneamente a distanza di poche banchine. Il capotreno aveva così accontentato l’anziana zia e nessuno dei viaggiatori si era lamentato, anzi, se ci fosse stato uno di quelli che traggono storie commoventi dal quotidiano per rivenderli ai programmi da prima serata tv ne avrebbe preso spunto gratuitamente e la scena sarebbe stata rifatta fintamente vera con comparse di dubbia capacità prese dalla strada in un programma alla Maria de Filippi.

Se non fosse che questa storia, che è una bella storia, ha però alcuni elementi che la rendono irripetibile. Oggi i passeggeri esasperati dalla qualità dei servizi di cui usufruiscono, trasporto pubblico compreso, unita alla presunzione di rivalsa acquisita grazie all’illusione della democrazia diretta e della psicosi dei complotti, non avrebbero mai accettato uno strappo alla regola così eclatante. La gente in Italia anela alla perfezione tedesca, o meglio, esige puntualità teutonica anche se è la prima a restituire pressapochismo mediterraneo malcelato da eccellenza eno-gastronomica, superiorità pseudo-creativa e altri primati farlocchi, che vediamo solo noi.

Ma la povertà due punto zero di questi tempi muove tutti in un’unica direzione. Tutti verso nord a trovare lavoro, tutti verso sud a tornare ogni tanto a casa. Altre cose sono cambiate, per esempio non ci sono solo più le FFSS, ve le ricordate, no? Oggi c’è anche Italotreno, è tutto più vario ma è anche tutto più complesso.

Così quando l’uomo, forse figlio o nipote di questa signora Maria, quella che non ha saputo trattenere la dissenteria, e non dimentichiamo che tutti noi nati prima che cambiassero le abitudini sui nomi di santi e appartenenti alla sacra famiglia abbiamo avuto almeno una zia o una madre che si chiama Maria – ha fatto del suo meglio per migliorare l’esperienza di viaggio mia e degli altri pagata a caro prezzo, ho pensato a questa nuova società, quella dei cani di grossa taglia che viaggiano in classe Smart su Italotreno e che annusano con sdegno le deiezioni di una zia o mamma Maria qualsiasi che non ha parole per giustificare quello che è successo e che osserva il proprio viso in cima a un corpo che non riesce a controllare più riflesso nel finestrino dopo che un figlio o un nipote che a stento parla l’italiano l’ha ripulita e cambiata nei bagni di Italotreno.

Una società che ha costruito una modernità che è bellissima solo fino a quando c’è qualcosa che la modernità stessa ha portato all’estremo, come l’età, e che comunque non funziona più e fino a quando qualcuno non cercherà un modo per evitare situazioni come queste, anche l’alta velocità di un competitor delle FFSS – e sai quanti ce ne vorrebbero in Italia – verrà percepita come una conquista superflua.

generi sui generis

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Quella volta in cui ci siamo spinti fino a un posto in periferia che però per noi era il margine della città ma dall’altro senso, e solo perché servivano una cosa che chiamavano birra verde che non ricordo nemmeno che cosa fosse, probabilmente una birra corretta con qualche colorante artificiale ed è meglio non pensarci, ecco è stato allora che qualcuno mi ha fatto notare lì di fronte il grande ospedale dei bambini dove c’era già tuo padre che faceva il primario di radiologia. E di certo non sapevo che poi un giorno mi sarei trovato con lui a spruzzare l’anticrittogamico, o verderame come mi piace chiamarlo in onore di una canzone in cui si celebra quello come il colore dei capelli di uno dalle lacrime facili, sui radi filari di una casa con vista mozzafiato sul più celebre dei borghi marinari di levante. Che poi poteva essere un rischio farlo fare a me, che in quanto a goffaggine in ambito bucolico/agreste non mi batte nessuno soprattutto se costretto a lavorare nei pressi di una montagna di compost e di tutta la puzza che esce inutilmente dal recipiente e tutti gli insetti che attira. Ma ce l’eravamo cavata alla grande, e avevamo ripetuto il successo quando, parcheggiando troppo a ridosso di un marciapiede tagliente, era scoppiata la gomma davanti, e mentre tua moglie – mia suocera temporanea – e tua figlia – mia fidanzata temporanea – si erano date da fare per cercare rinforzi più tradizionalmente identificabili come appartenenti al genere maschio aggiusta-tutto, con un cric e due chiavi avevamo smontato la ruota e messo su quella di scorta, tra l’altro mentre faceva buio, i negozi stavano per chiudere, c’erano ancora tante cose da fare e non era detto che in quel vicolo il carro attrezzi sarebbe riuscito a intervenire. E ho trovato ingiusto che, in quel gineceo che era casa tua, ti avessero segregato in un bagno per soli uomini, e il solo uomo eri tu, dove probabilmente ti erano permesse cose da maschio anziano come fare la doccia appena sveglio alle quattro del mattino, lasciare le salviette arrotolate, non preoccuparti dei peli della barba sul ripiano umidiccio del porta-spazzolino. Anche io da poco ho perso il mio papà, poi oggi ho scoperto che anche tu te ne sei andato lo scorso settembre, tu che sei stato un capofamiglia anche se come tutti gli uomini non ti era riconosciuta nessuna autorità. Avevi alcune cose in comune con mio padre, a partire dall’orto e l’amore per la riflessione che coltivare un orto consente. Il rifugiarsi in solitario con quel compromesso di natura controllata, a due passi dalla via di casa dove l’unica complessità risiede nello scegliere gli orari di rientro per evitare la coda. Questa coincidenza di eventi per nulla spontanea, ci sono una decina di mesi tra un lutto e un altro, è puramente una forzatura narrativa, visto che non ci siamo mai più sentiti ma così magari qualcuno che ci conosce entrambi le fa leggere queste due righe e le porta i miei saluti di cordoglio.

carne giovane

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Se a cinquant’anni siete come me che ai concerti odiate tutti perché nessuno capisce quello che succede come lo capite voi, nessuno si merita le vibrazioni della musica più di voi, nessuno va a tempo meglio di voi e nessuno sa mettere etichette così appropriate su cose, persone, animali, situazioni, atteggiamenti, opere e omissioni, ecco io posso farvi risparmiare tutto il tempo dell’introspezione e della ricerca della causa di cotanto disagio e darvi la risposta sul solito piatto d’argento delle generalizzazioni da tanto al mucchio. Volete che vi dica di quale malessere siete afflitti?

La causa del disagio è tutta insita in quella massa di giovinezza che vi saltella e rolla e beve e vi fuma intorno e alla quale non potrete mai più congiungervi per quell’interstizio di tempo che qualcuno ha posto tra voi e loro, e che come uno strato di materia indeformabile si manterrà immutata e costante a sancire per sempre lo stesso divario e a spremervi fuori, soprattutto, tutta l’invidia che condiziona il vostro giudizio. “Invidioso io di quattro sbarbati condannati a essere precari e bamboccioni e a pagarsi concerti di gruppi che dei CCCP non valgono nemmeno lo sporco delle unghie con la paghetta dei nonni?” già vi sento mormorare pregni della vostra indignazione.

Proprio così. Se volete un consiglio, però, e dal momento che siete passati anche voi da quella fase lì che ora vi sta fortemente urtando perché voci post-adolescenziali ubriache di alcolici di qualità discutibile stanno coprendo il cantato del gruppo che – notate bene – è espressione proprio di quella generazione lì e siete voi quelli fuori posto, dovreste saperlo bene, se volete un consiglio, dicevo, ai giovani non piacciono quelli di mezza età che tentano di mescolarsi a loro sia con l’intento diretto di empatizzare che con l’intento finto di criticarli, che nasconde però l’intenzione di suscitare comunque la gratitudine per aver steso un ponte culturale tra i CCCP e Lo stato sociale.

Per cui anche se morite dalla voglia di essere accettati da quei giovani sia che siano figli, nipoti, amici dei figli o dei nipoti, alunni, vicini di casa o incontri occasionali sui mezzi pubblici, siete a rischio di essere smascherati e fare una pessima figura da supergiovani nel migliore dei casi, da pedofili nel peggiore.

Quindi sentitevi pure liberi di comportarvi come me. Osservateli e basta, possibilmente senza farvene accorgere e passare per guardoni. Osservate la carne perché è poi quello che vi induce a comportarvi cosi, la carne che così ve la potete scordare, insieme ai tatuaggi e ai buchi, alle zazzere multicolore e cappellini, alle borse e alla bigiotteria, alle marche di tabacco sfuso che costa di meno del condensato, ai modelli di smartphone sguainati verso l’alto a digitalizzare il mondo, ai voli low cost che se li avessimo avuti noi anziché l’Eurolines.

Osservateli quando sono da soli, a piedi o in bici, quando sono in due e in coppia e si baciano, quando sono in tre a passarsi una bottiglia di vino da supermercato, in quattro a prendere il sole in orari nei quali la società li vorrebbe produttivi, in cinque a riempire l’auto di papà per partire verso le spiagge della Puglia, in sei al parco a fumare erba, in sette a occupare un tavolo della biblioteca e preparare l’ultimo esame di un corso di laurea triennale che nessuno del vecchio ordinamento ha mai bene capito cos’è.

Osservate le schiene nude delle ragazze, i tricipiti da palestra dei maschi, le spine dorsali fiaccate da computer portatili, le dita agili su dispositivi touch, i bacini e le anche compromesse da calzature inadeguate e indossate erroneamente, la cellulite a quindici anni.

Spiateli pure, annotate su blog come questi i loro movimenti, segnatevi gli argomenti di discussione, seguite le loro gesta sui social network, scrivete libri e racconti. Se avete giovani d’oggi in casa perché li avete prodotti in tempi non sospetti, quando ancora potevate aspirare a una somiglianza con voi, o se avete la fortuna di averli come componente fondamentale del vostro lavoro perché siete insegnanti, educatori o animatori, vi prego studiateli come una specie protetta, come nuove entità predestinate a occupare gli spazi che i nostri antenati hanno lasciato a noi per ben altre necessità. Guardateli da lontano senza intromettervi, e che sia quella la nostra unica passione, la carne dei ragazzi che così viva noi non l’avremo mai più, la testa dei ragazzi che proprio, a una certa età, chi la capisce è bravo.

sui tuoi passi

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Prima camminavo lungo una strada mai vista di Milano e ho fatto finta che ci fosse mio papà al mio fianco ma ho smesso subito. Mi sono detto che anche io sono un papà e non è giusto avere comportamenti che possono disorientare i propri figli. Ovvio che mia figlia non era con me, ma se volete essere coerenti a qualcosa o qualcuno è bene far sempre finta di avere una webcam puntata contro come si fa da ragazzini nella cameretta a interpretare canzoni romantiche come le star del pop fingendo che qualcuno ci stia osservando. Poi ho trovato un punto di riferimento geografico, prima che emotivo. Ho riconosciuto la via dove abita quel mio amico – fino ai 18 anni siamo praticamente cresciuti insieme – che quando sono andato a trovarlo dopo che si era trasferito lì mi aveva portato all’ingresso dell’agenzia di modelle di fronte al suo garage per farmi stupire delle bellezze in transito. Eravamo rimasti lì per più di un quarto d’ora ma non è passato proprio nessuno. Così ho ritrovato facilmente la grande emme rossa della metropolitana, sotto la quale un uomo vestito con i colori e i tessuti dei manager in estate si lamentava con un collega molto simile di un report lasciato inavvertitamente sulla scrivania. Prima di scendere sotto terra ho pensato che qualcuno avesse appena perso il lavoro per una inadempienza causata da una distrazione da stress, come quando mandi un’e-mail a qualcuno a cui non dovresti. Ho collegato queste piccole cose e mi è venuto da dire “il mio papà” a voce alta, tanto non c’era nessuno sulle scale mobili, solo per vedere l’effetto che faceva, e mi sono sentito come se qualcuno mi avesse guidato a destinazione.

tutti in quella direzione

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Con lei ho sempre parlato chiaro: va bene qualsiasi cosa basta che non mi diventi metallara o grillista. Così ho scelto il male minore e l’ho accompagnata a sentire gli One Direction ma da fuori, davanti all’ingresso di San Siro. I biglietti da settordicimillanta euro per fortuna sono andati esauriti nel giro di pochi minuti il primo giorno in cui sono stati resi disponibili grazie ad altrettanti zelanti genitori di ragazzine di terza media fresche di esame a godersi il premio del meritato diploma. Ci troviamo così tra centinaia di poveracci come noi rimasti fuori. Gente che non avrebbe comunque avuto i soldi per un investimento pop di quel calibro in mezzo a altre centinaia di “dad directions” e “mum directions” in attesa delle figlie entrate per la prima volta da sole in quel tempio della pubertà agli sgoccioli e con svariati gruppetti di “fan directions” escluse non si sa come, a fare la spola tra un varco e quello dopo nella speranza di trovare qualche addetto alla sicurezza caritatevole e propenso a regalare un sogno a qualcuno più meritevole di tutti gli altri. Che ingenuità.

Come da copione molte ragazze scoppiano in lacrime ad ogni inizio di canzone, d’altronde ogni canzone degli 1D è giustamente una hit che ha anche simili poteri. Scene che con tutte le loro sfumature generazionali si sono già viste nella storia con Elvis, poi con i Beatles, poi mi vengono in mente i Duran Duran e qualche altra boy band più recente. E anche la frustrazione di essere privato di un evento di quel tipo, una celebrazione di massa del tuo oggetto di culto, possiamo dire che non ha età, non conosce mode né generazioni. E infatti quando mi rendo conto dell’errore che ho commesso penso di auto-esonerarmi dal ruolo di padre. A me non sarebbe mai venuto in mente di andare a un concerto di Bowie fuori da uno stadio solo per sentire male i pezzi, coperti da decine di migliaia di omologhe dei directioner urlanti. Non mi sarebbe mai balenato nell’anticamera del cervello e so che avrei dovuto fare lo sforzo di dissuadere mia figlia da un’idea così malsana e frustrante come mi è già capitato migliaia di volte di fare per le Barbie nelle versione extra lusso con il cavallo, per il noleggio del pedalò sui canali di Amsterdam con temperature prossime allo zero, per rimandare l’acquisto dello smartphone, per non regalare a una sconosciuta la bambola di pezza dell’equo e solidale a cui sono – io, non mia figlia – così legato.

Ma i ragazzini non si fanno tutte queste sovrastrutture mentali, a loro è sufficiente l’eccezionalità della cosa in sé: essere ai piedi di una costruzione gigantesca come uno stadio di calcio dentro al quale si sta esibendo il loro gruppo pop del momento e di cui percepiscono una riproduzione piuttosto fedele a quella che sono abituati a veder passare su MTV. Il resto sono solo nostre proiezioni. Di lì a poco passa un padre visibilmente nel panico, schiaccia ripetutamente un pallone da calcio mentre chiama a voce alta il nome del figlio, deve averlo perso tra la folla di persone che, mentre la fine del concerto si avvicina, comincia ad accalcarsi nei pressi dello stadio. Un addetto alla sicurezza gli corre incontro e lo avvisa che il bambino è al sicuro nelle mani della polizia. Padre e figlio si ricongiungono con un abbraccio proprio mentre quattro ragazze conciate da supereroe, come citazione di non so quale video, spostano l’attenzione mia e degli altri.

Quindi si consuma il vero dramma: noto un sacco di spettatrici che escono prima che l’ultimo pezzo sia terminato, che per me costituisce un affronto inconcepibile. Come è possibile allontanarsi prima del termine, quando il gruppo suona ancora, senza contare che l’ultimo pezzo, anche se il gruppo si chiama One Direction, è quasi sempre il clou del live, l’acme della serata, la sublimazione, l’atto che consegna quell’esperienza nell’iperuranio dei ricordi di tutta una vita? Che delusione. Che razza di gente è questa che se ne va prima della fine? Che cosa hanno capito della musica e dello spirito di un concerto dal vivo?

v per visto che stempiatura?

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Gli uomini di una volta si dividevano in poche macro-categorie a seconda dell’attaccatura dei capelli, prima che l’acconciatura divenisse un vezzo anche per il genere maschile e si diffondessero i crani rasati, i ciuffi, le creste o i codini. Sono sempre stato affascinato dall’attaccatura a V, che non era necessariamente sinonimo di stempiatura. Nella cinematografia del neorealismo italiano, o se vi mettete a cercare nei vostri archivi qualche foto di nonni e bisnonni nel secondo dopoguerra o giù di lì, vi imbattere nelle pettinature brillantinate all’indietro a mettere in risalto questa forma aerodinamica del confine tra fronte e cuoio capelluto, molto più eleganti di quei tagli che sembrano fatti con l’accetta, paralleli alle classiche righe/rughe delle espressioni di stupore. Questo mio orientamento deriva dal fatto che mio papà rientrava in questa macro-categoria a V, almeno finché ha avuto i capelli neri e folti. Me lo ricordo visto dall’alto della finestra della scuola, in prima o seconda elementare, mentre attendeva l’uscita e la maestra che mi invitava con lei, in punta di piedi su una sedia, a vedere sotto per salutarlo da lì. Un’altra volta mia nonna mi aveva sottoposto una pagina di un quotidiano con una foto di uomo a V e mi ero entusiasmato del fatto che mio padre potesse essere sul giornale. E infatti non si trattava di lui, mia nonna voleva solo farmi vedere Sandro Mazzola che io avevo scambiato per papà. Probabilmente si trattava di un momento in cui mi ero appassionato all’Inter, chissà, o forse anche nonna aveva ravvisato una somiglianza tra i due. L’attaccatura dei capelli a V l’ho ritrovata poi in qualche pop star, il cantante degli Heaven 17 per esempio ma se non ricordo male anche in David Bowie. Io no, probabilmente ho preso da mia mamma. O, meglio, la forma a V un po’ è sopraggiunta, ma in questo caso non parlerei di evoluzione genetica quanto di stempiatura da caduta di capelli, per un banale avanzare dell’età.

alla fine c’è stata solo una gran confusione, averlo saputo prima avrei preparato una scaletta decorosa

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Come fare coesistere l’indie rock con le tragedie famigliari e l’ipertensione? Come conciliare una pagella piena di dieci di tua figlia con un lutto imminente e l’attesa di un vinile degli Offlaga ordinato su Amazon e in consegna da Bartolini? Come mescolare i rapporti sui social network con l’editing di un profilo aziendale che devi consegnare entro sera e lo stato d’animo di un’era della propria vita che volge al termine? Vagare all’ipercoop con la propria famiglia mentre il destino di tuo padre si consuma a km di distanza e gli Interpol annunciano il loro album? Come rimuginare sul miglior modo di porre delle domande alla traduttrice di Franzen alla cui conferenza non vedi l’ora di presenziare domani sera mentre tua madre ti avvisa che il respiro rallenta e c’è anche sciopero dei benzinai. Viviamo, e moriamo anche, in un sistema imprevedibile che davvero se non esistesse bisognerebbe inventarlo. Così stasera ho ascoltato tutto Moon Safari degli Air prima che mi avvertissero che era questione di ore, pensate un po’. Un disco così che legherò per sempre con gli ultimi istanti della mia vita da figlio. E la notizia, la più triste, mi ha colto in macchina nei pressi di Novi Ligure, con la radio accesa per non cadere in colpi di sonno che trasmetteva You oughta know di Alanis Morrisette. Fare conciliare certe cose non è che impossibile, è così e non ci si può fare nulla. La morte è una componente della vita, come il dolore e i dolci e le canzonette e le agitazioni sindacali inappropriate. Per questo tutto esiste in un mucchio dove tiriamo fuori cose a caso e non credo uno debba vergognarsene. L’ultima domanda che ho fatto a mio papà è stata chiedergli perché a persone come noi cresce dentro questa passione per la musica. Da dove viene? E perché supera persino la smania di finire un libro, il passare notti insonni per non perdere l’ultima puntata della nostra fiction preferita, scrivere di cose come questa su un blog, trascorrere le serate con amanti ben disposte, fare code per un panzerotto famoso in tutto il mondo? Non gli ho fatto tutte queste metafore perché era già bello confuso, ma il senso l’ha capito perché nel suo filo logico intermittente mi ha parlato proprio di toccate e fughe e sarabande, mentre certe partiture moderne proprio non fanno breccia nel nostro sentire. Non lo so, sono sempre stato troppo cazzone per imparare la musica classica ed è per questo che avrei voluto dirgli che mi dispiace non aver imparato a suonare il piano e l’organo da chiesa come voleva lui. Ma so anche che quando vorrò rivederlo mi basterà guardarmi allo specchio.

cose che ti lasciano allo scoperto

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E proprio oggi mi è venuto in mente che ho iniziato a preoccuparmi per il fatto che mio papà potesse invecchiare, ammalarsi e mancare quando facevo le medie, e mio padre quindi aveva la mia età di adesso o poco più. Si tratta di un comportamento comune nei ragazzi, lo so perché anche mia figlia condivide spesso con mia moglie e me le paure sulla nostra morte. Probabilmente il panico di veder svanire un sistema che, in condizioni normali, nella vita non raggiungerà mai un equivalente livello di perfezione (pensateci un po’: né bambini, né ragazzi, con genitori ancora giovani, a godersi tutti i benefici di questo equilibrio) ci getta nell’angoscia che la possibilità di perdere tutto non è comunque da escludersi. Poi, crescendo, il punto di origine della linea che rappresenta le priorità individuali si sposta sempre più verso il quadrante più distante da quello della famiglia, e l’ansia per i genitori torna molto dopo, in situazioni come un padre o una madre alla fine dei loro giorni, l’ingiustizia per cui alle persone a cui dobbiamo tutto o quasi viene sottratta ogni dignità di essere umano, e un pizzico di proiezione di quello che ci riserva il futuro. I gradi di separazione con la morte stanno per ridursi all’osso, e comunque stiamo sempre parlando del migliore dei casi contemplato dal naturale andamento delle cose. Quando è stato il turno dei nonni c’era ancora un insormontabile divario occupato da chi ci ha messo al mondo. Caduto anche questo baluardo, camminiamo vulnerabili su quella linea di confine che boh, quante cazzate che sto scrivendo. Perché tutto questo auto-riferirsi toglie spazio davvero al futuro, e se avete dei figli capite bene a cosa mi riferisco. Il mio impegno, e voi siete miei testimoni, è togliere d’ora in poi tutta questa importanza a delle paure che quando sarà il momento non ci saranno più per forza di cose, e seguire invece l’altro versante la cui vista si gode da quassù, tutto quel fiorire di vite, speranze, gioie, emozioni, voci e fanciullezza, piccoli che crescono, scuole da scegliere, espressioni da risolvere, successi e disillusioni tipiche dell’età dei nostri bambini, che altrimenti davvero si corre il rischio di perdere, senza possibilità di ritorno.

come interpretare quelle sopracciglia arcuate

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Alla fine, dopo trentasei ore di veglia e dormiveglia ma anche un po’ di dormi-e-basta, io e mia mamma ci siamo concessi una tregua. Assistere il papà in questa – a detta dei medici – fase terminale è un’attività che per la sua temporanea stazionarietà genera assuefazione. Il respiro in un ritmico su e giù della cassa toracica a protezione di un cuore forte, la bocca spalancata nella maschera dell’ossigeno a rubare tutta la vita che c’è lì dentro, il tutto nella cornice di uno stato di totale assenza, un sonno profondo, un qualcosa che anche se non l’ho mai visto – per fortuna – non stenterei a definire coma. Dopo un giorno intero, quindi, speso nell’intento di captare anche un minimo segnale di cambiamento che non si sa mai se sia meglio auspicarlo o meno, in questo loop straziante del respiro che, paradossalmente, ha un ritmo con gli altri rumori dell’ospedale e dei suoi macchinari che arrivano dal corridoio, un respiro almeno due volte e mezza più veloce del mio, ci siamo arresi all’auto-conservazione. Una persona fidata ci sostituisce per la seconda notte e io mi avvio a consumare il primo pasto completo da quando siamo lì. Davanti a un paio di porzioni di un ghiotto piatto locale, che non mangiavo da anni, mia mamma ed io siamo persino riusciti ad avere un po’ di ristoro emotivo. Abbiamo persino riso quando lei mi ha fatto notare che mio papà morirà senza aver capito che lavoro faccio. Addirittura mi sono steso sul divano a casa loro, dopo cena, approfittando dell’abbonamento a Sky per seguire la partita che poi non era nemmeno su Sky. Mi sono però addormentato in quel lungo spettacolo dell’attesa televisiva, quella in cui si spremono tutti i contenuti per tenere il più a lungo gli spettatori sullo stesso canale e aumentare così il valore pubblicitario. Mi sono svegliato che i giochi erano fatti e la nazionale italiana dava il meglio per difendere il risultato. Ed è stata una fortuna, perché i miei tempi di sopportazione di un incontro di calcio non superano i venti minuti. Questa mattina presto, poi, siamo tornati da lui ed era ancora così, con la stessa espressione che sembra più esausta che rassegnata. All’inizio ci trovavo dello spavento, magari la paura dell’ignoto. Poi però mi sono convinto che sia un severo monito a non perdere mai un’occasione per dirsi le cose.