io mi sto preparando. Non è vero.

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La sensibilità dei bambini ti disorienta, soprattutto se sei un adulto e per una serie di motivi che non staremo a discutere qui usi all’incirca lo stesso timbro nei modi in cui percepisci le cose e le tieni dentro e non le rigetti poi fuori proprio per quel motivo lì, e cioè che ti sembra che quando le parole si aggrovigliano lì all’altezza della gola, in un ingorgo proprio nella galleria che il tempo ha scavato sotto il cosiddetto pomo d’adamo, pensi che non abbia molto senso. Voglio dire, anche solo per l’usura e gli anni di rodaggio, il sistema per un adulto dovrebbe essere molto ma molto ben più fluido no? E se non è l’emozione o, nel peggiore dei casi, il magone, a noi grandi ci salva quell’inibizione, che poi dicono che a una certa età si affievolisca di nuovo. Quel filtro anti-spam, chiamiamolo così, che in uscita blocca le impressioni estreme che i bambini sentono di dover comunicare a tutti i costi e che sono difficili da tener sotto controllo. Passa qualcuno messo maluccio da un punto di vista fisico ed ecco che subito i bimbi puntano il dito, fanno domande, rilasciano commenti, definiscono malattie, il tutto in un modo piuttosto plateale che vai poi a cercare di rimediare la situazione, far finta di nulla, deviare il discorso o, molto più frequentemente, scusarti con il malcapitato di turno. E non si tratta di educazione, almeno spero di no perché altrimenti mi dovrei mettere oltremodo in discussione come genitore e se è così, vi prego, avvisatemi.

Non solo. Per un dispetto tra compagni di classe ho sentito volare parole grosse e nemmeno bizzarre come le parolacce che i bambini dicono di non conoscerne nemmeno il significato. Almeno così sostengono poi la mamme e i papà. Chiaro che siamo nel pieno dell’imprevedibilità e nella totale volatilità degli stati d’animo, basta un diversivo e le discussioni si appianano, le amicizie si rinsaldano, i bronci tornano a essere con gli angoli della bocca all’insù e le labbra aperte sopra gli incisivi mancanti. Si torna a passare palloni, a condividere vestiti delle bambole, a far provare biciclette, a scambiarsi figurine.

Su altre tematiche, quelle che in situazioni normali dovrebbero riguardare di più i grandi, molto spesso i figli si dimostrano invece molto profondi, capaci di individuare il seme da cui è nata e cresciuta una vicenda fino ad appassire in dramma. O semplici componenti della vita, come la naturale fine della stessa. Mettete il fatto che con madri e padri non più giovani come un tempo è facile maturare le prime esperienze di perdita di parenti anziani fin dalla tenera età. Un mistero che va affrontato senza tanti fronzoli fatalistici anche se l’approccio fiabesco del trapasso in una dimensione spirituale, religiosa o no, rimane sempre il migliore. Già per i bambini è difficile capire la vita, figuriamoci l’assenza della stessa. Comprendere poi il tutto con il tatto imbevuto di cinismo di un adulto, ancora peggio. Per questo mi perdo nell’osservare le loro interpretazioni di quello che a noi passa di fianco a mille all’ora e nemmeno ci sforziamo di capire di che si tratta, mentre loro fermano spesso senza che nemmeno ce ne accorgiamo, con quell’immaginazione che uno pensa sia pronta a registrare ricordi come disegni di gessetti colorati su una lavagna nera o collage fatti con ritagli di inutili pubblicazioni allegate ai quotidiani.

Quando è morto Lucio Dalla, per esempio, se ne è parlato molto un po’ da tutte le parti e anche in casa c’è stato qualche cambiamento, su tutti il fatto che sull’onda emotiva abbiamo iniziato ad ascoltarlo di più. Mia figlia ha scelto come suo brano preferito l’aria di “Caro amico ti scrivo”, e ora non vorrei sopravvalutare il processo che l’ha portata ad annoverare l'”Anno che verrà” tra le sue canzoni preferite, ma il fatto che parli di progetti futuri a voce di un artista che, passato altrove, di progetti non ne può più allestire, le ha fatto nascere delle domande che per la sua età emotiva non è ancora in grado di formulare. Oppure come nel caso di quell’adulto di cui parlavo prima, anche a lei le parole vanno a mettersi in coda prima di uscire dalla bocca e così cambiano strada, diventano liquide, trovano la scorciatoia dagli occhi e da lì fanno un po’ male, anche a chi le vede solo uscire da fuori magari senza capirne il perché.

i figli so’ piezz’ e copy

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l’erba non voglio cresce copiosa nel giardino del tiranno

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È una delle prime affermazioni che mia figlia ha imparato a dire con convinzione perché addirittura all’asilo nido le educatrici hanno insegnato a lei e a suoi compagni a far valere così la volontà individuale in risposta ai soprusi dei coetanei. Fin dalla tenerissima età le linee guida sulla gestione della conflittualità interpersonale sono state molto chiare: non si deve spingere sull’acceleratore e rischiare la deriva violenta. Se qualcuno cerca di rubare la palla, dà uno spintone, fa una pernacchia, canzona uno scivolone altrui o altre angherie del genere, la vittima, anziché reagire con altrettanta veemenza , deve opporsi solamente con la propria convinzione verbale. “Non voglio!”. Nessuno strattone, nessuna resistenza, mani e piedi a posto, lingua e parolacce a freno, ma solo la certezza nello sguardo e in due laconiche parole che nessuno potrà fare qualcosa a cui si è contrari. “Non voglio!”.

E ciò mandava in estasi noi neo-genitori perché vedevamo crescere l’autopercezione e la difesa dei propri spazi in quelle piccole creature alle prese con le prime esperienze nel gruppo dei pari. Pronti a giocare insieme, a ritagliarsi i momenti di decompressione in solitudine, ad accettare o imporre regole e a dire di no quando lo si trovava appropriato. Il “non voglio” suonava come una parola magica, un incantesimo grazie al quale i nostri figli potevano attivare una sorta di barriera protettiva secondo circostanza, un superpotere contro il prossimo in quella parte della giornata che proprio a causa dell’organizzazione della vita di noi grandi gli si imponeva di trascorrere separatamente e sfuggiva al nostro controllo.

Il “non voglio” poteva fare un po’ le veci di un nostro intervento risolutore, anche se è sbagliatissimo – e lo dicono tutti i manuali sulla corretta genitorialità – essere di parte nelle diatribe infantili soprattutto se la parte è la stessa dei propri figli. Per esempio, e lo so che qui rischio l’ostracismo da parte dei blogger che trattano argomenti legati all’educazione e dei bravi papà imparziali, a me è capitato di entrare di corsa in un parchetto giochi perché un piccoletto tedesco stava spingendo con arroganza mia figlia che all’epoca aveva si e no tre anni e vedere mia figlia cadere nella sabbia ai piedi di uno scivolo in plastica aveva toccato profondamente il mio orgoglio. E l’ho rimproverato duramente, quel crucco in miniatura – che tanto non mi avrà capito – visto che i suoi genitori, che come me si godevano le bellezze della Corsica, non avevano manifestato nessuna intenzione di dirimere il conflitto. Non si danno gli spintoni, non te l’ha insegnato nessuno? Tuo bisnonno chissà quanti ne ha fucilati dei nostri, quando metteva a ferro e fuoco le nostre campagne in cerca di quelli che volevano cacciarlo e che lui chiamava banditi? Ed è inutile che ora fate tanto quelli che salvano gli stati europei come il nostro con l’acqua alla gola, siete sempre i prepotenti di un tempo, voi e i vostri campi di concentramento. Ecco, non gli ho detto proprio così ma il mio tono riassumeva uno stato d’animo frutto di anni di antifascismo militante. E comunque mia figlia non aveva nemmeno pianto, si era alzata un po’ imbronciata più per il vestitino impolverato e la cosa era finita lì, e anche se al piccolo turista tedesco ha detto “non  voglio” prima che la strattonasse a terra probabilmente il nostro Hans o come si sarà chiamato non avrà capito o probabilmente avrà intuito che mia figlia non ne voleva sapere di cedergli il posto sul cavallo a molla o quel che era.

Comunque, il vero problema dell’imparare a non volere fin dalla tenera età è che poi è un meccanismo difficile da gestire. Voglio dire, se per le educatrici del nido è un passepartout per responsabilizzare i bimbi sull’autogestione dei comportamenti sopra le righe, se è una formula magica per far salire di livello la personalità individuale, bene, sarebbe però il caso di dotare i genitori della contro-formula, l’antidoto superiore grazie al quale il “non voglio” può essere annullato. Questo perché poi, crescendo, il non volere condividere una macchinina diventa il non volere cose sempre più grandi e non volerle con un una volontà sempre più ferrea e adeguata all’età, soprattutto al di fuori delle mura scolastiche. Che poi diventa difficile da superare e che costringe a continui compromessi per condurre il proprio mini-avversario nei paraggi dell’obiettivo. Così ti aggiri per gli spazi presidiati da bambini e ragazzini ed è tutto un “non voglio” fare questo o quello, una massa in ribellione alle minime regole degli adulti che quando la creatura si aggira verso i sette-otto-nove anni ci si trova a rimpiangere quei bei tempi in cui a tavola volavano scappellotti e si poteva inseguire la prole con il battipanni per metter fine con la forza a ogni questione lasciata a metà. Ma questo è il prezzo che si paga se si vuole vedere i propri figli già cittadini attivi prima ancora che imparino a scrivere il loro nome o qualunque desiderio sulla letterina a Gesù Bambino. Spetta a noi, di queste nuove dinamiche famigliari, trovare la giusta collocazione e il modo di usarle a nostro vantaggio. Sempre che sia possibile.

un po’ e un po’

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Quella di trovare forzosamente le somiglianze tra genitori e figli è un’usanza che acquisiamo per imitazione. Forse dentro abbiamo l’imprinting di chi l’ha fatto con noi e cresciamo con questa cellula che poi un bel giorno impazzisce, inizia a moltiplicarsi come solo lei sa fare e si manifesta in pensiero e conseguentemente in azione al momento in cui qualcuno ci piazza davanti il sangue del suo sangue come un trofeo, che poi nel caso della mamma il neonato può anche essere considerato il riconoscimento tangibile di un percorso che per natura si conclude con uno sforzo immane, visto il dolore che dopo secoli dall’invenzione della medicina è rimasto tale solo perché riguarda la donna. Voglio dire, sono convinto che se il parto fosse una funzione anche o solo maschile un rimedio per ridurre il male che il passaggio di un essere vivente (intero) attraverso un canale dal diametro così ridotto implica sarebbe già stato inventato, e l’anatema del “partorirai con dolore” lanciato su attività maschili che riguardano anche preti e prelati sarebbe già stato annientato almeno dai tempi dei salassi e delle terapie a base di sanguisughe. Ma sappiamo tutti che non è così, la maternità è la maternità, anche se a volte sono i padri che, fieri del loro apporto inseminatore – irrisorio, pur piacevole – scoprono le carrozzine ai curiosi che subito si cimentano nella gara delle affinità. Assomiglia più a mamma o a papà? E, dicevo, si tratta di una domanda che forse non ci verrebbe nemmeno in mente di fare se qualcuno non avesse tratto a sua volta una sintesi sommaria dei nostri lineamenti per tirare fuori la percentuale di punti in comune con uno o l’altro genitore. Così dobbiamo vendicarci. Perché scoprire di avere un punteggio inferiore al venti o trenta percento – per non dire nullo – alla fine della ricerca nella mappa somatica sul volto del proprio figlio/a è tutto sommato offensivo. Non tanto per la messa in discussione della paternità o maternità, e qui si sconfina in un’altra tematica, ma perché il non ritrovamento di aspetti fisici in comune suona come un’accusa. Non ti sei impegnato abbastanza. Non hai fatto del tuo meglio. Non ti sei concentrato e ti è venuto male. Ed è lapalissiano che il perfetto equilibrio, un salomonico fifty-fifty, metterebbe di buon umore tutti i membri di entrambe le famiglie di appartenenza, e sapete meglio di me quanto a volte siano delicati gli equilibri tra chi pretende di avere voce in capitolo sugli eredi oltre i diretti e più prossimi interessati. Ma nella realtà raramente è così. Così quando ci si trova di fronte a una copia sputata dell’uno o dell’altro genitore, e consapevoli dell’imbarazzo che l’appurarlo comporta – ed è qui che, per evitarlo, sarebbe stato meglio pensarci prima di giocare a questa versione dal vivo di “aguzzate la vista” – subito ci si ingegna nel trovare qualche dettaglio per salvare il salvabile. Il neo è del papà. La fossetta è tale e quale quella della mamma. Gli angoli degli occhi sono i tuoi. E così via. Ma è un dato di fatto. Quando è tanto tempo che non vedo mio papà, io mi metto davanti allo specchio, non ho nemmeno la necessità di immaginarmi con i capelli bianchi o con la memoria che vacilla o con il fare noioso perché si tratta di aspetti che hanno portato al 100% il nostro essere uguali. Allo stesso modo quando guardo mia figlia vedo mia moglie, e sento quella vocina che mi dice che non mi sono impegnato abbastanza. Che non ho fatto del mio meglio. Il tutto in perfetta linea con un sacco di altre cose che mi riguardano. Ma, questa volta, tiro un sospiro di sollievo.

com’era quel paragone tra le stagioni e le età dell’uomo?

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La temperatura, quando sale, gioca brutti scherzi. Il caldo è un alleato nel complotto che si perpetra nei tuoi (tuoi in generale, sia chiaro) confronti. Prendere il treno dà più fastidio, camminare è più faticoso, la pazienza è agli sgoccioli, se devi ancora partire metti la polvere della tua vita grama sotto lo zerbino della coscienza, se sei appena tornato sei infastidito il doppio per quella polvere da pulire  sotto lo zerbino della coscienza di cui ti eri dimenticato e te la prendi con il te stesso di tre settimane prima. Ma non è sempre così grigia.

Quando hai un po’ di tregua capita che senza rendertene conto d’improvviso ti rilassi in eccesso e crolli addormentato, ovunque ti trovi. Sei seduto su una panchina sotto un albero al momentaneo fresco, c’è pure una brezza, e prima di accorgerti che in quel momento non c’è proprio nulla da temere, i bambini a cui stai badando sono a zonzo in bici e non c’è nessuno che viene a rivolgerti la parola, serri le palpebre e cadi. E assistendo da fuori a una scena del genere, cercando di rispolverare anche solo per un istante il metro di giudizio di un giovane, un adulto che sonnecchia in pieno giorno su una panchina lascia un po’ così, perché quando si è ragazzi si dà per scontato che i grandi seguano un modello comportamentale rigorosissimo. Siano adulti, appunto.

E solo quando poi si consegue la patente di maturità si ha il diritto di andare dietro le quinte della vita dei nostri modelli, e magari scopri che c’è uno zio che ha fatto trascorrere una vita da inferno a tua zia tradendola in tutti i modi possibili e, oltre il danno la beffa, una volta rincoglionito dall’età ha accusato sua moglie di tutte le nefandezze che le ha inferto lui, confondendo e sovrapponendo la sua vita su quella della sua vittima. Ma quando eri giovane era il padre dei tuoi cugini, questo poteva bastare.

Così tiri un sospiro di sollievo se te la stai cavando bene, e una pennichella di fronte a un nutrito gruppo di adolescenti non è certo la fine del mondo. Basta quel pizzico di vergogna che subentra al torpore del sonno nel momento in cui la testa ha un sussulto e cerchi di ricomporti. Quando si è grandi le responsabilità sono una adiacente l’altra come piastrelle. Ma con tanto di fughe nere, interstizi in cui ci si deve cimentare con tutte quelle emozioni di cui da adulti ci si vergogna e tutte le tracce di sporco che quelle emozioni hanno lasciato colare proprio lì, ed è con l’olio di gomito che si trascorre quella parte della vita – la seconda – che non c’era poi tutta ‘sta voglia di raggiungere. Così da un pubblico totalmente immaginario, perché con così pochi anni non catturi l’attenzione di chi ha ben altro a cui pensare, si passa all’avere spettatori impietosi che stanno ad aspettare il colpo di teatro comico per metterti alla berlina. Come appisolarti all’ombra nel mezzo di un pomeriggio di estate.

anche prima esperienza

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Uno potrebbe dire che si tratta di esseri in via di estinzione se non fosse che è paradossale, perché almeno loro la continuità della specie se la sono assicurata e quel marmocchio che spingono su un carrozzino vecchio modello ne è la prova tangibile. Incontrare giovani coppie che si sono riprodotte potrebbe essere una nuova disciplina, una branca dello human watching, esemplari che si scorgono raramente ed è bene appostarsi e munirsi di binocolo e borraccia perché l’attesa potrebbe essere lunga. E a quel punto fotografarle in barba alla privacy, perché quando le vedi ispirano tenerezza con quello sguardo ancora incredulo che dice diamine, non ci possiamo credere, ce l’abbiamo davvero fatta. Che poi non è che siano proprio giovanissimi. Gente di trent’anni che indossa la maglietta dei Radiohead e che viene da pensare che almeno con l’educazione musicale quel bebè è a posto ma si sa, se hanno atteso così tanto non è del tutto colpa loro. Un po’ forse è proprio l’abbigliamento ancora da sciamannato che trasmette inadeguatezza ma non è che una volta che diventi papà e mamma devi tapparti con quel decoro di apparenza quando dentro sei ancora un tumulto tutto da liberare. Così uno pensa in che modo quella coppia che avanza portando con sè quella sorta di trofeo honoris causa sia riuscita a emanciparsi dalla schiavitù socioculturale che lega un progetto privato come quello del moltiplicarsi (per uno) a una disponibilità economica più o meno costante e, in altri casi, a una realizzazione personale per la quale il sacrificio genitoriale costituisce un ostacolo. Oppure semplicemente sono due che a un certo punto si sono detti chi se ne fotte, in qualche modo ce la caveremo. Ecco, spero sia così perché se stai a fare calcoli e aspetti a vedere che succede alla fine ti ritrovi che la natura ti mette i bastoni tra le ruote e non c’è più niente da fare. E ciò non vale solo per la famiglia, perché comunque si tratta di un’esperienza che come tante altre può essere anche perdibile, però se un minimo minimo ce l’hai dentro e hai tutte le carte in regola e pensi che ci puoi credere veramente, è bene di darci dentro e farlo. La coppia che vedo ora deve solo acquisire un po’ più di dimestichezza con la situazione a tre, si vede che entrambi non sanno da dove sia meglio sottrarre l’attenzione che il nuovo arrivato richiede, se da sé stessi o dal partner o un po’ e un po’, è solo questione di prenderci la mano. Il caldo è quello delle migliori occasioni e i due, anzi, i tre si fermano all’ombra di un albero, c’è la tregua che precede l’invasione delle zanzare e c’è pure l’aria che si muove e che porta ristoro. Lei prende tra le braccia il piccolino e poi lo passa al compagno che gli fa il solletico con la barba. Vedete, non è difficile, proprio per niente.

non fanno la felicità ma aiutano

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Alla terza o quarta volta in cui il ragazzo ha chiesto al padre che cosa ci facevano lì mi sono incuriosito anche io. Scostando la tenda li vedevo sotto, in strada, oramai da quasi un’ora. Prima entrambi sullo stesso lato, poi, probabilmente terminati gli argomenti di conversazione, il ragazzo si era messo all’ombra sotto il balcone della casa in cui ero ospite e il padre era rimasto dall’altra parte a scrutare a destra e a sinistra quei pochi mezzi che transitavano a quell’ora, mentre tutti in paese sono a pranzo e gli anziani già a fare la pennichella al fresco nelle loro stanze da letto con gli scuri socchiusi e le zanzariere per non fare entrare gli insetti, in un giorno d’estate in campagna. Papà ma chi stiamo aspettando, così gli si rivolgeva e l’adulto che faceva il finto gnorri. Buttava un’occhio all’orologio e si metteva di nuovo di vedetta, su ciglio della provinciale. Qualche auto di passaggio, l’autobus di linea, e ancora la richiesta di spiegazioni e la risposta negata. “Staranno aspettando Durante con il suo camion”, mi ha detto allora Angiolina che era l’amica di famiglia da cui stavo trascorrendo qualche giorno mentre la nonna era in ospedale per i suoi esami periodici. Durante era una specie di corriere che faceva la spola quotidiana tra la città e il paese per trasporti di vario genere. Le riviste per il giornalaio, pacchi e vettovaglie per i villeggianti, cose così. Aveva dei punti di consegne dove si raccoglievano i destinatari o chi gli commissionava le spedizioni. Il parcheggio del cinema, il ferramenta e la fermata lì sotto, per gli abitanti di quella che era una frazione popolosa di turisti stagionali nella bella stagione. Così quando ho sentito il padre esclamare che finalmente stava arrivando e il figlio chiedere sta arrivando chi, non ho resistito dalla curiosità e mi sono affacciato al balcone per capire meglio. Durante è comparso oltre la curva e ha parcheggiato il suo camion rosso con il telone verde proprio davanti a me quindi è sceso dall’abitacolo, mentre padre e figlio gli sono andati incontro. Il padre ha quindi estratto dal taschino della camicia qualche banconota, e il corriere è salito nel cassone portando fuori una bicicletta nuova fiammante. Il ragazzo è rimasto senza parole e io anche perché la bici era bellissima. Blu, un modello da cross con lo schienale nero, una bici da ricchi. Il figlio è salito in sella ma si vede che aveva imparato da poco malgrado fosse già grande, stava in equilibrio per qualche pedalata e poi doveva mettere i piedi a terra, e io ho pensato che poteva essere più facile imparare così, con il massimo della tecnologia a disposizione.

tempo variabile

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Rientrando in bici, consumato un gelato dopo cena tra la brezza della sera di un’estate tutto sommato mite e la solita ricognizione di zanzare, ho notato mia figlia osservare con interesse i gruppetti di adolescenti in libera uscita. Le ragazze con gli shorts di jeans per mano ai ragazzini e quel modo totalizzante di vivere la compagnia e il fascino dei pari che si ha solo a quell’età, che è una cosa che terrorizza ogni genitore, il sottoscritto in primis. E quasi a volerselo tirare contro, sono stato freddato all’istante con un commento inequivocabile, “non vedo l’ora di avere sedici anni”. E quando le ho chiesto perché, che cosa la attirasse del doppio della sua età attuale, mi ha risposto adducendo esempi che possono essere ricondotti a una idealizzazione dell’indipendenza e del desiderio di vivere esperienze al di fuori della famiglia, inclusa la sfera sentimentale. Ho retto il duro colpo, peraltro inferto come se fosse naturale – che poi è naturale – che una bambina veda con ammirazione gli adolescenti e aspiri a crescere. Così mi sono speso in un velato suggerimento nel considerare tutti i vantaggi dell’essere più piccoli, spiegandole che anelare ad attraversare in fretta periodi della propria vita per raggiungerne altri è un peccato, viste le peculiarità e le gioie stesse che ogni fase della crescita ci riserva. Senza contare che l’infanzia è una dei migliori, e non solo perché si ha tutta la vita davanti. Ma come per incanto è accaduto il capovolgimento di fronte, il vero indice rivelatore di un’età di mezzo e di preparazione. Una volta a casa, concessa la possibilità di seguire un cartone insieme prima di coricarci, mia figlia ha scelto un episodio dei Barbapapà, personaggi e storie che le piacevano in età prescolastica. Non vi nascondo il piacere egoistico che ho provato nel ritrovare, di fronte a quella surreale e fantasiosa famiglia di trasformisti, la mia bambina di otto anni e il divertimento allo stato puro. Ma giuro che non l’ho dato a vedere.

il giorno in cui la differenza di età si riduce

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Non c’è molto da dire e questo è un vero peccato. Per me che ho la certezza che il tempo non debba mai essere utilizzato standosene zitti si tratta una vera disdetta, così continuo a fare domande e a ottenere risposte fino a quando il dialogo si estingue perché il gioco passa di mano e toccherebbe a me essere l’oggetto dell’interrogatorio, ma a quel punto gli argomenti si sono esauriti. C’è una frattura lunga venti, addirittura trent’anni dopodiché l’interesse dello scambio tra adulti, quando ci sono adulti anziani genitori da una parte e adulti figli di mezza età dall’altra, si limita a cose molto contingenti e lo stare insieme si riduce a un pranzo e una cena e poi un pranzo ancora, e in mezzo un sonnellino perché è un diritto di chi ha una certa età, lo so, e poi c’è la notte e dopo si parte per ritornare. Ci sono molte cose sottintese, forse, ma a me piacerebbe che qualcuno me le sbattesse sul muso, una volta per tutte, possibilmente almeno prima della penultima visita, così da avere un po’ di margine per rifletterci su e dedicare l’ultima a tutto quello su cui ci sarà da ridere insieme.

la vita è un trekking

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A essere irragionevoli nessuno vorrebbe mai privarsi della compagnia dei propri figli per lunghi periodi, cosa che in estate è facile che accada. Anzi si spendono fior di quattrini per sottrarre i bambini all’afa delle città organizzando per loro vacanze, campi e soggiorni vari per consentirgli di godere appieno dei mesi estivi precedenti alla vacanza ufficiale, quella di agosto con mamma e papà. Si paga per allontanarli da noi ma è per il loro bene. Ora non so voi ma a me l’idea che domattina mia figlia parta per una settimana di montagna con un gruppo organizzato di coetanei mi pesa non poco, vuoi perché è piccola o almeno io la vedo tale perché di anni ne ha otto e proprio piccolissima non è. E sono certo che magari un po’ di malinconia le verrà anche perché è solo la seconda volta che capita, però poi tutto andrà liscio. E se attivo il filtro della ragionevolezza sono contento, sarà un’esperienza edificante e si divertirà. Mia moglie ed io invece difficilmente ci abitueremo, né questa volta né quelle future e lo so che sbagliamo e che un giorno nostra figlia avrà una vita indipendentemente da noi. Ma ora, finché si può, pensiamo che sarebbe bello stare sempre insieme e non staccarci mai perché un po’ di ricchezza c’è, in tutto questo. Diventiamo tutti un po’ più completi perché è dalla crescita millimetrica quotidiana dei nostri figli – quella che non ti fa accorgere che crescono se non guardando le vecchie foto – che ricaviamo tutta quella piacevolezza che altrove si fa presto a smarrire, basta trovare sulla propria strada qualcuno che si è messo di sbieco e si deve rifare tutto da capo, insomma avete capito a cosa mi riferisco. Invece a fare il genitore con i suoi alti e i suoi bassi – voglio dire, anche i genitori di Pietro Maso erano genitori – comunque qualche soddisfazione la ottieni e non solo perché ci hai messo del tuo ma perché c’è del miracoloso – non saprei come altro definirlo – in quella materia che pensa e che parla e fa i capricci e che porta a casa la pagella ed è una variabile da riempire giorno per giorno con un valore diverso, fino a quando a riempirla non sei più tu. Quindi ci si controlla perché a essere irragionevoli i figli ti prendono per matto, e si effettuano i bonifici per le settimane di distacco, i giorni prima ad attaccare le etichette adesive sui sacchetti con gli indumenti da mettere nello zaino, la borraccia da un litro o quella da mezzo e così via. L’allenamento, il mio per le assenze future, è appena agli inizi.