Si insegna così, ai bambini, ad andare in bici quando non imparano da soli. Se sono piccoli, molto piccoli, è difficile che apprendano in autonomia. Quindi occorre stare dietro di loro, una mano sul manubrio l’altra sulla spalla, di corsa per far prendere loro velocità. A me è successo quando mia figlia aveva quasi cinque anni, la bicicletta bassissima e io a dovermi piegare a terra dal mio metro e ottantasei. Avanti e indietro in una stradina al sicuro, avanti e indietro senza sosta, ma in un paio di giorni i bambini imparano. Fare i nodi invece è un’attività meno divertente, per loro e per noi. Non ha il fascino della vertigine dell’equilibrio, come pedalare. Poi occorre avere la mano già salda, e lì l’età non c’entra, io non ce l’ho a quarantaquattro anni senza contare che, nel caso dei lacci delle scarpe, l’esempio occorre mostrarlo specularmente. E per i grandi è molto, molto complesso. Ho imparato a leggere al contrario per raccontare i libri con la pagina e le illustrazioni rivolte a lei quando non potevo tenermela in braccio e leggere normalmente. Ma per insegnare ad allacciare le Clark tarocche misura 32, dove l’occhio c’entra marginalmente ma occorre la manualità, sono nel panico. Provo davanti, passo dopo passo, ma il risultato non è granché. Mi metto alle sue spalle e inizia la lezione, lei si annoia e io non vi dico, mi perdo in un bicchiere d’acqua. E cerco di ricordarmi come ho fatto io ad apprendere questa tecnica aliena ma chiedo troppo. Per oggi mettiamo ancora le scarpe con la chiusura in velcro, prima devo imparare a insegnare.
genitori e figli
tanto di cappello
StandardProvo un pizzico di invidia, lo ammetto, per quella coppia di padre e figlio che sosta davanti all’ingresso della scuola elementare ogni mattina, come me, prima del suono della campanella. Il padre si riconosce perché, da quando è arrivata la brutta stagione, indossa un modello di coppola all’inglese di cui mi sfugge il nome, la stessa che usa Andy Capp, per farvi capire. Nell’insieme non ha propriamente uno stile inglese, sfoggia solo quel berretto che lo distingue dagli altri genitori. Poi anche il figlio ha iniziato a indossarne una identica, stesso colore, solo di taglia diversa. E si assomigliano molto padre e figlio, hanno gli stessi lineamenti un po’ albionici, in effetti, pallidi e rossicci. Vestono lo stesso cappello e sono molto teneri. E sapete perché li invidio? Perché hanno un tratto distintivo che mostra il loro legame, sembrano uno la piccola copia dell’altro. Ora a me non piacerebbe di certo che mia figlia sembrasse la mia versione in miniatura, non sopporto questo genere di leziosità nell’abbigliamento. E poi io vesto tutto di blu scuro con il loden, per esempio, look inadatto per una bimba. Ma io e lei, sono certo, siamo altrettanto uniti. Quando ci avviamo per il vialetto della scuola, per farvi un esempio, ci divertiamo a parlare di insetti, di quella volta in cui mi sono preso una zecca in un bosco e lei mi assilla perché vuole tutti i particolari. O passando per strada nei pressi di un cartellone pubblicitario, quelli appesi ai pali sul marciapiede, io vado da una parte, lei dall’altra e insieme ci facciamo “bù!” quando lo superiamo e ci ricongiungiamo. Sostiamo insieme nella calca mattutina e se non ci sono le amiche del cuore sono io a tenerla per mano. Questo e tanti altri particolari sono il segno di quanto siamo legatissimi, ci mancherebbe, siamo padre e figlia. Ma gli altri lo noteranno come io noto i copricapi altrui? Non vi nascondo che mi piacerebbe avere un indumento comune, un accessorio, un vessillo, una qualsiasi in grado di indicarlo a tutti. Un led luminoso, con una freccia rivolta verso di noi e un testo a scorrimento: io e questa bambina, questa bambina ed io, siamo più o meno la stessa cosa a trentasei anni di differenza.
veniamo a prenderti
StandardTe lo ricordi l’Alberto? Se tu fossi di Milano me l’avresti chiesto così, ma sei esposto a ben altre parlate e l’articolo prima del nome proprio maschile ti suona strano. Comunque sì, l’Alberto certo che me lo ricordo, e come potrei dimenticarlo. Una vita in bilico come un equilibrista neofita su una ringhiera, sempre a ridosso del pericolo ma anche del rifugiarsi al di qua e salvarsi, se solo avesse voluto. L’Alberto mi ha portato fino a non ricordo dove vicino a Firenze a vedere i New Order nella notte dei tempi, quella volta in cui durante il viaggio di ritorno ho salvato la pelle di entrambi perché ho retto il volante, malgrado non avessi ancora la patente, per un centinaio di metri sulla statale a qualche chilometro da casa. L’Alberto era collassato mentre guidava e non so come ho fatto a portare la macchina al sicuro, in una corsia di sicurezza, e a svegliarlo. Non mi ero accorto durante il concerto di cosa si era fatto, ma è facile intuirlo.
Fatto sta che da lì ha inanellato un curriculum di esperienze tra la vita e la morte mica male, culminato con un tentato suicidio da non credere. Giù dal terzo piano per cadere illeso su un balcone al primo piano, di nuovo in piedi e giù anche dal primo piano sul cortile sottostante. Ma l’Alberto era massiccio come un wrestler, si direbbe oggi, e miracolosamente si è solo spaccato – solo tra virgolette – qualche articolazione, lasciando illesi organi vitali.
A quel punto la psichiatria è entrata pesantemente nella sua vita, con le famose goccine della salvezza, un preparato che ha reso l’Alberto un gigante buono, con una patina di assenza davanti agli occhi e un sorriso copiato da qualche ricordo del suo immaginario interpretabile come “posso manifestare violenza omicida e fare una strage da un momento all’altro”. No, l’Alberto non ne sarebbe stato capace. Quella volta in cui ha scalato la dose di goccine della salvezza, il giorno dopo l’hanno ritrovato addormentato in macchina in un’area di servizio nei pressi di Barcellona. Probabilmente ha guidato tutta la notte per arrivare in un punto non definito della sua testa. Almeno ha avuto l’accortezza di fare una sosta ristoratrice per mettere la sua incolumità al riparo dai colpi di sonno.
L’Alberto mi raccontava della sua infanzia trascorsa molto con i nonni e poco con i genitori. I nonni lo portavano con sé nella loro casa di campagna il giorno dopo la fine della scuola e si prendevano cura di lui per tutta l’estate fino all’ultimo giorno di vacanza, quando tornavano in città e l’Alberto entrava in casa e trovava, sul tavolo del salotto, tutti i libri e i quaderni e gli articoli di cancelleria necessari per l’anno scolastico che sarebbe iniziato il giorno successivo. E, durante i mesi estivi, mamma e papà lo andavano a trovare tutti i fine settimana. Arrivavano il sabato, nel tardo pomeriggio, per ripartire la domenica dopo cena.
L’Alberto aveva l’abitudine di aspettarli seduto in un prato sulla collina su cui si ergeva la casa dei nonni, un punto da cui si poteva vedere la strada comunale che arriva fin lì dalla città. Stava lì in trepida attesa fino a quando vedeva materializzarsi la gigantesca berlina marrone scuro del padre, seduto tra la nonna e il nonno e il cane dei vicini che, quando sentiva che lì da loro c’era qualcuno, misteriosamente si spostava di domicilio. Me lo immagino saltare su in braghe corte e gridare “arrivano!”. Quindi correre verso il cancello della cascina a contare i secondi e i metri che mancano fino a quando sente il rumore dell’auto, l’unico nel silenzio bucolico della sera, e poi abbracciare i genitori una volta e un’altra volta ancora, godersi gli spiccioli di affetto paterno e materno e fare il pieno, per la settimana a venire.
Commovente, vero? Ma non è tutto. L’Alberto, qualche mese fa, un bel sabato mattina sparisce. L’anziana zia che gli fa da tutrice e, perdonate il gioco di parole, gli fa proprio tutto da quando i genitori non ci sono più, si preoccupa – giustamente – e mobilita i colleghi della cooperativa sociale in cui l’Alberto lavora, contatta il nipote e i pochi amici per mettere insieme qualche indizio. La vita dell’Alberto è sicuramente meno turbolenta di un tempo, anzi, è praticamente ridotta a routine tutt’altro che pericolose e tentacolari. Ed è per questo che la sparizione getta un po’ tutti nel panico.
Fino a quando, il giorno dopo che è una domenica, la vecchia zia riceve una chiamata da uno sconosciuto. Si presenta come il proprietario della cascina di campagna che una volta era appartenuta alla famiglia dell’Alberto, già il secondo acquirente dopo che era stata venduta la prima volta, alla morte dei nonni. L’uomo racconta di essere stato svegliato in piena notte dai cani da guardia, di essere uscito e di aver notato un’ombra nel buio, una figura seduta sul prato davanti, al limite dell’erta che scende giù verso il paese. L’Alberto era sveglio e tutto intirizzito, la sigaretta in bocca, e ha chiesto se, malgrado la proprietà privata, poteva rimanere lì fino all’arrivo dei genitori.
in dote
StandardNon ero certo un buon partito. Anzi. Non essendo nemmeno proprietari di immobili, i miei mi hanno messo in valigia, il giorno in cui ho deciso sarebbe stato il mio primo giorno di indipendenza, nient’altro che la mia parte di ansia, una significativa somiglianza fisica con mio padre e un flacone di pessimismo concentrato e annegato in un intruglio di inconcludenza. Sì, c’era la casa di campagna di famiglia, ma quella se l’è presa con un raggiro da manuale mia sorella con quel criminale di mio cognato. Hai voglia, poi, a dire che essere figli unici è una sfortuna. Ecco, a parte l’amore per la musica, il resto l’ho guadagnato sul campo. Ho portato con me un contenitore di caramelle a forma di testa di supereroe in plastica, uno spremiagrumi Atlantic originale con confezione, una scatola portabiscotti arancione anni 70, una coppia di poltroncine vintage oramai valvola di sfogo dei gatti, e tutto il necessaire per ascoltare musica con qualsiasi device, dal più antico al più moderno. Compreso un set di cavi e riduzioni in grado di rendere ogni mezzo perfettamente integrabile con l’altro. Posso collegare l’iPod alla radio Tivoli, per esempio, o suonare il synth collegandolo alle casse della tv. Cosa che non faccio mai ma che potrei fare. Ecco. La mia ricchezza è questa. Posso intrattenerti per ore, fino alla tua nausea. Ti racconto, ti parlo, ti scrivo, ti spiego cosa è un blog. Ti suono qualcosa, ti faccio ascoltare canzoni e gruppi che non hai mai sentito nominare. Ti leggo i miei libri preferiti, guardiamo insieme film indimenticabili. Questo non significa che poi, alla fine, paghi tu. Ho un lavoro che mi permette di vivere più che dignitosamente. Ma gli extra, quelli haimé proprio non posso permettermeli. E questo perché nessuno aveva pensato che ci fosse un futuro tutto da costruire, aneddoti compresi.
lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite
StandardIn Italia lasciare i bambini fuori dalla Chiesa, dai sacramenti e dal catechismo non è cosa semplice. Nella classe di mia figlia sono in cinque, lei compresa, a non essere battezzati per esempio, ma tre sono musulmani. Quattro di loro fanno un’ora alternativa all’ora di religione, noi abbiamo pensato invece che comunque avrebbe potuto essere interessante per nostra figlia sapere di che si tratta, darle strumenti affinché possa decidere da grande, se vorrà, come comportarsi con la religione. Non si è rivelata una scelta oculata, perché non abbiamo tenuto conto del fatto che preparare la comunione, seguire i riti, i canti comandati, studiare la mitologia che sta intorno al cattolicesimo è oltremodo attraente per i bambini curiosi, categoria a cui mia figlia sembra appartenere. Tanto che più di una volta, e poche ore fa si è consumata l’ultima, ci ha chiesto perché non è stata battezzata e ci ha confessato che le piacerebbe seguire catechismo e preparare la comunione.
La motivazione ufficiale è che si trova in minoranza nel gruppo dei pari. Sono convinto non sia giusto forzare i piccoli a sentire la diversità come un valore, perché per loro è difficile sviluppare una maturità emotiva adeguata. O magari la sviluppano, ma i compagni di classe non sempre la capiscono. A noi sembrava peggio estrometterla dall’ora di religione, era come rimarcare in modo più accentuato una differenza culturale, tuttavia il problema si presenta con una certa ricorrenza.
Ma devo ammettere che parlare molto chiaramente, non mentire sulle proprie posizioni anche quando si pensa siano difficili da afferrare per i figli alla fine paghi. E non è stato nemmeno così complesso spiegarle perché non siamo credenti e praticanti, e soprattutto perché ci sentiamo così lontani da una comunità politica e spirituale che nega i diritti fondamentali alle persone omosessuali, portandole l’esempio di una coppia di amiche di famiglia, compagne di vita, che lei stima enormemente e che per lei sono più che zie. Perché vuoi far parte di una comunità che impedisce a loro di sposarsi, di adottare figli, di costruirsi una famiglia come la nostra, influenzando addirittura la legislazione e i poteri politici che potrebbero permettere tutto ciò? A sostegno della tesi le abbiamo mostrato gli esempi degli stati stranieri che, privi di un sistema di opinion leading interno come il Vaticano in Italia, possono difendere le coppie dello stesso sesso dai pregiudizi socio-culturali con l’informazione, con la cultura e, soprattutto, con la legge (ovviamente con terminologia adeguata all’età).
Non so, non nego che la cosa ci crei confusione, ma penso che sia un metodo vincente, alla lunga. Lei potrà comunque non privarsi dell’aspetto favolistico della religione, il Natale e tutto il resto, le feste che hanno un fascino indubbio e difficile da sostituire con un’alternativa altrettanto appagante. Ma se si ripresenterà il problema, sono certo che useremo gli stessi argomenti a difesa della nostra scelta. Per continuare la sana cultura cattocomunista di famiglia.
piccolezze
StandardI figli sono quella cosa che quando ce l’hai non faresti altro che stare lì a guardare cosa fanno e a sentire cosa dicono, specie se sei arrivato a un certo punto della vita in cui tutto il resto non sembra più così interessante, tantomeno te stesso. Parlo per me. A maggior ragione quando fai un lavoro poco avvincente, e già buona parte della giornata vola via in modo futile e parlarne anche dopo, magari a cena con gli amici, non ha proprio senso. Io starei tutto il tempo a osservare mia figlia, e cerco di farlo di nascosto, insomma se fossi in lei detesterei il fatto che un genitore non mi toglie gli occhi di dosso. Rubo più momenti che posso, quando per esempio la vedo allontanarsi verso l’ingresso della scuola mentre parla con le amichette. O quando le ascolta e tiene la testa nella postura da attenzione, guardando in basso, e in quel caso vorrei captare qualcosa, sapere che le frulla per il cervello. E se è vero che qualcosa di mio c’è lì dentro, diamine, non si poteva installare anche un trasmettitore su cui sintonizzarsi a proprio piacimento? Già con mia moglie avevamo fantasticato l’integrazione di webcam all’asilo nido, in barba alla privacy degli altri bambini. Ma sono certo che tutti i genitori del mondo occidentale rinuncerebbero alla riservatezza delle immagini dei loro figli pur di collegarsi a proprio piacimento e godersi tutte le porzioni di vita che, ne siamo consapevoli, andranno perdute per sempre per chi in quei momenti non è lì presente. Lo so, dovrei trattenermi, il rischio è di sembrare morboso e di apparire noioso al prossimo. In più non credo sia un rapporto sano, insomma sono realmente convinto che l’indipendenza tra gli essere viventi che sono uniti tra loro dall’affetto sia comunque costruttiva, mentre la sovraesposizione, è noto a tutti, è deleteria. Quindi mi limito a sfruttare i momenti che mi capitano. Prima di svegliarla sto lì a guardarmela un po’, poi a colazione le propongo di leggerle qualcosa, se dopo cena chiede di guardare un cartone mia moglie e io ci mettiamo con lei sul divano, giusto per stare a contatto, e anziché seguire le gesta dell’animale di turno, che tanto oramai conosco a memoria, ogni tanto faccio finta di niente e la osservo di profilo, tutta presa dalla storia, fino a quando mi coglie in flagrante e ridendo mi chiede “che c’è?”, allora rido anche io. Ma forse ha capito, tanto che mi viene in braccio e allora la stringo per fare la scorta di emozioni che consumerò, con enorme parsimonia, quando sarà grande e indipendente e avrà una vita tutta sua.
un velato accento
StandardMi ha scritto una amica insegnante di Matematica, una vecchia conoscente che ha voluto mettermi al corrente di una situazione esilarante. Dal 2006, se non erro, è di ruolo in un liceo scientifico e, quest’anno, ha avuto un incarico presso una prima. L’impatto, però, non è stato dei più incoraggianti, non tanto per il materiale umano che le è stato affidato da iniziare alla scuola superiore, quanto da un aspetto marginale, diciamo di folklore, che lei definisce un “segno dei tempi”.
È la prima ora di Matematica del primo giorno di scuola di una prima, il battesimo dei ragazzi nella nuova tappa del loro percorso scolastico, forse la più difficile considerando la maturità emotiva e l’entità del lavoro che i ragazzini si approcciano a svolgere. La prof, che chiamerò Paola, si siede alla cattedra, si presenta, quindi con l’intento di rompere il ghiaccio legge l’elenco dei suoi alunni, fa l’appello, per così dire, tante individualità una via l’altra, scritte in ordine alfabetico sul registro. Un nome, una faccia da memorizzare, una coordinata per localizzarla tra i banchi. Paola mi confessa che ogni volta riuscire a ricordarsi di tutti è un calvario, ques’anno poi la classe in questione raggiunge le trenta unità, la sfida sarà ancora più complessa. La lista scorre fino Colombo (cognome fittizio) Elena (nome vero), che dalla seconda fila alza la mano, sussurra un “presente!” e mentre Paola le sorride, la ragazza molto educatamente le fa notare che “non so come sia scritto sul registro, ma il mio nome in realtà si pronuncia Elèna, e non Èlena“. “Ah Elèna“, risponde sorpresa Paola “che vezzo di originalità”, anche se so che avrà dovuto trattenere un ghigno ironico. Di certo Elèna le è rimasto impresso, non se la dimenticherà facilmente.
L’appello prosegue senza pause sino a Rossi (cognome fittizio) Maria (nome vero), una stanga in ultimo banco, probabilmente una pallavolista, una sportivona, che con una voce decisa interrompe la prof avvisando che “le sembrerà uno scherzo, ma anche il mio nome si pronuncia diversamente, e cioè Mària e non Marìa“. A quel punto la scolaresca scoppia in una risata, Elèna e Mària nella stessa aula sembra davvero una burla di chi ha curato la composizione le classi. “Ammetto di essere arrossita“, scrive Paola, “perché in un certo senso quella risata era rivolta a me, all’istituzione che rappresento, ai processi automatizzati che non tengono conto dell’eccezione umana, quella che fa coesistere nello stesso insieme le uniche due stringhe di testo con l’accento diverso rispetto all’uso comune“. Uso comune, penso io, chi può dirlo: si fa presto ad aggirare la convenzione. Sta di fatto che a questo punto Paola dice di essere terrorizzata da nuove possibili gaffe, continua l’elenco con molta cautela, anche se più di due anomalie sui nomi di trenta alunni sono già tante, troppe. La statistica, lei stessa la insegna, non è così aleatoria.
Invece no, ecco l’ultimo livello, quello che può essere fatale. Paola sa già che il cognome che sta per leggere scatenerà l’esplosione dell’uditorio, ma è consapevole del fatto che non può sottrarvisi. Chissà, quello che le è capitato oggi pregiudicherà tutto l’anno scolastico? “È meglio mettere in pre-allarme i miei colleghi in modo da risparmiare loro la brutta figura, o esporli in eguale modo al ludibrio scolastico, in modo da non diventare lo zimbello del corpo docente”? Ci sono pochi secondi, una pausa prolungata può far diventare quello che sta per succedere ancora più deflagrante, meglio accelerare per sdrammatizzare ciò che i suoi nuovi alunni stanno già subdolando. E l’interessata, in primissima fila nel banco lì davanti, si gode già il suo momento di rivalsa per la prima volta, visto che il suo cognome è stato sempre oggetto di beffe anche pesanti da parte di amici ed ex compagni di classe. “Troia Francesca, ma suppongo si dica Troìa, giusto?“.
pacco dono
StandardI giochi e gli oggetti regalo per i bimbi in età prescolare si dividono tra quelli che piacciono ai bambini e quelli che piacciono ai genitori. Articoli molto belli a vedersi che catturano l’interesse dell’adulto per vari aspetti. L’estetica, per esempio. Libri fantastici con illustrazioni raffinatissime, ne ho sfogliati a migliaia in biblioteca. Disegni che non sfigurerebbero incorniciati e appesi alle pareti di un salotto. Poi li fai vedere al target cui sarebbero indirizzati, i più piccoli, ed è un attimo a perdere la loro attenzione, che ritorna sulla Pimpa o affini.
Un altro elemento che fa gola è la provenienza, e qui si fa leva sul senso etico e responsabile del consumatore adulto. Giochi dai paesi degli altri mondi costruiti dai coetanei dei nostri figli per i nostri figli con materiali così naturali che i nativi della civiltà della plastica a fatica considerano persino complementi d’arredo. Poi i giochi intelligenti dei paesi del nord, loro sono bravi a educare i più piccoli con le cose in legno. Le bici in legno, le casette delle bambole in legno, trenini e camion e automobiline. E quando li vedo, in estate, divertirsi sulla sabbia con quegli oggetti bellissimi, coloratissimi, ecologicissimi e costosissimi, li invidio un po’, come tutti. Per i nostri figli, che crescono con le marche, le cineserie e i coloranti venefici, il legno è un materiale alieno, il derivato di una pianta che cresce su Giove, il cui calore trasmette un eccesso di cura da dedicarvi e al quale, nel nostro mondo usa e getta, i bimbi non sono per nulla avvezzi. Ricordo uno xilofono tutto colorato come un arcobaleno che ho comprato io stesso per mia figlia, su cui mi divertivo a riprodurre il riff di Change dei Tears for Fears. Ma su di lei non ha avuto presa. E i giochi da tavolo? Se ne ricevono una marea, è il classico dono impersonale che si fa a chi si conosce mica troppo, ma si tratta di passatempi che vanno stretti ai bambini. Non sono giocattoli da indossare, da scavalcare, da lanciare o da entrarci dentro. Rimangono entità separate, non so come spiegare, distanti, un’appendice per un gruppo di amichetti che sono troppo in confidenza per tenere una passione in comune sulla punta delle dita. Le tessere da girare che poi restano inermi sul tavolo, o sul tappeto, i dadi con quei puntini che è così bello usare come biglie anziché come regola per procedere con il proprio segnaposto lungo un percorso di caselle numerate. Tutto troppo strutturato.
Ci sono negozi che sono stracolmi di giochi che quando li regali ai bambini, l’unico divertimento è strappare via la carta e sintonizzarsi sulla sorpresa degli adulti che stanno lì intorno, che si complimentano per la scelta, per i colori, per il rispetto dell’ambiente, e anche per il gusto. Poi il regalo resta per qualche mese sugli scaffali in bella vista in cameretta, prima di tornare nella scatola e da lì in cantina. Se proprio si vuole tornare alla materia viva, sarebbe bello poter regalare gli elementi fondamentali: la terra, l’acqua e l’aria (il fuoco meglio di no). Costano poco e ho visto essere molto graditi.
dietro le quinte
StandardC’è una scuola che non ho mai dimenticato. È il liceo da cui mi sono ritirato a metà anno scolastico in terza, dopo aver prolungato a sproposito l’agonia della scuola superiore sbagliata, un decorso che solo un’eccessiva indulgenza verso me stesso mi ha impedito di riconoscere prima e che solo alla prima occasione che ha trasformato il fastidio in insofferenza mi ha fatto esplodere, un po’ come la mentina del signor Creosote. Colpa di genitori poco pronti a prendere le misure delle nuove complessità? Vi saprò dire quando mia figlia avrà 15 anni. Di certo si tratta di un punto centrale della mia vita se ancora oggi ho gli incubi di quella maturità mai data, e poi mi sveglio in stato di agitazione e mi ricordo di aver terminato gli studi già da un pezzo. Tsk.
Ma, se devo dire la verità, non ho mai dimenticato quella scuola per un altro motivo. In quella stessa scuola, più precisamente in segreteria, ha lavorato mia mamma per trentacinque anni. È entrata nel 65, quindi abbondantemente prima dell’office automation. Anzi, mia mamma ha messo le mani su un videoterminale solo alla fine della sua carriera. Prima ci sono stati almeno due decenni di macchine da scrivere e di registri e cartelloni con i risultati compilati a mano. Tanto che sapeva a memoria nomi e cognomi delle migliaia di studenti passati da quella scuola, e ancora adesso, a chi le si presenta, è in grado di dire se ha fatto il liceo, in alcuni casi addirittura in quali anni. Per non parlare di professori e personale non docente.
Per farla breve, capitava che mia mamma mi portasse con sé al lavoro quando aveva i rientri pomeridiani, ero piccolo o anche no, ma non era possibile lasciarmi solo in casa. Per me era una vera e propria festa, in tutti i casi. Se quel pomeriggio c’erano lezioni, o prof in giro o bidelli, stavo in una delle scrivanie del suo ufficio a fare i compiti, a giocare con la macchina da scrivere elettrica, a stampare timbri della provincia o datari su fogli. Quando non mi vedeva, tentavo di sbirciare negli archivi, guardando a caso documenti riservati, pagelle, compiti in classe, anche se per me era tutto arabo. Poi i suoi colleghi mi tenevano compagnia, fino a quando mia mamma prendeva il cartellino, timbrava e mi riaccompagnava a casa.
Anni dopo costruirono un’ala nuova di quel liceo, con un bellissima palestra nuova di zecca. Io ero appena approdato alle scuole medie e avevo iniziato a giocare a basket. Il bidello assegnato alla palestra era molto in confidenza con mia mamma, quindi i pomeriggi al liceo cambiarono completamente fisionomia. Mi portavo il mio pallone, il bidello mi apriva la palestra bella pulita e, a patto che indossassi scarpe adatte, potevo stare lì anche tutto il pomeriggio, ad allenarmi e fare tiri a canestro. Malgrado ciò non sono mai diventato bravo, ma vi assicuro che mi sono divertito davvero un sacco.
Passata la stagione della pallacanestro, in terza media o giù di lì, si presentò il problema di scegliere la scuola a cui iscrivermi. Il mio migliore amico aveva intenzione di andare al classico e io volevo seguirlo. Poi però non so come è andata, sta di fatto che commisi l’errore e scelsi lo scientifico. E la cosa ridicola è che anche il mio migliore amico decise di seguirmi di là, e anche per lui non fu così semplice arrivare fino in quinta. Ma questo è un altro post. Sta di fatto che nei mesi che precedettero l’inizio delle scuole superiori, presi ad accompagnare mia mamma, non appena potevo, al lavoro. Lei si metteva come al solito alla sua scrivania, e io partivo nei miei tour di esplorazione lungo quella enorme scuola da solo. Volevo domare il drago, mi dicevo, farlo finché fosse appisolato prima del grande risveglio, con tutti quei minuscoli bipedi che gli avrebbero fatto il solletico entrando nella sua capiente pancia molle. Dovevo conoscere il nemico, arrivare preparato all’impatto con la vita da adulto, partire con un vantaggio che mi facesse percepire come meno imbranato. Se hai il controllo logistico hai il potere, no? Così salivo e scendevo per i tre piani, entravo nelle classi, leggevo le sconcezze scritte sotto i banchi, sentivo gli odori degli arredi e qualche aura di presenza umana rimasta chissà perché. Scrivevo titoli di canzoni sulle lavagne (poi li cancellavo, eh), sbirciavo nel laboratorio di lingue i titoli dei dischi delle lezioni di inglese e francese. Mi sedevo nelle aule vuote a osservare la cattedra, nel silenzio più assoluto, qualche clacson ma poca roba, fuori le giornate già corte, e pensavo a quello che sarebbe stato di me, da lì a poco.
ingrana la terza
StandardAllora hai preparato tutto? Sicura? Fammi ricapitolare. Il diario l’abbiamo preso all’Auchan di Olbia, mentre aspettavamo l’imbarco per il ritorno dalla Sardegna. Cercavamo qualche prodotto tipico a buon prezzo e hai notato il diario di Snoopy che qualcuno aveva dimenicato fuori posto, abbiamo scoperto poi essere disponibile in più colori e l’hai scelto violetto. D’altronde non c’è fumetto più divertente dei Peanuts, e questo lo dici anche tu, poi Snoopy ha davvero una faccia simpatica, se una mattina in classe avrai un po’ di nostalgia potrai cercare conforto in lui. Magari fuori piove e sei triste, vedi Snoopy, ti ricordi dove abbiamo comprato il diario e lo colleghi alle albe sul mare che abbiamo visto in campeggio. Lo zaino va bene quello dell’anno scorso, ne abbiamo scelto uno grande apposta da durare almeno fino in quinta. Il compromesso era: sceglilo del colore che vuoi tu ma niente disegni e cartoni animati sopra. I grembiuli sono puliti e stirati nell’armadio, sono gli stessi dalla prima e anche ora che vai in terza la taglia è sempre quella. I compiti delle vacanze li abbiamo finiti tutti vero? Quest’anno mi sa che si inizia a studiare sul serio, dobbiamo fare più attenzione, se pensi che qualcosa sia difficile non ti devi preoccupare, ci siamo qui noi. Ricordiamo di legare i capelli, ci sono sempre le insidie in agguato, quelle che iniziano per “p” e che fanno rima con “occhi”, che poi dobbiamo fare i trattamenti e non ci passa più. Insomma, domattina suona la prima campanella e l’estate è definitivamente finita, ma non quella che abbiamo dentro, la bella stagione che ci piace trascorrere insieme anche in inverno, barricati in casa, a chiacchierare di cose sempre più difficili, nuove sfide emotive, almeno per me, perché ogni giorno sei un giorno più grande e ogni anno è avere una figlia sempre più compagna di vita.