ok google adesso ho un figlio che cosa devo fare

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Cattura

Il clic di troppo è quel gesto impulsivo o involontario o perché non sappiamo usare bene i dispositivi che su certi socialcosi, dove non c’è il diritto di modifica o di recesso da un consenso di qualunque natura, ci fa fare una figura di merda. Ci sono numerosi altri frangenti in cui metti una firma o ti registrano un sì detto di troppo e poi son fatti tuoi e in generale la vita è piena di queste strade a scorrimento veloce in cui nessuno ha mai pensato uno svincolo per le inversioni di marcia. Come quella volta che da Forlanini non so che ingresso della tangenziale est ho cannato per trovarmi in piena notte sulla BreBeMi da cui è noto che non ci siano uscite fino a destinazione e se la imbocchi puoi chiamare tranquillamente casa avvisando che non rientri per cena. Al contrario, considerando che non siamo delle bestie, ci ricordiamo senza rimpianti e nel modo più lucido il momento in cui abbiamo percepito quel radioso senso di irrimediabilità a seguito di cui di lì a qualche mese saremmo diventati genitori.

Non so se sono le lineette sul bastoncino del test di gravidanza o la vostra compagna che lievita o la creatura aliena nella pancia che si muove di vita propria o l’ecografia con quel battito velocissimo che poi finisce per andare perfettamente a tempo con il vostro o il parto stesso o le impiegate dell’anagrafe che aggiungono il nome che avete scelto o, anzi, il momento in cui entrati in casa con ‘sto fagottino nelle braccia vi siete guardati intorno e vi siete chiesti “OK GOOGLE E ADESSO COSA DEVO FARE?”.

Poi succede che i bimbi diventano addirittura più alti dei genitori, solitamente della mamma perché sfido mia figlia a superare il mio uno e ottantasei, finiscono anche la prima media, iniziano a interessarsi al sesso e ad altre questioni di cui non si libereranno mai più e malgrado siano finiti gli anni in cui tutto sommato crescerli era solo una questione di allevamento, se vi fermate a riflettere – io lo faccio più di una volta al giorno – sul perché vi siete imbarcati in questa avventura senza ritorno non vi stupirete di essere sempre lì in prima linea pronti a supportare e sopportare, aiutare, accompagnare, guidare, correggere, pazientare e spazientirvi, cucinare lavare stirare ma anche consigliare, raccogliere opinioni e persino chiedere consigli, il punto di vista di un ragazzino può essere la risposta meno banale con cui risolvere un problema.

La decisione se farli o non farli non è facile, a volte è un non-decisione ma un dato di fatto, a volte ci si impegna tanto ma i figli per qualche ragione non arrivano, altre è una cosa che si deve fare perché la fanno tutti e si va avanti così dai tempi della scoperta del fuoco con quella scusa della specie che si deve perpetuare. Qualunque sia il modo in cui ci siete arrivati ora non vi sognereste mai di farne senza. Intanto perché non si può, secondariamente perché i figli sono una parte di voi che arriverà dove a voi non vi è consentito, e poi ce ne sarà una più piccola nei loro figli, poi una ancora più sottile nei figli dei figli dei figli e così via finché non resterà davvero più nulla forse un soffio di qualcosa, più ragionevolmente dei detriti da qualche parte, ma che importa. Di tutto sto futuro non sappiamo che farcene, chissà quali diavolerie ci saranno e altro, davvero, che clic di troppo perché non le sapremo usare e per me, in quanto a figure di merda, sono a posto grazie.

sto per fare un quarantotto

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Sapete bene l’inglese? Come si traduce “la vita è un blister non infinito ma piuttosto lungo (si spera) con quell’intelligente invenzione che ogni cavità che contiene la pillola della serenità ha accanto l’indicazione del giorno in cui si deve assumere”? L’ipertensione, per esempio, si combatte con uno di questi sistemi ed è proprio così – con la ciclicità con cui ogni giorno alla stessa ora devi ricordarti il dosaggio quotidiano – che osservi il blister e pensi che sono già passati quattro giorni dall’ultima confezione che hai aperto, un anno da quando hai dimezzato la posologia grazie a una vita più sana, tre anni da quando mi è successa questa cosa qui, quattro da quando mi è venuto il capogiro sulle Dolomiti che ha fatto suonare un campanello d’allarme e così via. Maggio, lo sapete, è il mese mariano per i credenti e il mese del mio compleanno per i miei venticinque lettori, e a botte di capsule per la pressione, unguenti anti-infiammatori a protezione dalle tendiniti e dagli altri acciacchi che per i podisti fai-da-te sono all’ordine del giorno, non c’è più tanto da scherzare. Senza contare il fattore memoria: se ci scappa di dimenticare la pastiglia quotidiana non è un problema ma è possibile che l’effetto di una cura prolungata svanisca, ed ecco perché bisogna tenerle in un punto in cui ci si sofferma con frequenza, così ogni giorno a quella tal ora ci viene in mente. Mio papà le portava sempre nel taschino della camicia, per dire, un metodo fin troppo zelante. Ma nella metafora che sottende a questa ennesima teoria ciarlatana, a botte di quindici giorni alla volta si fa presto a perdere la nozione del tempo. E vi ricordate, invece, di prendere la pillola, quella con P maiuscola, sempre che si usi ancora e la medicina non abbia trovato nuovi sistemi per evitare gravidanze indesiderate? Quella sì che è bene tenerla a mente con una sveglia quotidiana. Ricordo metodiche strategie di coppia per tener fede a quel patto biologico, d’altronde la pillola anticoncezionale è un vero e proprio progetto a due, almeno a me è rimasta questa immagine, e magari se sei sola non ce n’è nemmeno il bisogno ma potrei confondermi in quanto non direttamente interessato. Poi di botto interrompi e, a noi è successo così, tempo un mese e ti trovi un potenziale inquilino che cresce dentro al tuo partner, con altri giorni da contare uno dopo l’altro fino a quando, se è femmina, inizierà anche lei con una sua ciclicità che – e a me è successo proprio la settimana scorsa, mia figlia ha undici anni – sembra sempre troppo presto, per un padre. Cose che finiscono e poi ricominciano, funziona sempre così anche se a volte non ci si fa proprio caso.

tutte le iniziative per la sesta “Giornata senza musica”

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Non è la prima volta in cui l’assessore alla cultura si presenta con vistose calzature da trekking in ambiente urbano, ormai la cittadinanza è abituata ad accettare questo vezzo di informalità e soprattutto costituisce materia di distrazione se, al momento di tenere il discorso, nessuno lo ha provvisto di un microfono da esterni e ci tocca fare silenzio anche se i rumori dell’ambiente non li può zittire nessuno. D’altronde oggi in cui si celebra la “Giornata senza musica” ogni sistema di diffusione audio è bene tenerlo al chiuso nei negozi che li noleggiano, per fugare qualsiasi tentazione.

Anch’io ho sperato fino all’ultimo che piovesse, così la festa poteva sembrare un’iniziativa qualsiasi guastata dal brutto tempo in cui è meglio lasciare casse e strumenti musicali al coperto. Invece no, non c’era il sole ma comunque nemmeno una goccia d’acqua e qualche multa perché qualcuno si è messo a canticchiare qualcosa si è vista. In un caso io mi sono astenuto a fatica dalla delazione. C’era un tizio che fischiettava il che, oltre a essere un comportamento vietato nella “Giornata senza musica”, è una pratica davvero desueta e di altri tempi. Fischiava una nota aria del secolo scorso, un retaggio dei recenti festeggiamenti dei cent’anni della Liberazione che gli dev’essere rimasto in testa dopo le manifestazioni di ieri. Non è stata però una bell’idea quella di inaugurare un nuovo monumento proprio nel giorno del silenzio, come i più lo hanno ribattezzato. Ci sarebbe stata bene la banda, il coro della scuola civica di musica, magari i bambini delle elementari con le loro app di audio editing.

Invece niente. L’assessore che sembra un montanaro parla senza che lo senta nessuno davanti a una parete su cui sono state applicate centinaia di facce di gesso sorridenti. È questa l’opera che un artista locale ha donato ai cittadini. Centinaia di riproduzioni di volti degli abitanti del paese – tra cui ci sono anch’io – ricavate da calchi realizzati sui visi sorridenti dei volontari che si sono prestati all’iniziativa. Carino no? Conclusa la parte dei discorsi ufficiali – anche se incomprensibili da dove sto seguendo l’inaugurazione – ci avviciniamo per cercarci come si fa al cimitero. Dove ti hanno messo?, ci viene da chiedere a chi abbiamo vicino. Ed eccomi lì, identico all’originale. Non avevo dubbi, con il naso che mi ritrovo sono facile da riprodurre, in qualunque modo, anche ad opera di uno scultore.

Mi avvio per rientrare a casa, a mia figlia che mi ha accompagnato non è piaciuto nulla di tutto ciò, lei è in quella fase adolescenziale in cui senza coetanei fa tutto schifo. Io penso che alla sua età ascoltavo Lio e mi scappa di canticchiare il ritornello di “Amoureux solitaires” senza accorgermi che il capo dei vigili è lì a due passi, mi sente e mi fulmina con lo sguardo. Mi viene il dubbio di essere stato ripreso per il testo, ma forse solo io collego il concetto di amore solitario alla masturbazione, o forse alla masturbazione collegavo Lio ai tempi, con la gonna di pelle al ginocchio. Comunque no, era sempre per la “Giornata senza musica” a cui so benissimo che non mi abituerò mai come quando avevo comprato la Alicia DeLonghi e per un paio di mesi buoni avevo continuato a mettere la caffettiera sul fornello, accorgendomi fortunatamente in tempo del guaio che stavo per combinare. E anche oggi mi va di culo, niente contravvenzione. Il capo dei vigili mi ha riconosciuto come la faccia di gesso venuta meglio e, per una volta, ci passa sopra.

i 10 motivi più urgenti per i quali dovreste chiedere perdono al vostro papà

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Vado subito al sodo, non è il caso di scrivere un pistolotto iniziale come introduzione a ciò per cui gli chiedo scusa, sperando che lassù ci sia una connessione Internet, sappiano usare i pc, leggano i blog, frequentino i social network eccetera eccetera. Quindi caro papà scusami:

1 per aver usato il piatto a cinghia dell’hi fi di famiglia per provare a fare lo scratch, ma l’avevo visto fare alla tv e non sapevo che ci fossero dei vincoli tecnici
2 per aver lasciato che una ragazza di cui ero follemente innamorato vomitasse sulla portiera della tua macchina da dentro con la testa appoggiata sul finestrino giù
3 per aver tentato di accordare il pianoforte usando le pinze
4 per essermi voltato a osservare la camminata di una rossa mentre guidavo mezzo ubriaco per poi schiantarmi – ancora con la tua macchina – contro una Golf causando nove milioni di lire di danni che per fortuna che non sono riuscito nemmeno a frenare tanto che la Polizia mi ha dato ragione sul fatto che la Golf mi avesse tagliato la strada e non ne avessi colpa (già che ci sono chiedo scusa anche alla Golf)
5 per aver indossato per anni a tua insaputa la giacca nera del tuo vestito del matrimonio come capo di abbigliamento fondamentale per il mio look post punk
6 per aver fornicato nella tua casa di campagna più volte considerandolo un valido ed efficace pied a terre
7 per aver pisciato nel vano dietro l’ascensore sulla porta della nostra cantina una sera in cui non sarei mai riuscito a tenerla fino a casa, tanta birra avevo bevuto, dando poi la colpa a qualche barbone
8 per averti sottratto almeno una trentina tra CD e vinili di musica classica quando eri già in Alzheimer avanzato
9 per non aver mai capito la questione dell’IVA da anticipare quando mi facevi da commercialista
10 per non averti difeso da quel discografico che avevi preso a male parole perché, lungimirante come sempre, avevi previsto che ci avrebbe truffato ma, a nemmeno sedici anni, era tale la smania di successo che eravamo disposti a mettere da parte qualunque cosa

Ciao papà, scrivimi pure qui sotto nei commenti se ti sei arrabbiato.
Un abbraccio.

educatori per passione

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Non so dirvi perché ci siamo messi in testa che siamo il miglior esempio che dei figli possano avere, da quando è nata la storia. Certo è un po’ presuntuoso da pensare, ma il punto è un altro. Secondo me gioca un ruolo decisivo il fattore invidia verso i nostri genitori. I nostri nel senso proprio delle madri e dei padri di ciascuno di noi di questa generazione qui, me compreso. Voglio dire, probabilmente il loro metodo educativo è stato efficace a tal punto che ci siamo messi in testa che seguire pedissequamente la crescita dei figli sia la mission del genere umano. Il problema, e ne abbiamo già parlato altrove, è che allo stesso tempo siamo anche la prima generazione che ha dilatato la propria giovinezza per tutta una serie di motivi fino all’impossibile, e su questo spero siate d’accordo tutti. Un bel casino, insomma. Immaginate di essere adolescenti con due che a tutti i costi vogliono confrontarsi con voi ma anche spianarvi la strada ma anche guidarvi lungo le vie più efficaci ma anche punirvi se fate qualcosa di sbagliato ma anche essere i migliori amici ma anche i maître à penser migliori sulla piazza ma anche quelli a cui ispirarsi in fatto di gusti letterari cinematografici musicali abbigliamento cibo vacanze ma anche quelli a cui rivelare se vi fate le canne ma anche quelli con cui aprirsi per chiedere se in amore è meglio fare così o fare cosà ma anche quelli che ti spiegano geometria meglio dei professori. Il tutto per la prima volta da sempre, quindi senza nessun termine di paragone, senza sapere se questo può generare dei mostri che magari non ne vorranno sapere mai più di riprodursi vista la loro esperienza da piccoli, nel bel mezzo della più dirompente rivoluzione socio-culturale da quando esistiamo che si chiama Internet. Non so davvero che cosa stiamo cercando di dimostrare. Tornavamo da scuola e non c’era nessuno a imporci tutto questo e così la nostra è una specie di rivalsa? Siamo sicuri che avremmo preferito crescere così? No? Ok, va bene, scusate. Allora parlo solo per me.

i veri problemi hanno i risultati scritti sotto, per questo è importante il procedimento

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La mia prof di matematica del liceo non perdeva occasione per ricordarci quanto la materia che cercava di inculcare a noi alunni fosse meravigliosa, aggettivo che pronunciato con la potenza della sua erre moscia trasmetteva tutta l’enfasi fin troppo esagerata per un argomento che, in un contesto di interessi adolescenziali, la spunta a malapena con cose tipo il curling o il punto croce. Anzi, vi dirò che ai tempi se mi avessero messo in mano i ferri per la lana come mia nonna, che componeva centinaia di triangoli di lana di colori diversi per cucirli poi alla fine in coperte patchwork di superfici sempre in eccesso rispetto al reale fabbisogno famigliare, ne avrei tratto sicuramente maggiore soddisfazione. Ed è stato un peccato perché non me la cavavo affatto male né in algebra tantomeno in geometria. Ma cosa ci volete fare, dovevo instradarmi sulle materie letterarie per collezionare tutta quella serie di competenze inutili che poi mi hanno portato fin qui a scrivere per voi amici con cui ci teniamo compagnia, ma che siamo talmente pochi che potremmo incontrarci settimanalmente a casa dell’uno o dell’altro e leggerci reciprocamente ciascuno i rispettivi appunti di vita vissuta. Il problema è che ora sono cazzi: mia figlia inizia ad affrontare esercizi di matematica mica da ridere e io vorrei il più possibile spingerla verso l’altra parte dell’emisfero conoscitivo, quello in cui contano di più i numeri, le operazioni, le dimostrazioni e le equivalenze, e che magari ti fan venire voglia di tentare una carriera più costruttiva rispetto ai poetastri scribacchini topi di biblioteca senza nessun riscontro o possibilità alcuna, peraltro, come il sottoscritto. Siamo già nel pieno dei problemi con i segmenti in cui bisogna ragionare e far funzionare bene la logica. Si conosce la somma e la differenza di AB e CD, per farvi capire, e bisogna calcolarne entrambe le misure. Fatti spiegare bene le cose dalla tua prof perché se credi di contare su di me, mia cara, sei fuori strada, mi viene da dirle quando mi coinvolge per avere un supporto. E lo so che voi siete tra quelli che lasciate i figli in pasto alle loro esperienze. Io invece che non riesco a dirle di no poi alla fine mi ci metto e l’aiuto, come quella volta della tavola di tecnica. E riscoprire quel tipo di matematica ancora acerba devo dire che mi ha fatto ricredere sulle mie potenzialità, è bastato un richiamo per riaccendere, sotto una corteccia di scapigliatura letteraria, un po’ di quegli affanni da quaderno a quadretti che, con lo scritto della maturità, pensavo di aver definitivamente rimosso dalla mia esistenza. Che poi penso sia il principio Yin e Yang: rimane qualcosa, un’espressione mai risolta, un’incognita alla quale prima poi dobbiamo per forza di cose dare un valore.

che adulti saranno?

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Se negli anni 80 a molti bambini gli si è rotta la fantasia con i cartoni dei Puffi, perché poi nell’osservazione empirica della natura a nessuno capitava di incontrare creature sconosciute più antropomorfe della rumenta abbandonata nelle discariche abusive, pensate un po’ oggi come vengono su le nuove generazioni con l’iper-realtà in HD. La differenza tra attori in carne e ossa e quelli che con consapevole volontà dispregiativa chiamiamo pupazzi animati malgrado dietro ci sia lo strenuo lavoro di migliaia di esperti in animazione tridimensionale su computer da millemila dollari è sempre più labile, a stento si percepisce il confine tra i due mondi e chissà se tutto questo fa bene a quelle testoline di cui i nostri figli sono attrezzati. Un aspetto della modernità che, a pensarci bene, costituisce un paradosso. Quante volte troviamo disarmanti le iniziative pensate per i nostri figli a partire dall’industria dell’entertainment e dello sport, e non certo per mancanza di fondi? Perché alimentare un immaginario così complesso fatto di dimensioni parallele ovunque, sulla terra, nello spazio, in parti misteriose dell’universo conosciuto e non, quando poi nel quotidiano, nelle società sportive, nell’offerta culturale siamo spesso rispediti indietro di decenni luce tanto è il contrasto tra fantasia e realtà? Pensate quando a otto anni già ci si spezzava la schiena in miniera o nei campi e i racconti dei nonni erano altro che l’iperuranio platonico. Oggi è così. C’è un sistema che carica di aspettative le nuove generazioni e poi pressapochismo, incompetenze e incuria fanno presto a riportarci con i piedi per terra e sono i genitori i primi a guardarsi sbigottiti. Ma come? Tutto qui? Ci chiediamo così dove finiscano tutti i sogni dei nostri figli, le domande, le storie e le loro proiezioni una volta che si infrangono su pareti scrostate di palestre, addetti al loro sviluppo fisico e intellettuale sottodimensionati, un’industria che trattiene le risorse per il proprio sostentamento erogando servizi di infima qualità. Per non parlare dei veri ambiti che contano sul serio come alimentazione e istruzione. Forse tocca a noi genitori abbassare l’asticella dello spirito critico e dell’ansia, probabilmente ci siamo auto-caricati di bisogni che i nostri figli sono i primi a non avere.

dieci in condotta

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È la prof di matematica che ci porge la pagella, la prima della vita della scuola secondaria di mia figlia, come se si trattasse di uno scampolo di una stoffa rara o no, aspetta, una tela dipinta di fresco ed è meglio tenerla da sotto con il palmo per non guastarla. È una bella pagella, che dire? dice proprio così la prof di matematica, e così scorro in fretta, e vergognandomi anche un po’ del mio badare al sodo in certi momenti topici della mia vita, la colonna con i numeri scritti in lettere ed è lì che si manifestano tutti i limiti del sistema di valutazione didattico della scuola dell’obbligo, che non so come funzioni altrove ma qui è tutt’altro che uniforme. Arriviamo da un tripudio di dieci alla primaria e in un salto di qualche mese in termini temporali ma di ere evolutive in termini di criterio di giudizio ci troviamo di fronte a un paio di nove, quasi tutti otto e due sette.

Sì, è una bella pagella, che dire? e dice ancora così la prof di matematica. Quindi ricalca con il dito la sfilza di bei voti fino a portarsi sull’ultimo, un bellissimo voto come dice lei che è il coronamento di una bella pagella. Il dieci in condotta perché è una ragazza brava, educata, sempre sul pezzo. Così penso subito a cosa farsene, nella vita, di un dieci in condotta. Il dieci in condotta può anche voler dire che sei un muffone, un omologato, uno che non fai un gesto in disaccordo nemmeno se ti prude da qualche parte e ti devi grattare. Uno che non ride e non scherza perché deve stare sempre attento, seguire al dettaglio ogni passaggio per passare al dettaglio successivo e avere il quadro completo. Un yes man, o yes woman, uno che rispetta le regole. Se poi aggiungiamo il fatto che quella scuola è un concentrato di CL ecco spiegato perché il dieci in condotta è il massimo dei riconoscimenti. Compìti e ossequiosi nel rispetto del sia fatta la volontà altrui.

Ma no. A uno con il dieci in condotta i figli poi lo prendono in giro e gli dicono che a scuola doveva essere noiosissimo. Vuoi mettere quegli scavezzacollo con la cresta come usa adesso che sputano e dicono le cose più sconce, fanno le sagome con gli insegnanti perché a casa ogni occasione è un talent show a cui dare il massimo. Il dieci in condotta va al fedele servitore, al tenace impiegato di back-office che esegue la sua tranche di processo senza sconfinare con chi lo segue o impicciarsi di chi l’ha proceduto. Nessuno in famiglia ha mai avuto dieci in condotta, non scherziamo. Poi però me la immagino lì nel primo banco, mia figlia. Il senso di responsabilità, il misto di volontà di non prevaricare o mettersi in mostra e la timidezza, la serietà con cui inizia e porta a termine le consegne. Non so da chi l’abbia imparato, da me ho i miei seri dubbi, ma forse la chiave è tutta lì. Il dieci in condotta è il futuro, raga. Ripartiamo dallo saper stare al nostro posto.

ho preso nove in tecnica

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È andata che mia figlia, che spesso ha modi un po’ sbrigativi ed è in quell’età di mezzo in cui ancora non ha preso le misure con la propria forza fisica e con la sbadataggine derivante dal non conoscere con certezza il volume occupato dal suo corpo, dicevo che mia figlia ha commesso l’epic fail o errore fatale di strappare una tavola piuttosto complessa composta da numerosi cerchi e sezioni degli stessi che componevano un fiore che poi avrebbe dovuto colorare. La stava estraendo da quei temibili raccoglitori di fogli da disegno con gli angoli di carta e l’ha combinata grossa, considerando che erano le nove di sera e la tavola avrebbe dovuto consegnarla la mattina successiva. Non vi dico il panico anche perché c’erano altri compiti da finire. Così ho preso in mano la situazione e, probabilmente sbagliando perché lo so che non si devono deresponsabilizzare i ragazzi nello svolgimento del loro dovere, ho pensato di darle una mano. Ci siamo divisi il lavoro: io avrei fatto la parte di disegno con matita, squadre e compasso, e lei avrebbe poi colorato. Tengo a sottolineare che il disegno e le applicazioni tecniche, come si chiamavano una volta, sono sempre state la mia bestia nera. Imprecisione, tratto poco convinto, linee sbavate e fogli sporchi mi costringevano a improbabili recuperi con le interrogazioni sulla parte teorica per strappare la sufficienza. Peraltro la tavola in questione necessitava di una serie di passaggi di cui nemmeno mia figlia era sicura, in quanto il lavoro era stato fatto in classe con la guida dell’insegnante. Per farla breve, non ci crederete ma sono riuscito a portare a termine il disegno con un livello di attenzione e di pignoleria in cui davvero fatico a riconoscermi. Ma, sapete, quando c’è di mezzo una figlia si fa questo ed altro. Il problema è che il risultato sembrava sin troppo perfetto per essere un lavoro svolto da un ragazzino, senza contare che mia figlia ha fatto la sua parte colorando al meglio delle sue possibilità. Mia moglie ha persino insistito sulla necessità di abbruttire il disegno in qualche modo per renderlo più realistico, ma poi alla fine lo abbiamo lasciato così. Insomma, ieri mia figlia è rientrata da scuola con un bel nove preso per la tavola che ho fatto io. Non vi sto a dire quanto mi sia vergognato per l’inganno perpetrato all’insegnante, ci siamo tutti promessi di non ripeterlo mai più e vi prego di non rincarare la dose, ho già uno sviluppatissimo senso di colpa. L’unica cosa positivo di tutto ciò è che per la prima volta, nella mia vita, ho preso nove in tecnica, un voto che a distanza di trent’anni comunque è ancora in grado di alzare la mia media in questa materia.

la successione

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Il retrogusto dell’intruglio mi ricorda il sapore del caffè delle macchinette aziendali in trasferta. Ogni ufficio ha i suoi parametri di accettabilità di un prodotto artificiale come quello, e malgrado certe ampie scelte (moccaccino, cioccocaffè, marocchino alla nocciola eccetera) che si trovano talvolta a cui segue un’invidia prematura nei confronti dei benefit negli altrui posti di lavoro, già al primo sorso si finisce per rimpiangere gli standard a cui si è abituati, come se le papille e tutti gli altri organi del gusto si fossero adagiate sull’abitudinarietà degli input trasmessi al cervello.

Il che è una maledizione bella e buona perché quando invece si tratta di una moka, una di quelle usate sulle stufe in ghisa a legna di campagna come quella con cui è stato preparato il caffè che ho appena bevuto, subentra il pregiudizio culturale. Ah, finalmente una sensazione genuina, siamo portati ad ammettere noi di città. Balle. In certe zone rurali italiane ci sono ancora tetti in amianto e nessuno si cura di differenziare la spazzatura, per dire. Ci sono antenne telefoniche che solo a guardarle ci si riempie di radiazioni e non venitemi a dire che chi lavora la terra poi si lava le mani come nei vestiboli delle sale operatorie che si vedono nei telefilm prima di preparare i pasti ai propri bambini. Comunque la signora che mi ha offerto il caffè è stata per molto tempo un vescovo dei testimoni di geova, malgrado questo dettaglio è una donna di cuore di cui ricordo anche i suoi digestivi artigianali a base di genziana. Chiudo lo scanning del mio stato d’animo chiedendomi quale potrebbe essere l’effetto di una buona sigaretta – magari una Winston pacchetto morbido come quelle che fumavo da ragazzino solo perché la marca compariva nel testo di Fly on a Windshield / Broadway Melody dei Genesis – ma se già ho la bocca impastata così, con tabacco e nicotina il disagio potrebbe solo che peggiorare.

Così sulle colline di fronte mi spiccio a capire l’esatta posizione del bosco di nostra proprietà mentre il geometra che sa tutto della zone mi indica i punti di riferimento. Un albero a fianco un di un albero sopra un altro albero che è proprio sotto a quell’albero là. Chiaro no? Ma non è la prima volta che mi succede. Mio papà me l’ha fatto vedere decine di volte ma non ho mai capito e, per non complicare spiegazioni già difficili, facevo finta di sì. Mi diceva che quel bosco faceva parte della nostra proprietà, ma io invece vedevo solo una specie di montagna verde tutta uguale e probabilmente è così e certe sottigliezze come i confini catastali li distinguono solo i diretti interessati. Il guaio è che adesso una parte di quello che il geometra – che a tutti gli effetti ha l’alito di caffè addirittura peggiore del mio – mi indica sollecitandomi a seguire il suo braccio teso è mia, come prevede la successione in caso di decesso, e non dico che dovrei prendermene cura ma almeno sapere di cosa si tratta. Roba talmente di scarso valore e inutilizzabile che forse faccio meglio a regalarla al comune, non siamo in una di quelle storie americane in cui ci sono le grosse aziende petrolifere che si mettono in fila per offrirti miliardi. Qui solo terra povera per cavoli e patate e boschi in cui la maggiore ricchezza sono i funghi, per chi ha voglia di cercarseli spaventando i numerosi cinghiali che scorrazzano in giro.

Distolgo lo sguardo imponendomi di distrarmi ma faccio lo stesso in tempo a rammaricarmi della leggerezza con cui ho sempre trattato la questione. Da giovani sono i propri genitori che si fanno carico di certe cose e i genitori, si sa, non muoiono mai.