l’eredità

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Tra genitori e figli il passaggio dei beni in caso di decesso è un fattore delicato, non tanto per il processo in sé che è regolamentato dal diritto e infatti non mi riferivo ai cosiddetti patrimoni, quanto ai piccoli o grandi oggetti del quotidiano che viene da tenere con sé come ricordo di un padre o una madre. Le cose che stavano tanto a cuore a loro e che ci portiamo nelle nostre case con la speranza che da sole, pur nella loro immobilità, possano costituire un efficace surrogato di una persona che non c’è più. Ho parlato di speranza, ma temo si tratti più di un’illusione. Mio papà, per esempio, era un cultore di musica organistica, per lo più sacra. Ha una collezione di dischi e cd raccolti nel corso di una vita che non vi sto a descrivere. Una decina di scaffali che traboccano di musica. Ma, come molti e come me, aveva le sue preferenze e verso la fine della sua vita ascoltava pochissime cose selezionate, soprattutto la Toccata dalla Quinta Sinfonia per organo op. 42 #1 di Charles-Marie Widor. Non c’era volta in cui, nel corso delle mie visite, non mi chiedesse di ascoltare una delle numerose esecuzioni di quel brano in suo possesso e anche quando l’Alzheimer si era già portato via una parte considerevole della sua testa e del suo corpo, comunque reagiva con interesse all’incisivo attacco di quel celebre pezzo. Ho chiesto così a mia mamma il permesso di portare a casa con me il suo disco preferito, per lo più un gesto simbolico, considerando che con i sistemi che esistono ora di procurarsi contenuti musicali o anche solo l’ascolto in rete tra Spotify e Youtube ogni problema di disponibilità è ampiamente superato. Non ho ancora capito però il motivo per cui la Toccata di Widor a casa mia suona differentemente anche dal vecchio disco che era di mio papà. Ho provato a pulire accuratamente il vinile, a controllare la testina, a bilanciare diversamente l’equalizzazione, eppure il risultato non cambia. C’è una specie di patina che attutisce il timbro e grava sulle note facendole depositare da qualche parte del cuore prima di arrivare al sistema di decodifica che, in condizioni normali, collega direttamente le orecchie al cervello. Ho scoperto così che si tratta di un problema di rimpianti hi-fi, prima che di impianto stereo.

primi dolori

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Tesoro, se mai ti capiterà di leggere queste righe sappi che l’amicizia è un fattore forse più imprevedibile dell’amore perché spesso è a fondo perduto mentre se c’è un legame fisico di mezzo subentrano altre modalità di darsi l’un l’altro. Tu non lo puoi sapere, hai solo undici anni, ma le persone si dichiarano amici al prossimo per i motivi più strampalati, anche solo per l’invidia, per calcoli strumentali all’interno di dinamiche di gruppo in una sorta di atteggiamento kamikaze: sacrifico me stesso e mi sistemo al tuo fianco pur ti metterti i bastoni tra le ruote. Non ci crederai ma ci sono pure tipi così e, se te la devo dire tutta, è proprio quello che ti è capitato. Ci sono individui subdoli e dannosi che rilasciano il loro sentimento corrosivo che ti imbriglia in uno stallo dal quale so benissimo che è difficile tirarsi fuori finché il veleno non ha fatto tutto il suo effetto. Come uno psicofarmaco che induce alla sonnolenza ci si sente incapaci alla reazione e ci si lascia andare inerti nel torpore della comodità relazionale. Sono consapevole del fatto che l’entità dei turbamenti ha tutta una sua proporzionalità distorta a seconda dell’età, e quello che a noi adulti sembra alla portata di un preadolescente può essere in grado di approfittare della tua vulnerabilità anche se si tratta di cose su cui, tempo un paio di anni, farai delle grasse risate insieme ai nuovi coetanei con cui trascorrerai il tuo tempo. Quindi piangi pure se hai scoperto che una che si ostina a definirsi tua amica ti ha spiazzato con l’affronto che hai raccontato a tua madre – giusta complicità femminile – e io ne sono venuto a conoscenza solo di rimando, e qui nota pure una punta di stizza ma è temporanea e assolutamente secondaria alla gravità della cosa. Sei piena di amiche, di compagne di classe e di compagne di squadra che ti stimano, ti rispettano e ti vogliono bene. Puoi tranquillamente permetterti di cancellare una persona inutile dalla rubrica di Whatsapp e dalla tua vita, è molto più facile di quanto sembri anche alla tua età.

scambio bambina di dodici anni con due da sei

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Per scherzo qualcuno ha messo proprio questo annuncio e quando l’ho letto, per un momento, ho approvato l’iniziativa e poi mi sono come al solito vergognato in silenzio e, esaurito il consueto senso di colpa, mi sono fatto una risata. Stavo giusto pensando a come rappresentare in un grafico fattori quali l’engagement reciproco in un rapporto padre-figlia, l’investimento che comporta, l’entusiasmo che si disperde in altri meandri della vita con i cambiamenti dell’età in quei primi quindici/diciotto anni in cui ci si gioca praticamente tutto e, parallelamente, aspetti legati al diventare vecchi, il che non significa necessariamente indebolirsi e essere stanchi e quindi privi delle risorse necessarie a seguire le energie prorompenti di un vita che esplode in mille modi. Senza contare poi il piano su cui si stanno muovendo le giovanissime persone di quelle generazione, tutte touch e whatsup, snickers alte, abbreviazioni, felpe e pessimo rap italiano. Insomma, in questo piano cartesiano dove nell’asse x ci mettiamo gli anni che passano e in quello y un variegato quanto tumultuoso divenire degli eventi in cui basta assentarsi qualche ora per dover rifare tutto daccapo, mi immagino un linea blu – un colore a caso, la mia – in calo, una decrescita infelice dovuta però a fattori assolutamente fisiologici e una rossa a identificare mia figlia che è schizzata verso l’alto con valori record. Con la pre-adolescenza cambia il livello di supporto e di presenza genitoriale ma solo perché diminuiscono le opportunità di contatto tra i due mondi – mamma e papà su uno, prole sull’altro – e i momenti di confronto non è facile decidere come impiegarli. I genitori devono essere costantemente pronti perché si tratta di scambi spesso improvvisi che non sempre riusciamo a programmare, a volte ci si trova sprovveduti e i risultati sono deludenti. Da quello che ho letto tuttavia l’aver posto buone basi relazionali in ottica preventiva dovrebbe costituire una garanzia di credibilità per i tempi futuri, quando cioé il periodo della “stupidera” lascia il posto a personalità mini-adulte più propense al contatto con la famiglia di appartenenza. Insomma non ci dovremmo stupire di trovarci uno/a sconosciuto per casa che tenta di continuo esperimenti di emancipazione psicologica e culturale e di contrapposizione con i propri grandi di riferimento. Mia moglie ed io ci teniamo all’erta, facciamo quadrato in questa che non è certo una guerra ma che comunque ha tutti i caratteri di una sommossa popolare da tenere sotto controllo, fortemente disponibili ad accogliere un nuovo pari tra di noi e speranzosi di ritrovare, un giorno, tutte quelle cose in erba che già sembravano svilupparsi prima dell’avvento di questo tsunami emotivo.

oggi una tavola rotonda sulle istituzioni e su come ci si lava correttamente i denti dopo i pasti

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Il panel oggi è ricco di spunti interessanti, d’altronde queste conferenze in cui sempre più persone anziane, genitori attempati e nonni offrono la loro esperienza a ragazzi, giovani adulti e grandi con poca esperienza sono la migliore occasione per voi, gente con pochi anni sul groppone e continuamente in preda agli struggimenti delle scelte, per non ripetere errori o in generale evitare tutte quelle cazzate su cui noi ci siamo già scornati. Alcuni si sono lamentati del fatto che non utilizziamo Power Point ma queste sono sottigliezze. Quello che abbiamo da dire ce lo abbiamo tutto ben organizzato in testa finché l’Alzheimer non ci sorprenderà, ma è anche un tentativo per disintossicarvi da supporti per la ridondanza delle informazioni. Se vi dico una cosa che bisogno c’è di vederla anche scritta dietro? Cosa siete, idioti? Poi ogni tanto c’è qualcuno di quelli che pensa di sapere già tutto che dà di gomito al vicino perché non usiamo abbastanza termini in inglese, e io vi vorrei rispondere anche solo con l’ultima cosa che mi è successa: un relatore usa correntemente il termine “fallimento” nel senso di “errore” perché è una vita che dice e scrive “fail” quando saprete meglio di me che tra le due parole c’è una bella differenza. L’errore lo recuperi, con il fallimento chiudi le saracinesche e chi s’è visto s’è visto. Ma per il resto vedo tutti i partecipanti a questo ciclo di incontri sui contenuti della vita sempre gremiti di persone umili e attente a segnarsi le cose che suggeriamo. Scegliete questo anziché quello, il mutuo è meglio dell’affitto così non buttate via i soldi, non usate troppo gli auricolari ché poi a cinquant’anni vi viene il ronzio costante nelle orecchie, mettetevi la canottiera, dopo le dodici si dice buonasera, fate così e evitate di fare cosà eccetera eccetera. Sono belle iniziative che hanno la doppia finalità di farci stare tranquilli che il mondo che vi lasciamo sarà gestito da persone più capaci, dall’altra finalmente ci saranno più possibilità che qualcuno prenda l’iniziativa di provare qualche novità – non importa in che campo – ma comunque con quei fondamentali di istruzione, educazione e conoscenza della vita (passatemi il termine) indispensabili per non fare disastri sulle cose più comuni com’era successo nei primi decenni del nuovo secolo, quando per colpa di quelle stupidaggini che si leggevano sull’Internet tutto stava andando a catafascio proprio a causa di qualche post-adolescente sprovveduto.

due mesi a Natale oggi: ecco cosa cambia nell’edizione 2014

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Oggi che mancano precisamente due mesi a Natale posso anticiparvi che per il primo anno non ci sarà nessuna messinscena dell’arrivo di Babbo Natale. Mia figlia, pur con un anno di anticipo, è in prima media e qualcuno dal dicembre scorso deve essersela cantata. C’era già stata qualche avvisaglia perché nei giorni precedenti l’ultima edizione – lo scorso anno – mia figlia aveva interrotto le domande con le quali già da qualche settimana chiedeva spiegazioni su quell’evento incredibile, anche se credo più per colpa di qualche compagno di classe nostalgico delle beate ingenuità dell’infanzia piuttosto che per mettere in riga alcune incongruenze scientifiche, fisiche e macro-economiche. Come fa un solo uomo a raggiungere tutti i bambini del mondo in una notte? Come fa un mezzo di trasporto tipicamente terrestre a volare? Dove li prende i soldi per tutti quei giochi? E forse proprio nel timore della conferma di una teoria amara in fase di maturazione, la cosa era caduta. Quindi… sopresa! Anche quest’anno ci sono i doni sotto l’albero!

Qualche giorno fa invece ne abbiamo parlato con molta serenità, mi detto di sapere ormai da un po’ che facevamo tutto noi, e la mia paura era che potesse rimproverarci di averle fatto credere a storie che non stanno né in cielo né in terra e di averle fatto provare vergogna con coetanei già smaliziati per aver tirato per le lunghe quella tradizione così infantile. Tutt’altro. Intanto ha apprezzato lo sforzo di aver inseguito ogni anno la sua soddisfazione, andando incontro il più possibile ai suoi desideri, aspetto che inoltre ha influito sul ridimensionamento delle richieste per le feste imminenti. Poi ha riconosciuto la magia di quelle attese e la gioia del risveglio con i pacchi colorati sotto l’albero. Devo ammettere che un tale compiacimento – che davvero non mi aspettavo – ha reso meno doloroso il distacco da quello che ormai era un piacere più per i genitori che per lei. Tenere duro fino a notte fonda, posizionare i regali in un allestimento scenografico, far sparire il bicchiere di latte e i biscotti simulandone l’avvenuto consumo, liberare finalmente i gatti rinchiusi appositamente per evitare il loro contatto con l’offerta votiva alimentare, tornare a letto e lì ripetere ancora una volta una conversazione su quante occasioni ci sarebbero state concesse ancora per assaporare quella gioia senza eguali. Ma è sempre così, lo sapete. Anche se si può prevedere, è difficile sapere quando una volta è proprio l’ultima, senza occasione di ritorno.

abituati al dialogo

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E chi lo sa se stanno a sentire oppure no. Sta di fatto che tutti, specialisti, seguaci dell’empirismo, neofiti e gente che non sa fare altro che dare fiato alla bocca pur non sapendo nulla dell’argomento, tutti sostengono che è fondamentale parlare ai figli fin da quando sono nella pancia. Quindi la teoria più comune è di farlo con assiduità soprattutto finché si prestano, perché poi quando gli si accende l’ormone della ribellione rimbalzano ogni tentativo di dialogo a colpi di spallucce. E anche io, nel mio piccolo, ci ho dato dentro. Durante la gestazione era tutto un rivolgermi a lei mentre le si formavano tutte le sue cosine a modo per questo e per quello, convinto che così si abituasse al timbro della voce. Non vi dico poi quando mia figlia ha visto la luce. Loro ti guardano con quegli occhioni sbarrati, rispondono con sillabe e, nel massimo dell’interazione, ti vomitano il latte in macchina che poi l’odore ti rimane per tutta la vita. Ma noi genitori, sentendoci protagonisti di un film dove mamma e papà sono fighi pazzeschi che stanno tirando su un candidato alla casa bianca, facciamo ai neonati tutte le nostre confidenze, li convinciamo a buttare giù le pappine, li abituiamo a partecipare alle decisioni famigliari con il loro silenzio assenso.

Così quando vedete una giovane mamma a testa alta parlare da sola senza auricolare, potete stare tranquilli che sotto sta spingendo un passeggino e dentro c’è un marmocchio che si gode il panorama rasoterra e che a malapena ascolta quella tiritera descrittiva sulle foglie e gli alberi e i cani che passano e il cielo e il vento. Stesso discorso per chi scarrozza i figli in bici sul seggiolino dietro la schiena. Li vedi avanzare tutti intenti in un soliloquio perché con la loro stazza non si vede chi portano sul portapacchi e tu ti illudi che si stiano rivolgendo a te e ti prepari una risposta, un cenno accondiscendente o pensi che siano matti da legare e cambi strada. Io facevo così, montavo in bici e dietro legavo la mia piccola per farle prendere un po’ d’aria finché il tempo lo permetteva. E le parlavo, le parlavo, le parlavo, poi sentivo un colpo in mezzo alla schiena che mi avvisava che la bambina, tutta protetta dal suo casco e assicurata saldamente al sellino, si era arresa alla mia voce monocorde e crollava addormentata. Ci rimanevo un po’ male, che dialogo è se io parlo e tu dormi, e pensavo chissà come sarà quando, come dicevo prima, poi i figli non ti ascoltano più. Ecco, forse ho lavorato bene e mia figlia tutt’ora sembra stare a sentire cosa le dico, o almeno se fa finta, finge bene. Per lo meno non si addormenta più, questa è comunque una conquista.

maskros, nel senso del lampadario Ikea

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Se un giorno, figlia mia, ti verrà il dubbio se tuo papà sia stato inadeguato, poco presente, disattento, troppo severo o, al contrario, poco autorevole, egoriferito e poco propenso all’abnegazione genitoriale, quel giorno ricordati, figlia mia, che tuo padre ha trascorso un’intera mattina di settembre del tuo limitare di gioventù ad attaccare ottantaquattro (otto – quattro) cazzo di fiori di carta su un cazzo di lampadario Ikea che tu hai scelto per la tua cameretta.

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da assumere lontano dai pasti

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Non avevo mai notato la cassa toracica di mio papà così ampia, chissà se c’entra col fatto che era una baritono e per prendere quelle note così gravi ci vuole una risonanza adeguata. Forse è stata solo una conseguenza della sua prolungata degenza terminale, qualche mese sdraiato supino e il corpo schiacciato si adatta così, espandendosi per il largo. Sono passati due mesi dalla sua morte e ogni tanto mi colpiscono ancora piccoli dettagli più che il fatto in sé di aver perso un genitore. Voglio dire, quello è il macro-evento, l’esperienza madre, anzi, padre. Il dramma al quale non sono ancora riuscito a dare una giusta collocazione. Poi ci sono queste pillole di lutto che vedo nelle cose che osservo e che paradossalmente hanno la stessa leggerezza di altri ricordi, la mascherina dell’ossigeno che gli ha reso la punta del naso ancora più affilata precede di una posizione in ordine alfabetico le camminate degli scapoli, io e il mio trombettista Giacomo per l’ultima volta insieme sull’alta via dei monti liguri. Invece il torace che pompa meccanicamente ossigeno a un corpo che non risponde più mi ha dato un inusitato punto di vista fisico su mio papà. Ho vegliato questa sua specie di stato vegetativo una notte e quando ho ceduto alle ore centrali, quelle in cui siamo più vulnerabili, le stesse in cui la polizia irrompe nei covi dei terroristi per ridurre la prontezza alla reazione armata, mi sono svegliato più volte di soprassalto ma quella specie di mantice sotto le lenzuola bianche che irrorava aria come un apparecchio elettro-medicale mi tranquillizzava sul fatto che ci fosse ancora vita là dentro. Mi ha sopreso poi il volume del torace, quando poi qualche giorno dopo è spirato, e la differenza di livello da sdraiato con il ventre, che è un po’ come pretendere di avere la pancia piatta da seduto, quando ci osserviano le sporgenze del nostro corpo durante le cene sontuose di cui siamo pronti a pentirci firmando la ricevuta della carta di credito. Ma certe cose succedono così per caso, come quando avvii la macchina e l’autoradio è gia sintonizzata su una stazione che trasmette that’s the way ah-a ah-a I like it ah-a ah-a e non puoi impedire alle persone di esprimere i propri gusti pessimi, nemmeno se sono responsabili della selezione musicale di un network commerciale. Così per assistere una persona che si ritira, non per sua volontà, dalla sua posizione di essere vivente è bene prepararsi perché viene da piangere, poi da ridere, poi da essere indifferenti, anche da rispondere a qualche chiamata di chi non è al corrente di tutto ciò, magari una telefonata di lavoro. Ci sono poi bustine di zucchero di canna da chiedere a baristi, precedenze da dare su strade urbane, ascensori da attendere con sconosciuti, decisioni da prendere, divisioni da correggere, giudizi da esprimere, persino turbamenti sessuali a cui dare sfogo o remprimere e codici da digitare. Fino al saluto conclusivo, quello che dai pur sapendo che è rivolto unilateralmente a membra altrui che non vedrai più, alla stessa cassa toracica che un tempo pompava aria a una voce da baritono, e non sai quando è il momento giusto per voltare lo sguardo, allontanarsi e dire addio.

alla maniera di mamma e papà

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Nella fase in cui si indossano i vestiti dei propri genitori dovrebbero passarci tutti, secondo me, a meno di evidenti incongruenze di taglia e non necessariamente abbinandosi con il genere corrispondente. Perché è una specie di mettersi nei panni altrui anche se lo si fa con il senso della sfida: decontestualizzare un modello che abbiamo avuto come riferimento per dimostrare che nella nostra reinterpretazione funziona di più e si compie il riscatto con i giovani che fanno meglio degli adulti. In pieno periodo Joy Division sfoggiavo un paio di giacche di mio papà di un paio di taglie più grandi, non ero nemmeno maggiorenne e avere quell’aria gotica avvolto in indumenti extralarge conferiva l’effetto David Byrne in Stop making sense. Quella nera del suo abito da matrimonio, risalente al 1960 quindo con un taglio già vintage allora, per il look all black. Poi una grigia a righine verticali scure che poi mia mamma ha scelto come abito per la sepoltura, cosa che mi ha fatto sorridere perché di certo mio padre quel completo non deve averlo mai più indossato da quando lo portavo io, essendo aumentato di stazza per poi ridurre il peso negli ultimi mesi di vita, così ho immaginato che nelle tasche di quella giacca, destinata a vestirlo nel viaggio finale, ci potesse esser rimasto qualcosa della mia adolescenza, spero nulla di compromettente come qualche biglietto dell’autobus arrotolato. Nell’armadio dei miei era rimasto anche qualcosa della loro giovinezza, che in me suscitava curiosità. Come quella specie di polo bianca a rete fittissima da uomo, con il collo segnato da una v blu e il colletto ampio, un residuato degli anni 50 di mio padre che reinterpretavo in chiave psychobilly. A me sembrava un capo di tutto rispetto. Poi alla vigilia di uno dei miei primi concertini con la band di quegli anni lo proposi al mio batterista che non sapeva che cosa mettersi. Ma il bassista, che era quello più influente in fatto di look, con un’occhiata gli fece capire che non era il caso. E anch’io, dopo quel giudizio iniquo, mi ero però fatto convincere dell’eccessiva complessità derivante dall’uso di un indumento che i più non avrebbero capito. Troppo ironico? Poco in linea con la moda? Usare vestiti vecchi e del passato non era ancora in auge, in una fase storica in cui si dovevano ancora chiudere a tutti i costi i conti con la memoria. Quella polo a rete con il collo a v blu, che oggi ricordo molto simile a una maglietta da tennis di altri tempi, poi non so che fine abbia fatto. Di certo noi degli anni ottanta non ce la meritavamo, una cosa così particolare.

faremo di te una viaggiatrice

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Poco prima che abbia inizio il concerto, nella piazza piuttosto gremita transita un gruppo di Hare Khrisna in versione moderna, perché oltre ai tamburelli e le percussioni hanno anche una base chill out probabilmente a sua insaputa. Nel senso che la base musicale dell’inno religioso di sottofondo ha un andamento che non sfigurerebbe in una videolezione di yoga ma nemmeno a un aperibuddha. D’altronde tutto quel filone lì che sta bene su tutto, e che io da occidentale razzista chiamo “indianate”, è tutto facilmente catalogabile nel reparto new age da almeno vent’anni, comprendendo anche certe emanazioni trip hop che oggi suonano oltremodo superate eppure, vi assicuro, c’è chi ancora affronta il traffico della tangenziale con i Transglobal Underground e i Loop Guru come se in mezzo, tra loro e la fine di un’epoca, non fosse successo nulla.

L’impressione che ho di questo mini-corteo che nel bel mezzo della piazza si ferma dev’essere registrata in qualche modo. Il pubblico, forse equivocando che si tratti del gruppo spalla di quello per il quale stanno lì con il naso all’insù sperando che l’evento abbia inizio, lascia loro un ampio margine di manovra tale che possa compiersi la loro figura rituale del girare intorno a un centro, che probabilmente ha tutto un significato che non colgo ma d’altronde il marketing religioso vive anche di standard per consentire una certa riconoscibilità di brand. Questo per dire che potrei anche trovarmi nel mezzo delle riprese di uno spot di qualcosa.

Qualche civile si lascia coinvolgere nei saltelli dei miliziani della spiritualità, qualcuno si lascia mettere tra le mani i piattini allo stesso modo con cui i turisti si arrendono ai venditori africani di elefantini portafortuna. L’insieme però dimostra poca famigliarità con i ritmi da strada, addirittura a un certo punto il tempo raddoppia e davvero rasenta il drum’n’bass, questo mi fa persino venir voglia di mettermi lì in mezzo e remixare il tutto.

In realtà cerco di allontanare un pensiero che riguarda i ragazzi che hanno lasciato famiglie, lavori, amicizie e opportunità per questo tipo di vita. Una tragedia, dal mio punto di vista, la cui parodia è rappresentata egregiamente nel film “Un sacco bello”, con il personaggio interpretato da Verdone quando sfida il padre Mario Brega e il suo “so’ comunista cosììììììì”.

Diciamo che se sei mediamente intelligente e attento, il rischio che un figlio oggi prenda e parta con gli arancioni o con qualsiasi altra setta è piuttosto remoto. Ma non è certo l’idea che mia figlia un bel giorno prenda armi e bagagli e vada via che mi spaventa, anzi. Da sempre cerchiamo di inculcarle la curiosità di togliersi dall’Italia soprattutto per trovare il posto giusto in cui realizzarsi, sia personalmente che professionalmente. Di questi tempi, poi, mi sembra sacrosanto, visto come vanno le cose.

C’è stato il periodo delle bandiere, da piccolissima, libri e giochi e poster per farle conoscere tutti i colori che rappresentano paesi e continenti. Le carte geografiche per imparare a orientarsi e appassionarsi alla materia. Poi la saga del Giro del mondo in 80 giorni, il libro, il film e soprattutto la versione anime. Qualche viaggio nel limite delle nostre possibilità. Fino a quanto è tornata il mese scorso da una settimana di campeggio con l’oratorio con la fascia di “Miss mi piace scoprire il mondo”, e non vi dico come ci ha riempito di orgoglio. Ma lo sapete, le cose con i figli cambiano ennemila volte dai zero ai vent’anni, chissà cosa ci riserva nostra figlia che diventa grande. Inutile fare piani. Ma un po’ di subdola ingerenza con finalità di persuasione occulta, comunque, non guasta mai.