La sfida era portare un oggetto da casa, un qualcosa qualsiasi a cui si è particolarmente affezionati, per poi fotografarlo e inventarci su una storia illustrata con la tecnica del collage. Poteva essere Tao, il panda che ti teneva compagnia quando ancora, al nido, facevi il riposino dopo pranzo. Ma poi hai pensato di no, ormai sei grande. Poteva essere Boomer, la celebre testa di supereore adibita a contenitore di caramelle che troneggia sul frigo e che avevo acquistato in un mercatino delle cianfrusaglie. Ma hai rifiutato anche quella proposta, perché un po’ ti saresti vergognata, e come biasimarti. Così alla fine abbiamo deciso all’unanimità di prendere lo scheletro di baobab che siamo soliti addobbare con le collane elastiche piene di perline e il cammello con bisaccia, entrambi cimeli africani provenienti dalla precedente vita da weltburger e turista consapevole di mamma. L’appuntamento era in una sala del Museo della Fotografia, dove abbiamo trovato allestito un vero e proprio set con tanto di reflex e luci, e la parte di laboratorio, con fogli colorati, pennarelli, colla, forbici e tante riviste da tagliuzzare. Ci siamo confrontati per qualche minuto, ma date le proporzioni tra i due soggetti immortalati e stampati è stato facile concordare la trama della storia. Un cammello si era pappato tutta l’erba nel prato, e a un secondo cammello non era rimasto nulla. Ma all’animale sfortunato era bastato dare uno sguardo sulla cima del baobab per notare la frutta e i fiori colorati provenienti dalle pubblicità patinate che avevamo ritagliato e incollato sui rami più alti. Quindi, come una specie di supereroe elastico, aveva allungato a dismisura il collo per assicurarsi il pranzo, si era riempito la pancia e aveva deciso di rimanere così, un’evoluzione genetica istantanea e utile per il futuro, da cammello a una specie di giraffa marrone con la gobba. Niente male come coppia creativa, vero? Ah, per la cronaca, il cammello si chiama Ibrahim.
genitori e figli
a mille ce n’è
StandardNon c’è favola più spaventosa di quella in cui i genitori contadini o taglialegna ma comunque poveri decidono di sbarazzarsi dei figli accompagnandoli nel bosco e lasciandoli lì perché non hanno sufficiente cibo per tutti e sperano così che se la cavino da soli o, al massimo, si manifesti la legge naturale della selezione per chi è in grado di cavarsela. Non c’è drago, strega o orco che tenga. Una tragedia che si consuma tra i vincoli familiari, anche se pensata ai tempi in cui braccia e gambe in più erano solo cibo in meno per chi lavorava. Oggi non sarebbe credibile, i genitori accompagnano i figli a scuola fino alla terza media e, a parte casi limite, in genere mangiano prima i piccoli, dopo i grandi. Quando ce n’è. Ma, volontà omicida a parte, è la consapevole crudeltà del lasciare uno o più bambini a sé stessi e per di più in ambenti che, ai tempi delle favole, non erano certo posti dove andare a passeggio.
Ci sono così due trame ufficiali che lasciano a bocca aperta piccini, soprattutto, e qualche grande sensibile a certe tematiche. C’è il bambino intelligente che lascia tracce lungo il passaggio per ritrovare la strada al ritorno, con la mollica di pane e con sassi bianchi che riflettono la luce della luna. Questa è la prima. Ci sono poi un fratello e una sorella che non perdono tempo e trovano una casa di marzapane, tutti sappiamo quel che succede lì dentro e quanto vorremmo passarci un weekend.
Ma è l’epilogo che è sconcertante. Qualunque disgrazia succeda, si è sempre pronti a dare una seconda possibilità a una madre e a un padre, che da pentiti lasciano un po’ di sgomento ma fanno spesso pena. C’è chi ha un ricordo remotissimo di sé, lasciato solo e vulnerabile da qualche parte in preda alla disperazione che hanno i bambini quando un punto di riferimento viene coperto da qualcosa o scompare dal campo visivo, e che ha salutato la riapparizione dei genitori come la salvezza, tanto da lasciare che la gioia del lieto fine spazzasse via la rabbia del torto. Poi magari è una macchia di quelle che non vanno più via tanto che resta presente, anche se con tratti ai limiti della definizione ma di cui si è sicuri della veridicità. Però se nella realtà è così, mi chiedo perché nei racconti dovrebbe andare diversamente e che cosa si intenda inculcare con storie più che datate di abbandono. E non è che i bambini si addormentino prima.
coincidenze
StandardAveva tre anni se non ricordo male, e credo sia successo quella volta lì come prima volta solo perché non era mai capitata una congiuntura di eventi così perfetta. Lei già non più piccolissima, io di rientro da una trasferta di lavoro per di più la sera tardi, lei ancora sveglia, io poco attento a non far rumore con le mandate della serratura, le chiavi sulla mensola, la porta che sbatte. Così, dopo pochi secondi, in quel po’ di luce che filtrava dall’abat jour della stanza di là eccola spuntare di corsa in pigiama e a piedi nudi che chiama papà, così mi sono chinato e inginocchiato per prendermi tutto quell’abbraccio e mettermi perfettamente alla sua altezza. Le sue braccia al collo, le mie intorno al suo torace, le guance strette e aderenti. Siamo rimasti così per un po’, mi era sembrato tanto ma è già così nel passato che non saprei dirvi quanto, sapete la concezione della durata del tempo come muta con la memoria a distanza, perché intervengono numerosi fattori a imbalsamare gli attimi archiviati, un po’ come i filtri dei programmi di fotoritocco o i conservanti per gli alimentari. E non dico questo in senso negativo, anzi. Dicevo, siamo rimasti così per un po’ e ho pensato, questo tale e quale ad ora, che era la prima volta così, che da allora in poi avrei avuto un corpo da stringere in quel modo adulto con tutto il mio amore paterno. Per mia fortuna da allora di abbracci così ce ne sono stati una sequenza fuori controllo, per mia sfortuna ora lei è molto più alta di allora e la mia schiena ha subito qualche trauma per il quale non riesco a fare più, come ho fatto tante volte, quella cosa bellissima che è abbracciarci, io mi chino e quando lei è aggrappata al collo la tiro su. Devo chinarmi e poi salire lentamente, è chiaro che pesa anche di più, ma poi alla fine ce la faccio. Con l’età è un po’ più difficile sbaciucchiarla, quindi devo darmi una regolata e pensare che, prima o poi, questi scambi molto fisici di affetto inizieranno a diminuire. Addirittura dicono che a un certo momento cessano quasi del tutto e le figlie si dedicano a stringere altri, ma finché non lo vedo non ci credo. Tsk.
lungometraggio
StandardDa dove viene l’abilità nel misurare le persone per le loro dimensioni effettive. Sembrano così alte e poi le raggiungi e riesci pure a guardarle dritto negli occhi, che sorpresa. Sembrano così forti ma non lo sono molto più della media, e non è che li devi prendere a pugni per accorgertene. L’attitudine a utilizzare la giusta scala nel riprodurre le bellezze e le bruttezze del mondo dentro di sé e sviluppare il più equilibrato sistema di adattamento, generalmente sintetizzabile nel motto “massimo rendimento con il minimo sforzo”, probabilmente viene da quella materia grezza che ti ritrovi alla nascita e che si chiama autostima, che per sfruttare ancora questa similitudine me la immagino come un panetto di Das appena scartato, con quella fragranza e quell’arrendevolezza che a me faceva venir voglia di dargli un morso. Bambini non provate a casa quello che leggerete qui. Su quel blocco grigio ci si mettono un po’ tutti, ci si lavora a più mani, le tue sono sempre le più delicate perché si nasce tutti con l’indole di fare i capolavori. Poi intervengono da fuori in quel modo un po’ grossolano, basta fare in fretta, ma che è un sistema sbagliatissimo. Così inizi a gettare gli scarti che si sono seccati e varchi la soglia dell’autodeterminazione con quello che ti resta, se va bene meno della metà della dotazione di partenza. Ed è naturale che lì prendi gli abbagli, ti senti in un pianeta magari non di giganti, diciamo di individui piuttosto ingombranti. Un consesso di autorità morali e professionisti del saperci fare che non è colpa loro, fidati, è solo la tua percezione. Ma se ti rimane quel dubbio da qualche parte, quello di essere stato raggirato solo perché era meglio emanciparsi ed essere profittevole il prima possibile, se trovi lo scontrino del negozio in cui ha acquistato la plastilina poi sarebbe il massimo ma, si sa, un tempo gli scontrini non erano certo il nostro forte. Ecco, è lì che si guarda ed è quando poi tutto si livella, ogni cosa riassume le giuste proporzioni, e con un po’ di fortuna si trova ancora qualche posto a sedere. Addirittura con le luci accese e prima dell’inizio dello spettacolo, dicono.
rock’n’roll robot
StandardAvete presente quei ragazzini che smontavano le radioline rotte per vedere come funzionavano e le rimontavano e miracolosamente le radioline rotte funzionavano di nuovo, perché secondo me c’era il trucco. Tipo che le pile prima erano scariche, loro lo hanno capito, ne hanno comprate due nuove con la paghetta della settimana precedente e hanno riportato la radiolina sintonizzata su “Tutto il calcio minuto per minuto” al padre, che li ha guardati esterrefatto e ha chiamato apposta la moglie per dirgli “cara, nostro figlio sarà un ingegnere, me lo sento”. Ma al massimo sono diventati bravi meccanici, e beati loro perché guadagnano più di me e soprattutto hanno iniziato a collezionare contributi quando noi suonavano ancora gli Ultravox alle feste del Liceo. Per non parlare dei ragazzini un po’ più upper, figli di professionisti o medici, che snobbavano la radiolina perché già smanettavano sul Commodore 64 scrivendo i loro primi programmi in linguaggio macchina facendo terra bruciata intorno, perché intorno i supporti a nastro si usavano solo per risparmiare sull’acquisto dei long playing. Insomma, un’ampia componente di temperamenti transgenerazionali che ha fatto la gioia di mamma e papà aprendo lo cose per vedere che cosa c’era dentro e capirne il perché. Io lo so il perché. Gli esseri umani, gli altri, i compagni di classe di quei mini-scenziati non si potevano aprire, per ovvi motivi morfologici, e non mi riferisco solo agli aspiranti chirurghi. Nessuno avrebbe aperto un corpo umano vivo, a parte qualche giovane delinquente spinto da necessità di approvvigionamento. Ancora meno probabile sezionare una scatola cranica e capire che cosa passava per la testa dei propri simili, la percentuale di fattibilità di un approccio invasivo risultava praticamente pari a zero. Ma per riprodurre un diagramma di flusso dei sentimenti sarebbe stato sufficiente osservare, ascoltare, chiedere. Tutte funzioni impossibili da scrivere in codice e vincolate a un processore dai battiti troppo lenti e troppo rumorosi, difficili da coprire soltanto col silenzio della solitudine pomeridiana.
in the mood for love
Standard-Papà, lo sai che non amo più Livio?
– …?!?
– Si, ho deciso che non lo amo più. E sai perché?
– Beh, in terza elementare parlare di amore…
– Per cinque ragioni: Livio è presuntuoso, vanitoso, spione, bugiardo e permaloso.
– Sì, ma mangia nel frattempo. Non ti sembra di essere un po’ troppo severa?
– È presuntuoso perché dice sempre che è bravo solo lui, è vanitoso perché si dà le arie e pensa di essere bello, spione perché appena uno fa qualcosa lui subito “maestra Manuel ha pasticciato il diario” o “maestra Alessandro si è alzato”, bugiardo perché una volta ha detto che Angelo aveva copiato da lui, così la maestra ha punito Angelo ma non era vero, e permaloso perché se gli dici che non ha ragione diventa una belva.
– Sì, ma mangia nel frattempo. Ma non ti eri accorta che Livio era così prima di amarlo?
– No, perché è così da novembre.
l’educazione sentimentale
StandardLo sai, vero, che non sono mai riuscito a convincerti di qualcosa. A persuaderti anche solo a proposito di una sciocchezza sulla quale io ne sapevo di più, per non dire di cui ne ero competente, che magari era già il mio lavoro. E che questo gioco di far finta di assecondare per poi lasciar cadere nel dimenticatoio alla fine è diventato uno standard nei rapporti diretti e che ora che il tempo ha eroso elasticità ai rispettivi cervelli ha reso noi due bastioni contrapposti da cui non si percepisce nemmeno una deflagrazione se siamo al riparo, spalle al muro dentro, da una parte e dall’altra. In mezzo poco più che un’area dismessa da tempo, uno di quei posti che nascono già obsoleti prima ancora di essere costruiti e che rimangono lì, oscenamente esposti come monumento allo spreco di denaro pubblico. Noi invece abbiamo sprecato le occasioni di raccontarci, tu non sei stato abbastanza veloce da approfittarne prima, io abbastanza coraggioso da chiederti il perché dopo. Alla fine poteva andare anche peggio, potevo cadere nello stesso errore, per fortuna sono stato persuaso in tempo e ora ci ho preso gusto. Ne sono più che convinto.
non so se augurarmelo
StandardLi vedo ed è proprio come pensavo: mamma che piange per la commozione, papà che la segue un passo indietro con quella sua espressione che fa quando si sente un po’ fuori luogo, ma forse è solo provato da tutte quelle ore di volo che sicuramente avrà passato da sveglio a cercare di tenere a bada la tensione, leggendo o ascoltando musica. Ci abbracciamo comunque tutti e tre e siamo felici di poterci toccare di nuovo, poi gli faccio strada verso la fermata della linea che ci porterà a casa mia anche se non riusciamo a camminare stando affiancati, la calca è quella del Natale delle grandi città americane e noi siamo in tre con un grande e rumorosa valigia a rotelle da trainare e tante cose da dirci. E così seduti sulla metropolitana leggera, loro di fronte me, possiamo raccontarci tutto, quello che abbiamo fatto in tutti questi mesi. E vedo che mio padre si guarda intorno, a lui piace osservare le cose più comuni, le pubblicità nei display, i cappelli delle persone, i colori dei sedili, e paragonarli con tutti quelli che ha visto nei posti che conosce per dimostrare a se stesso le differenze. Allora gli chiedo come se lo immaginava, questo momento.
E mi racconta di un Natale di tanti anni prima, io ne avevo sette o otto, e avevamo trascorso la vigilia tutto il giorno in casa a giocare insieme con quei passatempi inventati, tipo cercare di colpire le palline da ping pong, colorate come palloni degli altri sport, stando sdraiati per terra a lanciarcele a vicenda, o le storie di Barbie e Ken che lui voleva sempre portarla alla mostra, e tutto si svolgeva nella città che avevamo immaginato nei vari ripiani a cubo dell’Expedit di camera mia, ognuno era un ambiente.
A cena ci aveva raggiunto Laura e tutti insieme avevamo guardato, io per la prima volta, The Blues Brothers, un film che era in programmazione anche alla tv ma che papà aveva preferito scaricare per poterlo seguire senza interruzioni pubblicitarie. E anche se non l’avevo mai visto, io ne avevo sentito già parlare, questo lo ricordo, perché c’era quella scena di Aretha Franklin che canta e balla con le pantofole rosa che avevo impersonato nello spettacolo dei bambini al campeggio l’estate precedente, cantando Freedom e ballando alzando le braccia sopra la testa come negli anni 60. E infine tutti a letto, io che non vedevo l’ora di addormentarmi per lasciare il posto a Babbo Natale che mi avrebbe portato i doni che avevo specificato nella letterina.
Così lui e la mamma si sono poi alzati quando ho preso sonno – avevo chiesto di poter dormire nel lettone con loro – e hanno allestito la sorpresa. I pacchi sotto l’albero e addirittura papà che ha svuotato il succo di frutta in cartone che avevamo lasciato come ristoro per Babbo Natale al posto del latte, i gatti non ne avrebbero risparmiato nemmeno una goccia. Papà aveva simulato il cartoncino vuoto strizzato con la cannuccia infilata ed era tornato a letto, ma mi confessa che non era riuscito più a riprendere sonno. Aveva iniziato a rimuginare a una situazione proprio tipo questa, io che vivevo con una borsa di studio negli USA e loro che mi venivano a trovare per Natale. Poi, mi dice, gli era sembrata straziante la distanza in confronto alla vicinanza di noi tre in quel momento, stretti nel letto. E aveva provato a fare mentalmente dei fotomontaggi come se avesse Photoshop aperto, sovrapponendo il mio volto all’interfaccia di Skype, ai tempi si usava ancora quello per video-comunicare tramite Internet, ma non ci riusciva perché il programma andava in crash con un’operazione irreale come usare il viso di me bambina, e gli era impossibile figurarsi i lineamenti che avrei avuto da grande. E a furia di pensare a quella storia aveva pure perso il sonno, e si era addirittura alzato per scriverla.
la prima ora delle vacanze di Natale
StandardMentre esco con mia figlia per mano dal cancello del cortile di mia suocera e lei mi sta travolgendo con il solito mix di domande e di cose da raccontare una dietro l’altra che non riesci né a rispondere e tantomeno a intervenire perché è già quattro ore che non ci vediamo e in quelle quattro ore sono successe tante, troppe cose, e per fortuna questa volta sono in vacanza, anzi sta trascorrendo la mia prima ora ufficiale di vacanza e non me ne sono ancora reso conto del tutto. Ma sono lì al cancello di questo insieme di condomini di una cooperativa che sembra un po’ la periferia di una città qualsiasi del Patto di Varsavia, però potremmo essere sui gradini della Défense a Parigi perché non è l’architettura che fa la felicità ma quel pezzo di me che ho per mano e tutto è perfetto, e dietro di noi arriva zoppicando la signora con la barba e il bastone, la conosco di vista perché abita lì e avrà almeno novant’anni che, a parte la barba, spero di portarli così tali e quali a lei, e sente quella specie di dialogo che poi è un monologo. E mentre le tengo aperto il cancello lei ci guarda e mi dice che io e mia figlia le ricordiamo lei e suo papà, che quando veniva a prenderla gli faceva una testa così a furia di fare domande e raccontare cose. E chissà tutte quelle cose, tutte le parole, tutto quell’amore e quella gioia nel vedere il padre, che ora stiamo vivendo in tre lei compresa, e suo padre stesso, ecco chissà dove sono finiti adesso.
complicità e complicazione hanno la stessa radice?
StandardLeggo in un romanzo un passaggio riguardo ai figli che trovano in un modo o nell’altro la via per contrapporsi ai genitori, se non di ribellarsi, il che costituisce una fase inevitabile della crescita. Per me e per molti della mia generazione e di quelle contigue è stato fin troppo facile trovare i punti di rottura anche solo provvisori, che poi alcune ferite oggettivamente irragionevoli si sanano altre, giustamente, hanno conseguenze e restano come monito, le cosiddette cicatrici, o nel peggiore dei casi si infettano purulente dando luogo a secrezioni che ti inondano la casa, dio che schifo, tanto che poi fai prima a dartela a gambe che a gettarti in quel magma per mettere in salvo gli altri. Ma ora è diverso, no? Se metti a disposizione di un figlio una opzione e il contrario della stessa rendendo plausibile cioé anche la versione alternativa alla via corretta, lo so sto parlando troppo genericamente ma preferirei non entrare nei dettagli. Se gli/le dimostri che ci sono due possibilità entrambe accettate e riconosciute dal diritto naturale della microsocietà famigliare cui appartiene, e si tratta di un bipolarismo in grado di coprire l’intera gamma dei comportamenti dal più tradizionale al più scavezzacollo, e mettiamo che il figlio capisce che di là ci sono solo alleati e che nessuno è nemico, perché un nemico non ti offre una via di fuga. Ecco, poi uno/a cresce e a cosa si ribella? Posso considerarmi tutelato? La mancanza di scontro può essere deleteria? C’è un dottore in sala?