dulcis in fundo

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A mia figlia la dinamica della trama di Sandokan – il film per la tv con Kabir Bedi – proprio non è andata giù. E il motivo è evidente: cresciuta a narrativa a lieto fine, o a finale inevitabile ma comunque edulcorato, la riduzione per il piccolo schermo delle vicende raccontate da Salgari, che comunque in chiusura lascia uno spiraglio di riscossa per la Tigre della Malesia, non segue i canoni dello schema disneyano. Per intenderci: idillio, punto di rottura, tentativi di ripresa, semi-risoluzione, colpo di scena, sforzo decisivo/redenzione, idillio maggiorato. Sandokan invece l’ha lasciata con l’amaro in bocca, dal momento che, come dice lei, inizia così-così, poi cresce e sembra che vincano i tigrotti di Mompracem, quindi Sandokan e Marianna si sposano e dovrebbe finire lì, invece poi diventa triste, addirittura Marianna muore, e finisce male perché gli Inglesi non se ne vanno dalla Malesia e Sandokan deve scappare. A quel punto urge un modo per ricucire quello strappo tra i bambini e la realtà, quella che non finisce nemmeno con l’ultima pagina illustrata o, nei dvd, con i contenuti extra. Non sempre le storie si concludono nel migliore dei modi, cerco di spiegarle, e poi non mi sembra sia andata così male: Sandokan si salva e ricostruirà il suo regno altrove. Ma non mi era mai capitato di esser così triste alla fine di un film, mi incalza, anzi solo a ripensare all’ultima puntata mi viene da piangere di nuovo. Guarda che le lacrime non sono solo di tristezza, le faccio notare, possono essere anche di commozione, ma mi rendo conto di non riuscire a convincerla. Posso allora vedere solo gli episodi fino al matrimonio tra Sandokan e Marianna, mi chiede. E la prima cosa che mi viene spontanea da dirle è di no, che non si fa, snaturerebbe l’opera e come è stata concepita, non ne comprenderebbe l’insieme. Ma per fortuna mi sono fermato in tempo: ci siamo guardati e lì ho pensato che uno, a otto anni, con la fantasia fa un po’ quello che vuole, e crescendo non dovrebbe nemmeno perdere l’attitudine.

affetto e affettato

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Gli individui manifestano il volersi bene nei modi in cui sono capaci, anche attraverso gesti talvolta deleteri. Non so, penso ai racconti di casi limite come le percosse tra le mura domestiche, gente che dice di amarsi anche così ma nessuno poi per fortuna ci crede. Altri, laddove sono carenti nel supporto psicologico, inteso anche come un semplice far sapere agli altri che sono lì, intervengono attraverso palliativi materiali se ritengono le parole inadeguate o didascaliche a rimarcare una condizione di rapporto con il prossimo più volte attestata, come se pronunciarle fosse un segno di debolezza o un inutile bizantinismo. Per non parlare del contatto fisico. Così capita che uno si trovi l’auto del ritorno a casa, dopo una visita a parenti molto stretti, magari gli anziani genitori stessi, piena di generi alimentari. Pandolce per tutta la famiglia, chili di focaccia con cui stipare il freezer, qualche bottiglia di vino, pasta fresca ripiena locale in quantità industriale, gli avanzi del menu che non si è riusciti a gustare del tutto per non mettersi in viaggio subito dopo troppo a pancia piena e così via. Che poi uno è abituato a mangiare poco per via del lavoro che fa e del tenore di vita stesso, a pranzo un po’ di frutta per non crollare davanti al pc e alla sera si arriva tardi a casa e non è che ci si mette ad allestire cene luculliane, quindi scambierebbe volentieri la metà di quelle potenziali calorie in sentimento standard.

cinque centesimi, al giorno d’oggi

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Il messaggio ricevuto dice proprio così: la mamma mi aveva regalato una mantellina rossa, tutti mi prendevano in giro ma a me piaceva tanto. È stato necessario un minimo di editing, il testo in realtà è un po’ più sgrammaticato e privo di punteggiatura. E puzza ancora di naftalina come quella stessa mantellina che è rimasta chiusa in un armadio per quanto? Quarant’anni? Sì, più o meno. Ma è stata sufficiente la prima seduta dallo psicologo per scardinare l’anta del mobile e far luce su quello e chissà quanti altri aneddoti. La situazione era grave, anche se non si capiva se ci fosse o ci facesse. Difficoltà arcane nell’ammettere responsabilità applicate a un danno di entità cosmiche che inciderà sulla sua vita, innanzitutto, e su quella dei parenti più prossimi, quindi o è stata sopraffatta sul serio oppure ha finto il tracollo per delegare un po’ di colpa a una terza parte ignota, la testa che va un po’ per i fatti suoi e che è sempre un valido capro espiatorio invisibile. Ma nel dubbio tutti spingono affinché si rivolga a uno specialista, uno strizzacervelli, come li chiamano nei film. C’è da chiedersi come faccia a mantenerselo, però, il supporto di uno psicologo. Dopo la botta che ha ricevuto ora è praticamente nullatenente, il reddito a malapena le consente l’abbonamento del bus per recarsi al lavoro. E, appena fuori dallo studio dopo la prima seduta, subito mette mano al cellulare e si sfoga con la migliore amica. Probabilmente lo psicologo ha iniziato alla grande con il ruolo dei genitori, ma è stato come scoperchiare un contenitore per alimenti dimenticato in eccesso nel frigo. Chi non ha una pietanza andata a male dentro. Un intero menu. Una dieta alimentare completa, compri tutto il necessario poi al terzo giorno ti stufi e riprendi con il cibo a cui sei intollerante, quando ti ricordi degli hamburger di soia ormai sono da gettare. Mio fratello aveva avuto subito la bicicletta, io mai. Dovevo sempre rimanere a casa ad accudire il cane mentre tutti andavano in vacanza. Poi, fiera della sua mantellina rossa, ha deciso di non tornare più dal dottore. Sono tutte cose che sa già, quelle, tanto vale tenersi i soldi e sperare in una storia senza finale.

rifare i letti

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Dovrei convincerti che non si tratta di sonnambulismo, farlo però in modo deciso già a partire da domattina, quando ti sveglierai e ti ritroverai in un letto matrimoniale, tra due genitori e due gatti, e ti chiederai che ci faccio qui? Una domanda ricorrente, dato che qui “ci fai” ogni notte. Quando ti drizzi fuori dalla tua tana di là e ti chiedi perché sia buio, come mai c’è tutto questo silenzio, dove sono tutti quanti e qual è il motivo per cui nessuno ti ha avvertito. Sappi che è una delle poche certezze, davvero. Al giorno segue la notte, alla fatica segue il riposo, allo stare in piedi segue il materasso. Uno per ciascuno, a due piazze se si è una coppia, un po’ più piccolo se si è sotto il metro e mezzo, come una bambina di quasi otto anni. Ma a quel punto della notte l’unica certezza è l’istinto, il richiamo che proviene dalla stanza di là dove c’è tutto quello di cui senti di aver bisogno. E non si capisce quale possa essere la causa. Così ti siedi incredula sul lettino, ti liberi dalla morsa del piumone, salti giù e con i piedi nudi percorri quella breve distanza dal buco nero in cui ti sei ritrovata alla calda sicurezza dei respiri conosciuti. A volte senza che nemmeno se ne accorgano. Poche mosse e sali a bordo, nel mezzo, scavalchi piedi braccia altre componenti umane e feline e ti cali nel tuo naturale ruolo, la rotella che si incastra in più o meno tutto quello che c’è lì intorno. Ma il più delle volte sono i gomiti o i piedi roventi ad anticiparci la consueta novità del mattino dopo. Dovete scusarmi, dici, ma lo sapete, sono sonnambula. Mi addormento di là e poi mi risveglio qui. Davvero, non mi ricordo come ho fatto. Mi sembra di volare. Si, se è per questo anche a noi. Ma non è quello il punto.

una volta eravamo guerrieri

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– Non c’è tempo, non c’è più tempo. Hai capito una buona volta? Non ho tempo.
La madre è al tracollo, la situazione è tesa. Il figlio sta rassettando la tavola, c’è puzza di fritto, la porta sul balcone spalancata per lasciare defluire l’aria ma è novembre e fa un freddo cane. Su Raiuno c’è la pubblicità di una berlina di lusso, al volante siete un uomo, un vincente, sullo sfondo una scogliera, sicuramente è un pezzo di oceano quello che si vede sotto.
– Non posso più farti da madre, hai capito? Ho ottant’anni e tu ne hai cinquanta. Non posso fare la mamma, sono troppo vecchia, dovrei essere già nonna, dovrei essere lasciata in pace. Non posso risolvere i tuoi problemi come quando mi chiamavano i tuoi professori a scuola. Non posso, lo capisci almeno questo? Voglio tirare i remi in barca.
C’è un altro televisore acceso, il marito è di là sul divano, ciuccia liquirizia con quello che gli rimane dei denti e segue un programma dedicato alle sagre locali. Funghi, castagne, prodotti di stagione. La guerra si combatte in cucina, di qua ci sono già le macerie. Ora la lavastoviglie è colma è può essere avviata, il figlio scrolla la tovaglia come ultima cosa fuori, le briciole cadono nel cortile. Poi soffia il filtro della caffettiera come fosse una cerbottana per eliminare la carica usata, come da bambino sparava le palline di stucco nelle interminabili battaglie all’oratorio, e fa centro nel sacco dell’umido anche questa sera.
– Vi preparo il caffè?

la misura conta

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È solo perché è bastato un attimo e otto anni sono volati, puff, forse davvero hanno ragione quelli che giustificano la percezione del tempo dicendo che in realtà l’universo non si espande ma si restringe, le distanze relative si accorciano e ogni unità temporale, per esempio il minuto, dura sempre di meno ma noi non ce ne accorgiamo perché anche i mesi e gli anni sono sensibili allo stesso processo. Una percezione che riguarda anche le distanze se tutto si restringe. Cioè, tra casa mia e l’ufficio ci sono sempre dieci chilometri ma sono meno di dieci chilometri rispetto alla stessa misura di ieri, solo che non me ne accorgo perché nel frattempo si è ridotta anche l’ampiezza della mia falcata, la lunghezza del vagone del passante e così via, ci siamo capiti.

Ma io ho la prova per smascherare questa truffa degna della fine del mondo dei Maya. Come? Semplice. Prendo un pezzo che so per certo essere stato registrato a un determinato bpm. Per esempio “Enjoy the silence” che è stato inciso a 113 bpm nel 1990, e lo so perché ho ancora una base midi che avevo realizzato allora (ed è scritto anche qui). Metto su Violator oggi a 21 anni di distanza e il pezzo suona allo stesso tempo di allora. Cioè l’Enjoy the silence di allora dovrebbe suonare più lento, e non venitemi a dire che anche il piatto del giradischi gira più velocemente perché non è vero, in quanto in tal caso dovrebbe influire sul pitch del brano che invece resta invariato, cioè con un supporto analogico e accelerando l’esecuzione il brano dovrebbe sentirsi in un tono più acuto no? A meno di non assistere a un prodigio fanta-ingegneristico di resampling con intonazione automatica.

Ma questo non è un film e il mondo reale non ha l’estensione di un file Cubase. E gli otto anni sono davvero svaniti ma io me l’aspettavo e oltre ad aver documentato più che ho potuto l’evento, cioè la sua vita (avete capito di chi sto parlando) come potete immaginare, sono sempre lì a organizzare ogni mia attività a seconda del suo tempo libero. Per esempio il martedì dopo l’ufficio vado a fare un po’ di attività fisica, così stamattina accompagnandola a scuola le ho fatto notare che il martedì è una giornata lunga per entrambi. Io ho ginnastica, lei pallavolo nel tardo pomeriggio, e fino alle 19.30 non ci possiamo rivedere, proprio così le ho detto. E dopo, quando è suonata la campanella e con il nugolo di amichette è scattata verso l’ingresso, si è girata e mi è corsa incontro per darmi un bacino, “allora ci vediamo alle 19.30”, mi ha ricordato. Sì cara, e per accelerare ancora di più il tempo in cui staremo separati tenterò uno stretch a 180 bpm della giornata lavorativa (praticamente un djset drum’n’bass).

che bambola

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Uno dei due gatti, la femmina, quella che ha mantenuto una linea più snella essendo meno ossessionata dal cibo a differenza di suo fratello, lo ha scoperto. Si è arrampicata sino al penultimo piano del mobile libreria in sala, ha superato con un balzo la fila degli Einaudi in edizione economica e si è trovata in quel luogo dimenticato da Dio e dagli uomini che in casa chiamiamo il cimitero delle Barbie, geolocalizzato proprio lì dietro. Anche se di Barbie ce n’è una sola.

Si tratta di un luogo inaccessibile (almeno fino a questa mattina) dove nel corso del tempo hanno trovato eterno riposo per sparizione improvvisa tutta una serie di regali indesiderati (dai genitori) ricevuti da mia figlia in varie occasioni. Oltre alla suddetta sexy-regina dei sogni in rosa, ancora inscatolata, vi trovano posto un paio di Winx seminude ma dotate di stivaloni “da strada”, una improbabile Tanya conciata da coatta e dal design completamente sproporzionato, una anonima bambola equa e solidale degna di un film horror e un diario dei ricordi popolato dalle notissime Principesse, il brand con cui la Disney è riuscita a creare economia di scala riciclando in un club esclusivo tutte le protagoniste iperfemminili della storia dei disegni animati americani.

Come ha fatto nostra figlia a non accorgersene nel tempo, mi chiederete. Non è stato difficile: non avendo mai avuto il debole per questo genere di giochi, è stato facile farli sparire dalla scena della festicciola in corso senza destare il minimo sospetto. La gatta, avvertendo probabilmente la presenza di qualcosa, puntava lassù da qualche tempo fino a quando non è riuscita a compiere l’impresa. Ci è toccato così riesumare tutti i cadaveri, abbiamo anche colto l’occasione per ripulire il loculo dalla polvere accumulatasi, mettere via un doppione di Anna Karenina (unendo all’origine le collezioni di due appartamenti non si è trattato dell’unico caso) da sbolognare ai nonni, e spostare resti e carcasse altrove, il tutto ancora di nascosto dalla diretta interessata, ovvero la gatta. Ci siamo chiesti infatti quando rivelare la macabra presenza della fossa comune anche a nostra figlia, un momento lontano a sufficienza nel tempo in cui potrà comprendere la portata del nostro eroico gesto, l’ennesimo sforzo per proteggere il suo gusto e per fornirle i preset adeguati entro i quali sviluppare un senso estetico. In linea con quello di mamma e papà, ovviamente.

e pupe

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Papà, ma quando tu andavi a scuola esistevano i bulli?”. Con mia figlia si sta parlando di un nuovo compagno di classe, un dono inaspettato che arriva fresco fresco da un’altra scuola da cui probabilmente o è stato allontanato o, palesando il dissenso con la linea didattica del comprensorio, è stato ritirato dai genitori stessi. Un dono di cui è stata omaggiata la terza di mia figlia, l’unica terza a essere priva al momento di casi problematici. E in realtà il pacco in questione, per insistere sulla metafora del regalo, non è che sia un bullo, bensì un piccolo cretinetti viziato, con un vocabolario di scurrilità alimentato a grandi fratelli, strisce le notizie e mediasettate varie. Uno di quelli che appena la maestra si assenta dall’aula comincia con il suo show di “bombe atomiche” (che non oso pensare in cosa consistano) e insulti gratuiti, anche pesanti, anzi fortunatamente talmente fuori misura da non essere colti nemmeno dai compagni di classe (papà, cosa vuol dire titoloirripetibile?), che già l’hanno bollato come uno svitato. Ma che talvolta “alza le mani”, probabilmente perché a casa nessuno gliele ha mai “scese addosso” abbastanza. Così, non riuscendo a capire il motivo per cui l’armonia di un gruppo debba essere guastata da un cane sciolto – cara mia, mi vien da dirle, ricorda che questo sarà una costante della tua vita sociale – mi chiede come si stava da studenti in quella dimensione atemporale che è il passato dei suoi genitori.

A pensarci bene, i bulli non esistevano nella mia scuola, perché se fossero esistiti sarebbero stati annientati dai piccoli delinquenti che la frequentavano. Ben altre complessità. Il quartiere in cui vivevo condivideva la scuola elementare e media con uno dei peggiori agglomerati urbani della mia città, popolato da famiglie numerosissime, la maggior parte immigrate dal sud, dai cognomi tanto pittoreschi quanto allarmanti e spesso presenti sulle pagine di cronaca locale e noti per una gamma completa di crimini comuni. Il tutto in un’epoca in cui non esisteva alcuna sensibilità per questo tipo di disagio, né a tutela degli interessati e né a difesa di quelli che, come me, lo subivano. Ricordo in prima media compagni di classe di 16 anni, pluri-ripetenti con cui lo scontro individuale era fuori discussione a priori, sia per la differenza di età sia per il fatto che erano ragazzi costantemente muniti di coltello a serramanico e catene. Stesso discorso con quelli più abbordabili dal punto di vista fisico, con il rischio di vederli poi tornare accompagnati dai numerosi fratelli maggiori, in scala come i Fratelli Dalton. E la partita non poteva essere certo sospesa per manifesta inferiorità dell’avversario. I professori stessi erano a rischio, ricordo casi in cui il limite non è stato superato di poco. Non vi dico il trattamento per quelli un po’ babbionelli come me. Sì, mi direte, anche questo è bullismo, ma il materiale umano dava adito a poche speranze di recupero, tanto che in molti hanno seguito, come da copione, lo stesso destino che la famiglia di origine aveva loro riservato in alcune varianti: con eroina, quindi morte entro i trent’anni o conseguenze croniche sulle spalle della collettività, o senza droghe pesanti ma con un maggior orientamento al crimine, quindi carcere o affini, ancora sulle spalle della collettività.

Da qui, la mia risposta è stata che il bullo in questione, con i capelli dritti sulla testa e le scarpe che si illuminano quando corre, è sicuramente da tener sotto controllo, ma la sua pericolosità è relativa è può essere annientata dalla vostra intelligenza, dalla coesione di tutti contro uno, dal ridurre al minimo lo spirito di emulazione degli altri maschietti e dall’evitare che il fascino della cattiveria possa essere motivo di attrazione anche dalle bambine. No papà, mi dice mia figlia, a me sembra solo un deficiente. Ecco, brava, penso io, lascia perdere i deficienti.

sosta

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Stamattina fa freddo, meglio tenere il finestrino aperto solo due dita, il minimo indispensabile per fare uscire il fumo della sigaretta. Che già fumare a quest’ora, chiuso nell’auto accesa per riscaldare l’abitacolo ma ferma nel parcheggio sotto il portone, significa omaggiare il resto del pianeta di una dose doppia di smog. I due scarichi gassosi si mischiano fuori alla nebbia e insieme avviluppano l’utilitaria malconcia, nascondendo alla vista dei passanti come me la passeggera seduta dietro, che poi è la figlia dell’inquinatore consapevole. Nata con un deficit intellettivo di una percentuale abbondante oltre la metà in una famiglia che, messi insieme, non riesce a colmare l’altra, da sempre sfrutta l’ausilio delle strutture di sostegno e ora, mentre tutti i suoi coetanei sono quasi adulti, aspetta come ogni giorno nella sua dimensione infantile scomoda in un fisico indeciso sulla categoria a cui appartenere il furgone dei volontari che portano un nutrito gruppo di meccanismi difettosi ai rispettivi impieghi, reali e fittizi. Il padre, al posto di guida, tra una tirata e un’altra non muove un muscolo della faccia, l’espressione probabilmente bloccata da sempre come un calco nel gesso da quando ha ricevuto la notifica che la vita normale, da quel momento, mai più sarebbe stata. Ma non è un buon motivo per affumicare una persona anche se non è del tutto registrata e anche se lei, dietro, sembra non curarsi della cortina che si addensa dentro e fuori l’abitacolo. Per la ragazza non fa differenza nemmeno quello, finché il furgone affianca l’auto, il padre ne esce e trasborda quell’enigma che occupa una stanza del suo appartamento su un vettore più adatto, accudita da mani più esperte, in una dimensione più a misura di disagio. Lei si getta sul sedile a fianco dell’autista, che alla fine è il più rassegnato di tutti. Il padre risale in macchina e questa volta mette la prima e parte, in perfetta sincronia con i saluti della figlia, che non restituisce.

Il posto macchina ora è libero, nemmeno un minuto e ci si fionda una fiammante city car multicolore, una di quelle auto che sembrano progettate da un pasticciere. Dentro c’è l’impiegata dello studio del geometra ubicato di fronte, tira il freno a mano ma nemmeno lei non spegne il motore. Dallo specchietto retrovisore nota che l’ufficio ha ancora le serrande chiuse, ne approfitta per accendersi una sigaretta, lasciar sfumare la canzone di Vasco Rossi – che è appena all’inizio, riconosco la strofa – e cancellare dallo smartphone un po’ di messaggi obsoleti. A differenza di chi ha stanziato in quel punto poco prima non apre il finestrino, lascia che il calore non tracimi e nemmeno il fumo, chi se ne importa. Nello studio lavorano in due, lei e il geometra che è sempre fuori a controllare i condomini che amministra. Non ha colleghi, in ufficio è sola quasi tutto il tempo. Vive in un paese sulla stessa circonferenza esterna alla metropoli, tanto che è impossibile recarsi in ufficio con i mezzi a meno di non dover passare per il centro e poi tornare su per un raggio diverso. In auto è a pochi minuti da casa, invece, che diventano più di venti nelle ore di punta e che trascorre in compagnia della radio. Da periferia a periferia. Sul cruscotto e sul divanetto posteriore un’orgia di animali di peluche di ogni ordine e grado, sdraiati in posizioni innaturali, sicuramente impregnati di nicotina e di silenzio, come la loro proprietaria umana. Che apre la portiera e getta la sigaretta sull’asfalto e la richiude, il geometra non è ancora arrivato è c’è il tempo per mettersi il rossetto.

capre espiatorie

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Un bambino corre durante l’intervallo nel giardino della scuola elementare per inseguire con foga un compagno di giochi, passa a ridosso del tronco di un albero, inciampa in una radice e cade a terra. Nulla di grave, graffi sul volto e sul collo, lacrime, visita al pronto soccorso per controllare che non ci siano complicazioni. Indovinate quale sarà la reazione dei genitori:

  1. rimproverano il figlio perché troppo scalmanato, mettendolo in castigo: la lezione è che deve imparare a non essere così turbolento
  2. rimproverano la maestra perché non è stata sufficientemente vigile e avrebbe dovuto impedire ai suoi alunni di giocare all’aperto
  3. se la prendono con la scuola perché fa uscire i bambini in aree a rischio
  4. denunciano il Comune perché avrebbe dovuto tagliare o sotterrare le radici che affiorano oltre la superficie del terreno

Un indizio: il caso è un fedele ritratto dell’odierna società italiana, un tiro al piccione contro la Pubblica Amministrazione.